“Donne&Fascismo”. «Il
mio M, “quel schifus”, testo di Natalia Aspesi pubblicato sul settimanale “il
Venerdì di Repubblica” del 3 di gennaio 2025: Sono nata il 24 giugno 1929 col
fascismo e morirò di nuovo, adesso, col fascismo – o con il tentativo, anche
ridicolo, di assomigliargli. Era la cosa che temevo di più, e infatti. Non so
come sia andata la mia nascita, pare in bagno, ma credo che la mia velocità nel
trovarmi di colpo nata e urlante sia dipesa dal desiderio di salvarmi dal
grande letto molto menagramo in cui misteriosamente ero stata concepita. Un
letto dalla enorme testata di legno nero da cui sporgeva minacciosa la testa, a
grandezza naturale, in bronzo, di Gesù con una corona di spine, ferite
gocciolanti e persino lacrime: una specie di minaccia che escludeva qualsiasi
gesto d’amore. Quella sfiga che immagino si sia abbattuta anche su altri
nascituri, a me, alla fine, ha portato bene: e oggi, toccando ferro, e persino
col buffo Salvini, quelli nati come me si sentono quasi protetti dagli orrori
di guerre e genocidi e fosse comuni: tanto noi, nel mondo, malgrado le urla
scomposte della piccola Meloni, non contiamo proprio nulla – per nostra grande
fortuna. Di mio padre non rammento nulla perché, povero Cesare, si è perso nei
miei ricordi. Ma quando passo in corso Sempione, quella casa rosa e gentile mi
dice che forse lì stavamo bene, agli inizi, e che mio padre doveva esserci. Poi
scomparve in una clinica e poco dopo mi dissero che non c’era più. In
quell’estate del ’29 non ero nata solo io ma anche Anna Maria Mussolini, il 3
settembre, quinta e ultima figlia avuta dalla Rachele, la moglie buona. (…). Vivevamo
in una nuova ristrettezza dovuta al solo stipendio della mamma, maestra, da
poco dimezzato per rendere più gloriosi i nostri Fasci. Per vivere, dopo la
scuola, dava lezioni alle bambine per prepararle all’esame littorio di quinta
elementare. La mia mamma era una donna ciccia e dolce che alla fine della
lezione accompagnava le cinque o sei bambine alla porta, raccomandando loro di
unirsi, con squisita grazia, alle loro mamme, e poi con una voce di colpo molto
severa, quasi terrorizzante, diceva loro «Va a da’ via i ciap!» e noi bambine
di casa finalmente contente di poter tornare da lei. Maria Pia era di sei anni
più grande di me, ed era molto carina. Mi assomigliava, ma senza tutte le cose
che facevano di me una bruttina. Aveva un gran cespuglio di capelli biondi
crespi, occhi azzurri, era alta e sinuosa, con una passione per il cinema
italiano di cui raccoglieva le foto e sapeva tutto: comprava i settimanali come
Nonvella che noi chiamavamo così perché in mezzo al Novella c’era sempre
stampata una N in più, o viola o verde. La mia bella sorella ci aveva già
informate che mai in tutta la sua vita avrebbe lavorato perché lavorare era
orribile e lei avrebbe trovato di meglio da fare. Tanto c’era la mamma maestra
e c’ero io, che a me la voglia di lavorare sarebbe poi venuta fuori. Io intanto
venivo costretta a mettere un golf giallo canarino che avrebbe reso livida
chiunque. Erano le prime serate sotto le bombe, e già sognavo un folle rapporto
con un ragioniere bruttino. La mia mamma aveva avuto parecchi fidanzati, era
molto carina, ma tutti scappavano quando si accorgevano che la bella giovinetta
non solo non aveva soldi, ma che nei giorni di pioggia metteva nelle scarpe una
cartolina per non bagnarsi i piedi dentro la suola troppo rifatta. Finalmente
si sposò con un vicino di casa, il Cesare Aspesi. Lei era sottile, deliziosa,
pesava meno di 50 chili. Ma in poco più di un anno superò i 70, felicissima di
poter mangiare quanto voleva senza nessuno che ne provasse orrore. Da allora fu
per sempre grassa. E sempre malvestita. La famiglia di mio padre era composta
di due persone, la mamma e una sorella, Giovanna, zitella, che secondo le
regole era incattivita. Vivevano a Gallarate e pur non avendone alcuna voglia
andavamo a trovarle. Abitavano in una casa a ringhiera, ogni appartamento era
composto da due locali e il gabinetto in fondo al balcone, per tutti. «E pensà
che ghè là una tera che la fa gnent»! (e pensare che c’è tutta quella terra che
non serve a niente!) era la frase detta fissando l’elegante madre sempre con
abito lungo e la parrucca rosa, che così veniva sgridata in quanto viva, perché
avevano già da tempo comprato la terra per la sua sepoltura. Per fortuna c’era
anche la bella famiglia di mia madre. Il nonno veniva dall’Umbria, ed era
professore di latino, e infatti eravamo pieni dei suoi libri che però non ho
mai visto nessuno leggere. A cinquant’anni mia nonna, stufa di lavare i gelidi
panni nel cortile, preferì andarsene, cioè morire, tanto di figli ne aveva
fatti undici, e vivi ne erano rimasti sette: ogni volta che restava incinta il
nonno si infuriava e le dava la colpa. Zio Peppino, zio Emanuele, zio Goffredo,
poi la mia mamma e poi la più anziana, Nicola, vedova, che ebbe due figli
importanti, l’Alberto, disegnatore, e Anna Piaggi, la mia amata cugina, una vera
star della moda che stava diventando il prêt-à-porter, adorata dai meravigliosi
finocchi che la invitavano nei loro grandiosi castelli. Poi c’era anche la zia
Delia, la più piccola che era caduta e rimasta zoppa. I miei zii maschi si
divertivano e non facevano nulla, tanto c’erano le donne che lavoravano per
loro: a 14 anni zia Nicola fu mandata a fare la guardarobiera, la Tina fu
subito impiegata, e la mia mamma, che aveva studiato, andò a fare la maestra.
