«Auschwitz,
il pudore su “noi pochi vivi”», testo di Claudio Fracassi pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 27 di gennaio 2025: Ha annotato il ragazzo scampato alla morte
(e poi diventato scrittore): "Nell'infermeria del lager eravamo rimasti in
ottocento. Tutti i prigionieri cosiddetti sani erano stati evacuati, in
condizioni spaventose, su Buchenwald e su Mauthausen, mentre i malati furono
abbandonati a sé stessi. La prima pattuglia russa giunse in vista del campo
verso mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles e io i primi a scorgerla:
stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti
fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta,
ché la fossa era ormai piena. Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e
i morti. Loro erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano
guardinghi, coi mitragliatori imbracciati. Quando giunsero ai reticolati,
sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide e volgendo sguardi legati
da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e
su noi pochi vivi. Quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; dai visi
rozzi e puerili, sotto i pesanti caschi di pelo. Non sa-lutavano, non
sorridevano: apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno...
Così per noi anche l'ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli
animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso del pudore - per cui
avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie dalla bruttura
che vi giaceva - e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire,
che nulla mai più sarebbe potuto avvenire da cancellare il nostro passato. E
che i segni dell'offesa sarebbero rimasti in noi per sempre". Burocrazia,
lavoro e morte: la "macchina" in funzione. Primo Levi, il ragazzo
ventenne poi diventato scrittore, ha raccontato così, in uno dei diari poi
ossessivamente dedicati alla guerra, alle morti e alla vita, i momenti
incredibili e irripetibili, fatti di paura più che di speranza, dell'ultimo
giorno di Auschwitz, il 27 gennaio del 1945, sabato, quello destinato
verificarne e a celebrarne la "liberazione", e quindi la spettacolosa
fine del regno della morte voluto, programmato e costruito dal nazismo al
centro dell'Europa. Nel KZ Auschwitz, Konzentrationslager Auschwitz, aveva
trovato la morte per opera dei nazisti, a partire dal giugno 1940, un numero
imprecisato di esseri umani - forse un milione e centomila, probabilmente un
milione e trecentomila: uomini e donne, in grande maggioranza ebrei (più di un
milione di vittime), rom e sinti, sovietici di varie nazionalità, oppositori
politici, cittadini polacchi, omosessuali, anziani e bambini. I rom, al pari
degli ebrei (e dei sinti), testimoniavano un'antica e radicata passione omicida
del nazismo. Naturalmente, la provenienza etnica e religiosa dei singoli
assassinati era maniacalmente registrata dai ragionieri del campo di
concentramento; ma non tutti i verbali sono stati conservati poiché l'arrivo
delle truppe sovietiche fu in parte inaspettato, in quella primavera del '45.
Era grande, Auschwitz (il nome nuovo che i nazisti - dopo l'occupazione
militare all'inizio della guerra - avevano sostituito a quello polacco di
Oswiecim) e diviso in tre campi principali: "Auschwitz uno" ospitava
il potente apparato burocratico tedesco, arricchito da centinaia di stranieri,
anch'essi destinati alla morte, ma intanto disperatamente illusi di poterla
evitare ubbidendo; "Auschwitz due", comunemente rispondente al nome
di Birkenau, poco distante dal campo uno, era l'efficiente, e gigantesco, campo
di sterminio, funzionante dall'8 ottobre del '42: lì lavorava la ben
organizzata macchina della morte, attraverso le affidabili e rodate camere a
gas, brillantemente in funzione giorno e notte, anche se oberate di lavoro;
infine, "Auschwitz tre" (l'attuale Monowice), entrata in opera a
pieno ritmo solo il 31 ottobre del 1942: lì si erano insediate numerose note
fabbriche tedesche, non solo militari ma civili, che finché era umanamente
possibile e vantaggioso utilizzavano i deportati come manodopera gratuita,
restituendola poi al settore due, quello delle camere a gas, quando
l'operazione non risultava più conveniente. Non pochi degli operai stranieri,
già prima della messa in funzione del Konzentrationlager di Auschwitz, avevano
fatto una utile anche se corrosiva esperienza in 44 "sottocampi"
costruiti durante l'occupazione tedesca della Polonia. Secondo la radicata
abitudine organizzativa dei politici nazisti inventori del campo, il gigantesco
meccanismo uomini-lavoro-morte di Auschwitz aveva al suo vertice una speciale
unità delle SS, le Totenkopfverbande (Unità testa di morto) che comprendeva
anche alcune migliaia di donne. Inoltre, nei ranghi inferiori di sorveglianza e
persecuzione le Sonderkommando (squadre speciali) erano composte non da
tedeschi, ma da stranieri - obbligatoriamente di razza ariana - al loro
servizio. Erano in genere utilizzati come specialisti abituati a smaltire i
corpi delle migliaia di uccisi nelle camere a gas. Nell'autunno del 1943 il
complesso della morte, su decisone dell'autorevole Himmler, fu dotato anche di
alcuni bordelli, allo scopo - si argomentò - di "aumentare la
