"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 26 gennaio 2025

CosedalMondo. 30 David Foster Wallace: «L'alternativa è l'inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito».


Fra rivendicazioni della Groenlandia e successo delle ultradestre un po' ovunque, viene da chiedersi come siamo arrivati fin qui, ovvero dentro una canzone di Francesco De Gregori: era Cercando un altro Egitto, e le strofe in questione erano: «Il terzo reparto celere controlla; / "Non c'è nessun motivo di essere nervosi" / ti dicono agitando i loro sfollagente, / e io dico "Non può essere vero'' / e loro dicono Non è più vero niente"». Per tentare di rispondere si può partire da due frasi: una è dell'allenatore della Juventus, Thiago Motta, che ha destato scalpore per l'affermazione: «Vincere non è un'ossessione». L'altra è di Elon Musk, quando dichiarò: «Fondare una società è come mangiare vetro fissando l'abisso». Una semplice, l'altra ammaliante nella sua insensatezza (Nietzsche fissava l'abisso, ma il vetro se l'è risparmiato). Sembra, inoltre, la riproposizione di un'antica opposizione: vent'anni fa, nel 2005, due uomini parlarono agli studenti, Steve Jobs, con il famoso discorso che culminava nella necessità di essere folli e affamati (e ricchi), e David Foster Wallace, con le parole che vennero poi pubblicate sotto il titolo Questa è l'acqua, dove invitava a dedicarsi agli altri e a pensare: «L'alternativa è l'inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito». Dunque, una delle risposte possibili al come siamo arrivati fin qui è l'ossessione della vittoria: senza eccezioni, a parte il povero Thiago Motta (…). Diciamo che l'obiettivo è diventato più ambizioso, e si passa dalla sopravvivenza dei super-ricchi in caso di catastrofe nucleare alla possibilità di vivere per sempre, che ossessiona non pochi ultramilionari: con l'upload del cervello, con la crioconservazione, oppure affidando il proprio corpo a un team medico e agli algoritmi, (…). O con le reti neurali di Musk. Non c'è molto di diverso rispetto ai tanti scienziati schiavi dell'hybris raccontati dal mito e dal cinema, e di certo Musk è più convincente del Rotwang di Metropolis di Fritz Lang o del Dottor Stranamore. Eppure è una risposta possibile: siamo arrivati fin qui perché la scena mondiale è stata presa da vincenti che promettono un mondo bellissimo, dove si fanno soldi e dove, persino, si potrebbe non morire.  Potendoselo permettere, ovviamente. (…).L’ossessione dei vincenti ci divora tutti. (Tratto da “L’ossessione dei vincenti ci divora tutti” di Loredana Lipperini pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 17 di gennaio 2025).

“JFK: Trump toglie il segreto i misteri no”, testo di Pino Corrias pubblicato su “il Fatto quotidiano” di ieri, sabato 25 di gennaio 2025: L’America viene dal sangue. Qualche volta dal nero inchiostro dei suoi misteri. Il prototipo di quella oscurità ha il sorriso luminoso di John Fitzgerald Kennedy seduto sul sedile di dietro dell'auto presidenziale che si volta, alza la mano e saluta la folla un istante prima che la Storia gli precipiti addosso, prendendosi una scheggia della sua testa, lo spavento di milioni di cuori, trasformando in cenere un'epoca intera che ancora oggi chiamiamo kennediana. Sono le 12:30 in punto del 22 novembre 1963 quando la nera Lincoln Continental X 100 decapottabile scende lungo Elm Street e i tre colpi di fucile irrompono sul cielo blu di Dallas. Merriman Smith, giornalista della United Press, corrispondente decano della Casa Bianca, sta nella quarta auto del seguito. Si impadronisce dell'unico radiotelefono riservato alla stampa. Detta il primo dispaccio di undici parole: "Tre colpi sono stati sparati all'auto del presidente Kennedy a Dallas". E detta il secondo, una manciata di minuti più tardi, quando le auto frenano davanti al Pronto soccorso del Parkland Hospital e l'addetto alla sicurezza Clint Hill gli dice secco: "Il presidente è morto". Le quattro righe che allagheranno le redazioni di tutto il mondo vengono precedute due volte dalla parola "Flash!" e dai quindici squilli di campanello che indicano eventi Earthshaker, capaci di scuotere il pianeta, come la sola altra volta era accaduto per il bombardamento di Pearl Harbour, anno 1941, otto navi affondate dai giapponesi, l'America dal giorno dopo in guerra. Il resto del suo racconto Merriman Smith lo detterà prima da un telefono dell'o-spedale di Dallas, poi da una cabina pubblica dell'aeroporto, poi ancora da un salottino dell'Air Force One, mentre viaggia a 12.500 metri d'altezza, con il corpo di Kennedy adagiato nella bara, Jacqueline ammutolita, e Lyndon B. Johnson che ha appena giurato come nuovo presidente degli Stati Uniti d'America davanti a una Bibbia rimediata al volo, alle facce spaventate dello staff e a quella immobile del giudice Sarah Hughes. Tutto scritto "con il vento del mondo in faccia", mentre "la Storia esplode davanti agli occhi" come strilleranno i titoli del giorno dopo. Anche se Merriman Smith chiuderà asciutto il suo lungo pezzo da premio Pulitzer, mentre in elicottero plana sul prato della Casa Bianca, nell'aria mite e buia di Washington, dettando: "Ci sembrava incredibile che solo sei ore prima John Fitzgerald Kennedy fosse stato un uomo vigoroso e dinamico, che salutava la folla e sorrideva". Lasciando intravedere in quel sorriso di denti candidi del presidente, il solo punto di luce trascinato dentro il mistero del suo delitto e le infinite geometrie del depistaggio. Chi ha sparato? Ce lo chiediamo da 62 anni ormai, ogni indiziato una pista, ogni ipotesi un enigma. È stato il solitario e squilibrato Harvey Lee Oswald, 24 anni, a fare fuoco dal sesto piano del Dallas Book Depository? O c'erano cecchini appostati a sinistra e a destra del corteo come mostrano i 26 secondi di immagini registrate con cinepresa 8 millimetri da un tale Abraham Zapruder, sarto, che filmava il passaggio di Kennedy dalla cima di un muretto? E i cecchini chi erano? Killer ingaggiati dalla mafia di Sam Giancana, detto "Money, il Castigamatti", e dagli anticastristi che volevano riprendersi Cuba con la torta foderata di sale da gioco, cocaina e prostitute? Oppure uomini della Cia, in odio ai fratelli Kennedy troppo liberal per i loro standard? O sicari arruolati dall'Fbi di John Edgar Hoover che regnò sotto otto presidenti statunitensi, fino a Nixon, addetti allo scandalo e qualche volta all'omicidio politico e al suo depistaggio?

