“Dell’UmanoDolore”. “A comparare il dolore”, testo di Elena Stancanelli pubblicato sul settimanale “d” del 18 di gennaio 2025: L'ultimo film scritto, diretto e interpretato da Jesse Eisenberg (…) pone, fin dal titolo - A Real Pain - una delle questioni più interessanti di questi nostri anni: qual è il vero dolore? È un vero dolore il nostro, di benestanti e pasciuti figli dell'occidente? Tutta la nostra angoscia, la disperazione, tutte le nevrosi e l'autolesionismo, sono legittime quando abbiamo a disposizione libertà, cibo, un tetto sul-la testa e tutto sommato la possibilità di fare quello che ci pare? Sì, certo, la mancanza di orizzonte, il cambiamento climatico, le guerre lontane, la minaccia della fine del mondo, ma la mattina quando ci alziamo dobbiamo solo mettere i piedi per terra, lavarci i denti e metterci a lavorare, o a studiare. Niente a che vedere con chi deve combattere per un sorso d'acqua, o sopportare la tortura, o attraversare un mare nero a bordo di un canotto sgonfio. Quando vediamo i nostri figli soffrire fino alla consunzione, in una parte del nostro cervello non possiamo fare a meno di pensare al vero dolore, o almeno a quello che riteniamo tale. A Real Pain racconta la storia di Davide Benji Kaplan, due cugini ebrei americani, i quali, per onorare la memoria della nonna Dory, fuggita da un campo di concentramento e da un numero infinito di disgrazie, decidono di fare un pellegrinaggio in Polonia, visitando i luoghi dell'olocausto e la casa natale di lei. Si iscrivono a un tour al quale partecipa un gruppo di persone diverse, ognuna delle quali segnata dal trauma della persecuzione: Marcia, la cui madre è morta in un campo, Eloge, che sfuggito al genocidio in Ruanda si è convertito all'ebraismo perché la ritiene l'unica religione capace di accogliere un'esperienza come la sua, una coppia di coniugi di origine polacca. La loro guida, James, è un uomo colto e pacato, che ha studiato a Oxford, non è ebreo, ma ha una totale fascinazione per quella cultura. David e Benji, che sono cresciuti insieme, da adulti (sono due quarantenni, più o meno, nella finzione) sono diventati due persone molto diverse: David ha una moglie e un figlio che ama moltissimo e lavora in un'azienda che fa i banner pubblicitari per internet, Benji - interpretato magnificamente da Kieran Culkin (…) non ha niente tranne un enorme carisma. È una di quelle persone, lo dice David, che quando entra in una stanza attira l'attenzione di tutti, che capisce immediatamente chiunque, ma non ha filtri, e vive in un continuo su e giù emotivo. E nonostante metta continuamente in difficoltà tutti quanti, o forse proprio per questo, costringe le persone a guardare in faccia la verità. Benjì è una spugna che assorbe tutto il dolore e tutto l'amore del mondo, è un bambino incapace di mentire. Benji, ovviamente, ha sempre un piede sull'orlo del baratro. Ma com'è possibile, si chiede David e parla anche di sé, delle sue pillole per dormire, e parla anche di tutti noi. I nostri nonni hanno guardato in faccia l'orrore e la nostra generazione non sa stare tranquilla nell'agio, nei giorni, in un presente che non chiede nessuna lotta per la sopravvivenza. È un vero dolore il suo, il nostro? Questa cosa che chiamiamo dolore, che è argomento di infiniti saggi, lavoro per psicoanalisti e psichiatri, incubo di genitori e insegnanti: questa cosa che ci impedisce di mangiare, che ci fa incidere ferite sulle braccia, che ci blocca nella stanza e ci allontana dal mondo, questa cosa, cos'è? Proviamo a rigirare la questione e concentrarci non sul sostantivo "dolore" ma sull'aggettivo "vero". Possibile che il nostro stare male, che non riguarda l'esperienza dei campi, della fame, della guerra, sia basato sul fatto che il centro delle nostre vite non è più l'esperienza? Qualsiasi esperienza, bella o brutta. Possibile che il vero dolore sia ormai l'angoscia di non esistere?
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
venerdì 24 gennaio 2025
Lavitadeglialtri. 68 Elena Stancanelli: «Possibile che il nostro stare male sia basato sul fatto che il centro delle nostre vite non è più l'esperienza? Qualsiasi esperienza, bella o brutta. Possibile che il vero dolore sia ormai l'angoscia di non esistere?».
(…). Cosa siamo disposti a fare, quando
siamo fondo al pozzo della disperazione e dell'emarginazione. Fino a che punto,
per salvare noi stessi, siamo pronti a perdere gli altri. Senza offendere la
sensibilità del popolo ebraico: portato alle conseguenze più estreme, quello è
quasi lo stesso abisso che hanno indagato persino le vittime di Auschwitz, a
partire da Primo Levi: anche nel lager, ridotte alla condizione non più umana, le
persone rompevano i legami affettivi e solidali, e avevano come unico scopo
quello di sopravvivere a quell'orrore indicibile. (…). È la sfida che riguarda
tutti, a prescindere (…): il libero arbitrio, la responsabilità dei singoli.
Nessun grande reset ci pioverà addosso a correggere il corso degli eventi.
Nessuna Rivoluzione epocale raddrizzerà il legno storto dell'umanità. La Storia
la cambierà solo la somma dei "no" che sapremo dire ogni giorno,
nell'impietoso Squid Game delle nostre vite quotidiane. (Tratto da “La somma dei nostri no” di Massimo
Giannini, pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 18
di gennaio 2025).
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