"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 8 gennaio 2025

Lastoriasiamonoi. 24 Natalia Aspesi: «Non so dirvi perché, ma erano tutti molto antifascisti, però del tipo che se la ridevano e chiamavano il povero Mussolini "quel schifus”».

                            Sopra. Natalia Aspesi in braccio alla mamma.
 
Donne&Fascismo”. «Il mio M, “quel schifus”, testo di Natalia Aspesi pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 3 di gennaio 2025: Sono nata il 24 giugno 1929 col fascismo e morirò di nuovo, adesso, col fascismo – o con il tentativo, anche ridicolo, di assomigliargli. Era la cosa che temevo di più, e infatti. Non so come sia andata la mia nascita, pare in bagno, ma credo che la mia velocità nel trovarmi di colpo nata e urlante sia dipesa dal desiderio di salvarmi dal grande letto molto menagramo in cui misteriosamente ero stata concepita. Un letto dalla enorme testata di legno nero da cui sporgeva minacciosa la testa, a grandezza naturale, in bronzo, di Gesù con una corona di spine, ferite gocciolanti e persino lacrime: una specie di minaccia che escludeva qualsiasi gesto d’amore. Quella sfiga che immagino si sia abbattuta anche su altri nascituri, a me, alla fine, ha portato bene: e oggi, toccando ferro, e persino col buffo Salvini, quelli nati come me si sentono quasi protetti dagli orrori di guerre e genocidi e fosse comuni: tanto noi, nel mondo, malgrado le urla scomposte della piccola Meloni, non contiamo proprio nulla – per nostra grande fortuna. Di mio padre non rammento nulla perché, povero Cesare, si è perso nei miei ricordi. Ma quando passo in corso Sempione, quella casa rosa e gentile mi dice che forse lì stavamo bene, agli inizi, e che mio padre doveva esserci. Poi scomparve in una clinica e poco dopo mi dissero che non c’era più. In quell’estate del ’29 non ero nata solo io ma anche Anna Maria Mussolini, il 3 settembre, quinta e ultima figlia avuta dalla Rachele, la moglie buona. (…). Vivevamo in una nuova ristrettezza dovuta al solo stipendio della mamma, maestra, da poco dimezzato per rendere più gloriosi i nostri Fasci. Per vivere, dopo la scuola, dava lezioni alle bambine per prepararle all’esame littorio di quinta elementare. La mia mamma era una donna ciccia e dolce che alla fine della lezione accompagnava le cinque o sei bambine alla porta, raccomandando loro di unirsi, con squisita grazia, alle loro mamme, e poi con una voce di colpo molto severa, quasi terrorizzante, diceva loro «Va a da’ via i ciap!» e noi bambine di casa finalmente contente di poter tornare da lei. Maria Pia era di sei anni più grande di me, ed era molto carina. Mi assomigliava, ma senza tutte le cose che facevano di me una bruttina. Aveva un gran cespuglio di capelli biondi crespi, occhi azzurri, era alta e sinuosa, con una passione per il cinema italiano di cui raccoglieva le foto e sapeva tutto: comprava i settimanali come Nonvella che noi chiamavamo così perché in mezzo al Novella c’era sempre stampata una N in più, o viola o verde. La mia bella sorella ci aveva già informate che mai in tutta la sua vita avrebbe lavorato perché lavorare era orribile e lei avrebbe trovato di meglio da fare. Tanto c’era la mamma maestra e c’ero io, che a me la voglia di lavorare sarebbe poi venuta fuori. Io intanto venivo costretta a mettere un golf giallo canarino che avrebbe reso livida chiunque. Erano le prime serate sotto le bombe, e già sognavo un folle rapporto con un ragioniere bruttino. La mia mamma aveva avuto parecchi fidanzati, era molto carina, ma tutti scappavano quando si accorgevano che la bella giovinetta non solo non aveva soldi, ma che nei giorni di pioggia metteva nelle scarpe una cartolina per non bagnarsi i piedi dentro la suola troppo rifatta. Finalmente si sposò con un vicino di casa, il Cesare Aspesi. Lei era sottile, deliziosa, pesava meno di 50 chili. Ma in poco più di un anno superò i 70, felicissima di poter mangiare quanto voleva senza nessuno che ne provasse orrore. Da allora fu per sempre grassa. E sempre malvestita. La famiglia di mio padre era composta di due persone, la mamma e una sorella, Giovanna, zitella, che secondo le regole era incattivita. Vivevano a Gallarate e pur non avendone alcuna voglia andavamo a trovarle. Abitavano in una casa a ringhiera, ogni appartamento era composto da due locali e il gabinetto in fondo al balcone, per tutti. «E pensà che ghè là una tera che la fa gnent»! (e pensare che c’è tutta quella terra che non serve a niente!) era la frase detta fissando l’elegante madre sempre con abito lungo e la parrucca rosa, che così veniva sgridata in quanto viva, perché avevano già da tempo comprato la terra per