Tanti anni fa sono stato a Dallas a visitare il famoso deposito di libri da cui sparò Oswald, la finestra del sesto piano trasformata in una reliquia del museo, un disegno a ricostruire il punto esatto in cui l'assassino si sdraiò tra certi scatoloni per prendere la mira con il suo fucile italiano, Mannilicher-Carcano, calibro 6.5, fabbricato nel 1940, comprato via posta per 12 dollari e 76 centesimi, capace di centrare l'obiettivo prima a 45 metri, poi a 85, compiendo il prodigio del delitto perfetto. L'impressione era che tanta esattezza di dettagli fosse una eccellente copertura turistica ai labirinti investigativi che la famosa Commissione Warren ha coperto per decenni anziché svelare. Arrivando alla conclusione che un solo proiettile aveva fatto tutto il lavoro, di rimbalzo in rimbalzo, prima colpendo JFK al collo, poi alla testa, poi ancora il torace del governatore Conelly che viaggiava sul sedile di fronte e aveva gridato: "Mio Dio, ci ammazzano!". Il famoso "proiettile magico", smentito cento volte dai testimoni e dal buon senso. Così come era eccellente la scelta del capro espiatorio da usare per il più clamoroso dei delitti politici, il giovane ex militare Oswald sociopatico borderline, due mogli, nessun lavoro, un espatrio a Mosca dove visse due anni da fervente comunista, poi il rientro in America, l'affiliazione a una organizzazione devota a Fidel Castro, qualche rissa per tenere in caldo il suo curriculum, la passione per le armi. E poi la sua clamorosa sventatezza di farsi fermare 45 minuti dopo l'attentato da un controllo casuale, sparare e uccidere l'agente J.D. Tippit, entrare di corsa in un cinema senza pagare il biglietto, con la ignara cassiera che chiama il 911 e si vede arrivare 26 poliziotti pronti a fare irruzione in sala per catturarlo. Due giorni di interrogatori confusi, contraddittori, incoerenti, un solo minuto per essere ucciso in diretta tv da Jack Ruby, ex proprietario di Night Club, che lo intercetta nei sotterranei della Polizia di Dallas, armato di 38 Special, davanti a una trentina di telecamere e gli spara due volte gridandogli "Muori, topo di fogna, hai ucciso il mio presidente!”. Che è la procedura standard quando si buttano gli avanzi del complotto, prima di spegnere la luce. Vedremo cosa rivelerà lo scrigno di documenti che Donald Trump, detto il fanfarone, promette di svelare al mondo. Per ora ci accontentiamo della più magistrale ricostruzione di quegli eventi, American Tabloid di James Ellroy con i suoi personaggi - killer, trafficanti, truffatori, mafiosi, sbirri e politici corrotti - che ronzano intorno al sangue di quel delitto. Tutti personaggi abituati a "mangiare carne di tarantola e piscio di pantera", tutti addetti al loro "lavoro di tirapiedi e di formiche" intorno alla tavola che li sfama. Scrive Ellroy: "L'America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave, durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto". JFK è una eccezione della storia americana. È il rimpianto che non passa e i suoi segreti non verranno mai svelati. Per la semplice ragione che una fiction vale l'altra e che anche senza sapere ne sappiamo abbastanza.

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