"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 22 gennaio 2025

CosedalMondo. 29 Piero Bevilacqua: «Hanno creato l’humus ideale per cui si può rimanere indifferenti di fronte alla perdita seriale di migliaia di vite, donne e bambini, come di oggetti di deprivata utilità sociale».


Vorrei dedicare questa piccola rubrichetta ai settantuno (71) miliardari italiani che nel 2024 – per quasi tutti gli altri annus horribilis – hanno aumentato la loro ricchezza complessiva di 61,1 miliardi di euro, cioè in media di 860 milioni in più ciascuno (fonte: Rapporto Oxfam sulla diseguaglianza, gennaio 2025). Calcolatrice alla mano, possiamo dire che un miliardario italiano nel 2024 ha aumentato la sua ricchezza di oltre più di 7 milioni al mese, che significa 9.800 euro e passa all’ora – un eccellente salario minimo – calcolando anche le ore di sonno, quelle passate al golf, quelle dedicate alle dichiarazioni allarmate sulla grande “invidia sociale” che turba il Paese. Niente male, come performance di un pugno di persone: quella dei miliardari (non solo in Italia) è la minoranza più protetta del pianeta. Il 63 per cento di tutti questi soldi (valore complessivo stimato: 272,5 miliardi di euro) è frutto di eredità. Cioè, mi spiego: muore il babbo miliardario, o lo zio, o un parente qualsiasi, e ti ritrovi miliardario anche tu, senza aver mosso un dito, cosa che presumibilmente aveva fatto anche quello che ti ha lasciato l’eredità, e magari pure il nonno, e in certi casi per risalire all’accumulazione originaria bisogna tornare indietro di secoli. Forse bisognerebbe tenersi in tasca un foglietto con queste cifre, e tirarlo fuori alla bisogna ogni volta che qualcuno intavola il più truffaldino e vergognoso discorso che esista: il discorso sul “merito”. Certo, è un merito anche esser nati nella famiglia giusta (una qualsiasi delle settantuno), ed è un merito che – lo dico con una formula popolare – si chiama “culo”. Esempio: sei in clinica, sei appena nato, apri gli occhi e chiedi: “Dove sono capitato?”. Se la risposta è “famiglia operaia di Catanzaro”, esci pure con le mani alzate; se invece ti dicono “figlio di miliardario”, puoi cominciare a elaborare, dopo la prima poppata, il discorso sul merito, che va premiato, ovvio. Mettiamo invece il caso che di mestiere pedali su una bicicletta e consegni pizze ai clienti, che hai come capufficio un algoritmo, che vieni pagato 2 euro e 50 a consegna. Bene, per aumentare la tua ricchezza di 86 milioni all’anno, dovresti consegnare 94.246 pizze ogni giorno, compresi Natale e Capodanno, senza fermarti mai nemmeno per un minuto. Immagino che, pedalando a quel ritmo, giorno e notte, tu abbia il tempo per riflettere su questa questione del merito, e anche sul fatto che in eredità a tuo figlio – se hai potuto farlo senza scendere dalla sella – potrai lasciare se va bene la bicicletta, in modo da perpetuare all’infinito questo entusiasmante tipo di sfruttamento. Se ti incazzi, se trovi che non sia giusto, se ti viene in mente qualche pensiero maligno (tipo la “rivolta sociale” di cui ha parlato Landini), ecco che balza su in automatico qualche astuto commentatore (“liberale”, ovvio) a dire che la tua è invidia sociale, che trovi il sistema ingiusto perché sei invidioso. I dati dicono che gli invidiosi aumentano, comunque, e anche che a difendere i miliardari non sono solo i miliardari, ma un sacco di brave persone che si fanno un mazzo così e rimangono faticosamente a galla sulla soglia di povertà pur lavorando (con merito). Il che rappresenta – se ci pensate – il vero capolavoro del capitalismo: fare in modo che i poveri odino i poveri, e mentre voi leggevate questa rubrichina (calcolo tre minuti di lettura) un miliardario italiano ha aumentato la sua ricchezza di 500 euro. Beh, dai, è il merito, no? (Tratto da “Meriti. La vera minoranza protetta a livello planetario: il miliardario” di Alessandro Robecchi pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, 22 di gennaio 2025).