la sua sepoltura. Per fortuna c’era anche la bella famiglia di mia madre. Il nonno veniva dall’Umbria, ed era professore di latino, e infatti eravamo pieni dei suoi libri che però non ho mai visto nessuno leggere. A cinquant’anni mia nonna, stufa di lavare i gelidi panni nel cortile, preferì andarsene, cioè morire, tanto di figli ne aveva fatti undici, e vivi ne erano rimasti sette: ogni volta che restava incinta il nonno si infuriava e le dava la colpa. Zio Peppino, zio Emanuele, zio Goffredo, poi la mia mamma e poi la più anziana, Nicola, vedova, che ebbe due figli importanti, l’Alberto, disegnatore, e Anna Piaggi, la mia amata cugina, una vera star della moda che stava diventando il prêt-à-porter, adorata dai meravigliosi finocchi che la invitavano nei loro grandiosi castelli. Poi c’era anche la zia Delia, la più piccola che era caduta e rimasta zoppa. I miei zii maschi si divertivano e non facevano nulla, tanto c’erano le donne che lavoravano per loro: a 14 anni zia Nicola fu mandata a fare la guardarobiera, la Tina fu subito impiegata, e la mia mamma, che aveva studiato, andò a fare la maestra. Gli zii andarono tutti a imparare e diventarono abbastanza ricchi. Ormai vivevano tutti a Milano e credo di non aver mai incontrato nella mia vita una famiglia così unita ma soprattutto così sveglia. Tutti sposati con belle signore ossigenate che venivano da chissà dove ed erano pigrissime. Adesso non so dirvi perché, ma erano tutti molto antifascisti, però del tipo che se la ridevano e chiamavano il povero Mussolini "quel schifus”. Chi invece finì a non conquistare la Russia fu Goffredo, il più giovane dei De Vincentis, e il più furbo. Lui sapeva già come tutte le persone informate che sarebbe stata una disfatta. Il suo compito era guidare un camion nelle gelide notti del Nord ma lui, non si sa mai, riuscì a tenere una parte della benzina al caldo (la benzina gelata non serviva). Gli uomini attorno a lui avevano i piedi congelati per via delle scarpe troppo leggere e lui nella confusione di quella orribile guerra, in cui tutti morivano senza sapere il perché, riuscì a usare la benzina risparmiata e a tornare, con pochi altri, da quel viaggio nell’orrore. Anche la mia mamma detestava chiunque sapesse di Fascio, e a scuola a un certo punto fu chiamata perché spiegasse le ragioni per cui non portava la divisa. Così lei, ubbidiente, in via Rasori ci andò con la divisa ma poi alle bambine diceva: «E adesso per andare al gabinetto mettiamoci la giusta divisa». Era una sua piccola vendetta e si poteva fare. Con me fece lo stesso: alle adunate del sabato, gonna nera, camicia bianca, mantello nero, scarpe nere, mi faceva mettere sempre le scarpe marroni, che stavano malissimo e per via delle quali sempre venivo sgridata – cosa a cui ero ormai abituata. Non credo di aver mai conosciuto una madre meravigliosa come la mia, capace di non parlarmi mai dell’uomo che detestava però prendendolo in giro. Cominciavo a sentire il peso della guerra abbastanza presto. Andavo tutti i pomeriggi a schettinare in un campo in via Washington (tutti i giorni, in un angolo brullo, c’era un signore con la patta aperta e io, che non avevo uomini in casa e non conoscevo gli abissi del sesso, potevo curiosare – ma ero miope). Capitava spesso che le sirene urlassero anche al pomeriggio. Allora tornavo verso casa e mi fermavo dove c’era uno di quei rifugi che se colpiti si moriva tra le macerie, ma fortunatamente non è mai successo. Era la fame che ci tormentava: a Milano c’era di tutto, bastava avere i soldi al mercato nero, ma noi non li avevamo. Mandavano me dal panettiere sperando che essendo allora magrissima, per fame (mi avrebbero poi chiamato Fernandel, dalla serie Don Camillo), avrei commosso chi presiedeva alla distribuzione del cibo, ma quelli invece neppure mi calcolavano: la dose era 100 grammi per noi bambini e 50 per gli altri. Poi ci fu il disastro della farina di carrube, quando scomparve quella di grano: diventava subito molle, immangiabile persino da noi. Chissà se i filonazisti sognano ancora come meraviglia ciò che io, contentissima, ho avuto. Per esempio correre con una mia amica della scuola a casa sua, dove in segreto estraeva un bidone con pezzi di pollo cotto che brillavano nel grasso. A me parevano buonissimi e solo di notte mi sentivo male, ma ne valeva la pena. Intanto anch’io diventavo grande e cominciavo a innamorarmi decine di volte, ma inutilmente – e sì che avevo i capelli lisci e lunghi come piace adesso. Mussolini era tragicamente caduto e ormai c’era la vita. Portavo ancora le orride scarpe Vibram, che poi mi sembrarono bellissime.

Nessun commento:

Posta un commento