produttività" di gruppi di detenuti "in attesa di essere
eliminati". Alla fine l'area occupata dal campo di detenzione e sterminio
arrivò a raggiungere, complessivamente, i quaranta chilometri quadrati. La
selezione e il tatuaggio. L'arrivo dei lunghi treni dei deportati, raccolti in
diverse zone d'Europa – 2.500 circa per ogni convoglio - era un giornaliero e
complesso evento: ogni vagone di treno portava in media 120 persone; gli
"inutili" (anziani, ragazzini, malati a prima vista non utilizzabili)
venivano dirottati immediatamente in una delle quattro camere a gas mascherate
da docce e organizzate a Birkenau. I dichiarati abili al lavoro erano invece
subito condotti negli edifici dei bagni, dove dovevano consegnare biancheria,
abiti e ogni tipo di monile; gli uomini potevano conservare la cinta dei
pantaloni. Poi i nuovi arrivati, denudati, subivano una sbrigativa rasatura
totale; seguiva la distribuzione del vestiario da campo: la casacca, un paio di
pantaloni, gli zoccoli. Un'altra selezione stabiliva gli "abili al
lavoro" che erano affidati ad uno speciale e massacrante impegno quotidiano
al servizio di grandi aziende private come la Metal Unione la Siemens
(paradossalmente una di queste società chimiche di cui i lavoratori divenivano
schiavi era la IG Farbem, destinata a sterminarli). Infine, ai nuovi abitanti
di Auschwitz veniva tatuato sull'avanbraccio sinistro un numero. Gli uomini
erano subito separati dalle donne e dai bambini, creando file distinte. Il
personale medico delle SS decideva chi era abile al lavoro. È stato calcolato
che solo il 25% degli ospiti di Auschwitz aveva la possibilità di sopravvivere.
Il restante 75% (costituito da donne, bambini, anziani, madri con figli) veniva
indirizzato direttamente alle camere a gas. Particolarmente efficienti erano le
quattro strutture omicide di Birkenau, dove era utilizzato il gas preferito dagli
esperti, il famoso Zyklon B. I numeri per la distribuzione dei reclusi erano
stabiliti in base alle variabili necessità dell'industria bellica tedesca. Di
fronte al sovraffollamento dei campi si verificò, paradossalmente, anche il
caso di interi treni "complessivamente inutili" inviati direttamente,
dopo l'arrivo ad Auschwitz, nelle camere a gas con tutto il loro carico.
Quando, sabato 27 gennaio 1945, entrarono nel campo denominato Auschwitz e nel
vicino campo di Birkenau, i soldati sovietici trovarono poche migliaia di
persone umane (se così si potevano chiamare) vive e doloranti. Fra i reclusi
(coloro che non erano ancora morti e i malati nei giacigli a tre piani dentro i
locali coperti) c'era gente che ora si trascinava fuori, ma con timidezza e certamente
paura: chi erano quei soldati russi che gridavano di volerli liberare? Le
guardie naziste erano fuggite (complessivamente in bell'ordine), trascinando
con sé in altri campi di lavoro (e di tormento) decine di migliaia di reclusi
ancora utilizzabili. Non ci furono ad Auschwitz scontri armati il 27 gennaio
1945. Sparsi nei locali dei campi di sterminio liberati c'erano mucchi di
zoccoli e divise sporche. I guardiani nazisti e i loro capi erano tutti
scappati: molti sopravvissuti ancora rintanati nei luoghi coperti di Auschwitz
avevano paura a uscire. Nel disordine generale i soldati sovietici trovarono,
sparsi per terra, 370mila rozzi e macchiati abiti da uomo, 837mila abiti da
donna, 44mila paia di scarpe e - chissà a che cosa destinate - 7,7 tonnellate
di capelli umani, che secondo un approssimativo calcolo erano appartenuti a
centoquarantamila persone (molto probabilmente l'ultima infornata di morti).
Erano ancora pieni a metà gli scatoloni destinati a riciclare le ceneri dei
forni crematori, al fine di utilizzarle come fertilizzanti. Paradossalmente,
nessuno fra i liberatori pensò, in quel mattino del primo giorno senza nazisti,
di abbattere la gentile scritta illuminata da luci che da quattro anni
accoglieva chi faceva ingresso nel grande territorio denominato Auschwitz:
"Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi. Il ragazzo italiano
Primo Levi, appena diventato scrittore a guerra finita, così ha raccontato la
malattia inguaribile, e mortale, del reduce da quel luogo: "Di tutto quanto
accadeva intorno a me io non mi rendevo conto che in modo saltuario e
indistinto. Pareva che la stanchezza e la malattia, come bestie feroci e vili,
avessero atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per
assaltarmi alle spalle. Non c'erano medici né medicine". Fu così che 1'11
gennaio 1946, a un anno da quel giorno di riscoperta della vita, e insieme di
sofferenza inaudita e incancellabile per l'ingiustizia e la guerra, lo stesso
ragazzo scrisse (a proposito del secco comando gridato in ogni alba - "Wstawac",
"Alzarsi!" - ai morituri di Auschwitz) parole destinate a non essere
mai cancellate dal suo destino di essere umano:
Sognavamo nelle notti feroci Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo: tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve e sommesso il comando dell'alba:
"Wstawac!";
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa, il nostro ventre è sazio. Abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora il comando straniero: "Wstawac!"
(Primo Levi morì suicida nel 1987).
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