“Il lavoro svilito, origine della moderna barbarie”, testo di Piero Bevilacqua pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, 21 di gennaio 2025: Lo scenario di barbarie che le guerre in corso ci squadernano ormai da tempo, induce al pensiero sommario di assegnare la responsabilità di tutto alla belva sanguinaria che è in ognuno di noi. Continuiamo a risolvere le divergenze fra individui e popoli facendoci guerra come ai primordi della storia umana. Eppure, come non chiederci: sarebbe stato possibile lo spettacolo di oggi 50 anni fa? Il silenzio con cui le popolazioni europee assistono da oltre un anno attraverso le loro domestiche Tv, al massacro quotidiano del popolo palestinese? In realtà lo stato di regressione civile delle società umane è largamente visibile da tempo, precede le guerre in corso e le prescinde. Esso non costituisce solo un dato antropologico per così dire primigenio, ma è anche un portato poco osservato della modernità. In fondo è la vita umana che ha perso valore agli occhi stessi degli uomini. Negli ultimi decenni il nichilismo è diventato popolare. La “morte di Dio”, con tutto il seguito di perdita di fondamenti e di sacralità della vita, è sceso dai cieli della filosofia e cammina per le le strade del mondo. Ma negli ultimi decenni è avanzato un altro sotterraneo processo di svalutazione della vita che proviene dai sommovimenti sociali. È la gigantesca perdita di valore che ha subito il lavoro. Non dimentichiamo che l’età contemporanea, l’epoca che inaugura la società capitalistico-industriale, scopre per la prima volta il lavoro quale fonte originaria della ricchezza. Adam Smith, fondatore del pensiero economico moderno, l’aveva riconosciuto nella sua Inquiry sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Marx, com’è noto, fa del lavoro sfruttato e alienato, la classe operaia, l’avanguardia di umanità messianica destinata a cambiare il mondo e a farlo approdare a un nuovo assetto di civiltà. Tutto il pensiero socialista in età contemporanea assegna alla classe lavoratrice il compito di rivoluzionare la società. Dagli anni 80 del Novecento lo sviluppo del capitalismo deregolato, insieme a vari processi della storia mondiale, ha mandato in frantumi la vecchia configurazione classista del lavoro operaio, sterilizzato tutti gli elementi culturali, simbolici, spirituali che l’avevano accompagnato. Ma, come oggi appare chiaro, è la stessa trasformazione interna del capitalismo che riduce il ruolo dell’operaio nella creazione della ricchezza, grazie all’enorme crescita della stessa produttività del lavoro. Come previsto da Marx, nel suo incessante processo di innovazione, il capitale è destinato a produrre merci con sempre meno operai. Ricordava André Gorz nel 2005: “Con l’informatizzazione e l’automazione, il lavoro ha smesso di essere la principale forza produttiva e i salari hanno smesso di essere il costo principale della produzione”. Ma questo grande balzo del progresso tecnico pone una questione inaggirabile: “Quando la società produce sempre più ricchezza con sempre meno lavoro, come può far dipendere il reddito di ognuno dalla quantità di lavoro che fornisce?”. A questo punto dello sviluppo capitalistico le società umane avrebbero dovuto imboccare un assetto inedito di organizzazione della vita collettiva: il dimezzamento dell’orario di lavoro, l’approdo a una regolata distribuzione dell’occupazione, pena la creazione di un esercito di disoccupati e di lavoratori precari. Un inedito scenario di benessere collettivo o la creazione di un popolo di paria. Sappiamo quale strada è stata imboccata. Il processo di accumulazione della ricchezza sempre più affidato alla massimizzazione finanziaria, all’economia cartacea, sempre meno alla produzione di beni e alla loro distribuzione. L’origine della ricchezza è riconosciuta sempre più nelle macchine. Così l’organizzazione collettiva del tempo di lavoro è rimasta quella della società industriale; e il lavoro (dietro cui c’è la persona umana) ha perso gran parte della sua utilità economica, diventando un mezzo qualsiasi nell’obsolescenza programmata di tutte le merci. Di conseguenza le disuguaglianze lacerano il corpo sociale, la galassia dei lavoratori si riduce a massa dannata, strumento flessibile della macchina produttiva. E dentro la sempre più torva china utilitaristica del nostro tempo, la svilita funzione del lavoro trascina nella svalutazione l’umanità del lavoratore e quella di tutti. Da tale angolazione storica appare in piena luce il contenuto nichilistico e disumanizzante delle politiche di flessibilità del lavoro condotte dai partiti politici negli ultimi tre decenni. Essi hanno operato, e operano per la svalutazione della vita, contribuiscono alla barbarie civile. Hanno creato l’humus ideale per cui si può rimanere indifferenti di fronte alla perdita seriale di migliaia di vite, donne e bambini, come di oggetti di deprivata utilità sociale.

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