Gli zii andarono tutti a imparare e diventarono abbastanza ricchi. Ormai
vivevano tutti a Milano e credo di non aver mai incontrato nella mia vita una
famiglia così unita ma soprattutto così sveglia. Tutti sposati con belle
signore ossigenate che venivano da chissà dove ed erano pigrissime. Adesso non
so dirvi perché, ma erano tutti molto antifascisti, però del tipo che se la
ridevano e chiamavano il povero Mussolini "quel schifus”. Chi invece finì
a non conquistare la Russia fu Goffredo, il più giovane dei De Vincentis, e il
più furbo. Lui sapeva già come tutte le persone informate che sarebbe stata una
disfatta. Il suo compito era guidare un camion nelle gelide notti del Nord ma
lui, non si sa mai, riuscì a tenere una parte della benzina al caldo (la
benzina gelata non serviva). Gli uomini attorno a lui avevano i piedi congelati
per via delle scarpe troppo leggere e lui nella confusione di quella orribile
guerra, in cui tutti morivano senza sapere il perché, riuscì a usare la benzina
risparmiata e a tornare, con pochi altri, da quel viaggio nell’orrore. Anche la
mia mamma detestava chiunque sapesse di Fascio, e a scuola a un certo punto fu
chiamata perché spiegasse le ragioni per cui non portava la divisa. Così lei,
ubbidiente, in via Rasori ci andò con la divisa ma poi alle bambine diceva: «E
adesso per andare al gabinetto mettiamoci la giusta divisa». Era una sua
piccola vendetta e si poteva fare. Con me fece lo stesso: alle adunate del
sabato, gonna nera, camicia bianca, mantello nero, scarpe nere, mi faceva
mettere sempre le scarpe marroni, che stavano malissimo e per via delle quali
sempre venivo sgridata – cosa a cui ero ormai abituata. Non credo di aver mai
conosciuto una madre meravigliosa come la mia, capace di non parlarmi mai
dell’uomo che detestava però prendendolo in giro. Cominciavo a sentire il peso
della guerra abbastanza presto. Andavo tutti i pomeriggi a schettinare in un
campo in via Washington (tutti i giorni, in un angolo brullo, c’era un signore
con la patta aperta e io, che non avevo uomini in casa e non conoscevo gli
abissi del sesso, potevo curiosare – ma ero miope). Capitava spesso che le
sirene urlassero anche al pomeriggio. Allora tornavo verso casa e mi fermavo
dove c’era uno di quei rifugi che se colpiti si moriva tra le macerie, ma
fortunatamente non è mai successo. Era la fame che ci tormentava: a Milano
c’era di tutto, bastava avere i soldi al mercato nero, ma noi non li avevamo.
Mandavano me dal panettiere sperando che essendo allora magrissima, per fame
(mi avrebbero poi chiamato Fernandel, dalla serie Don Camillo), avrei commosso
chi presiedeva alla distribuzione del cibo, ma quelli invece neppure mi
calcolavano: la dose era 100 grammi per noi bambini e 50 per gli altri. Poi ci
fu il disastro della farina di carrube, quando scomparve quella di grano:
diventava subito molle, immangiabile persino da noi. Chissà se i filonazisti
sognano ancora come meraviglia ciò che io, contentissima, ho avuto. Per esempio
correre con una mia amica della scuola a casa sua, dove in segreto estraeva un
bidone con pezzi di pollo cotto che brillavano nel grasso. A me parevano
buonissimi e solo di notte mi sentivo male, ma ne valeva la pena. Intanto
anch’io diventavo grande e cominciavo a innamorarmi decine di volte, ma
inutilmente – e sì che avevo i capelli lisci e lunghi come piace adesso.
Mussolini era tragicamente caduto e ormai c’era la vita. Portavo ancora le
orride scarpe Vibram, che poi mi sembrarono bellissime.
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