"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 21 novembre 2024

MadeinItaly. 41 Pino Corrias: «Calderoli crede a tutto: all’Ampolla del dio Po, al matrimonio celtico officiato dal sindaco Formentini, con il braciere e il sidro nel centro di Milano, al “tallero padano” in sostituzione della lira».


Il Ventennio è passato, ma certi ventenni ci sono ancora: "Piccole fascistelle crescono" all'interno di Gioventù Nazionale. La premier è caduta dalle nuvole, come la grandine, a peggiorare le cose: il problema principale non è più la nostalgia canaglia, quella per i "Sieg Heil" o gli "ebrei infami", ma proprio il fatto che lei, leader carismatica e abile danzatrice di pizzica di una destra moderna, debba scoprire tutto ciò "grazie" al lavoro di giornalisti infiltrati. E scriviamo "grazie" anche se la Meloni tutto ha detto a FanPage tranne che "grazie". Ha dichiarato piuttosto che simili inchieste sono da "regime", come se per i follower di influencer tipo Benito e Adolf la parola "regime" fosse un'offesa. E poi chi avrebbe dovuto occuparsene, se non dei liberi cronisti, visto che in questo Paese la Digos è già impegnata a identificare chi grida a teatro "Viva l'Italia antifascista"? Ma noi le crediamo: nessuno avrebbe mai sospettato che in un partito pieno zeppo di ex missini ci fossero simpatizzanti delle camicie nere. Invece, guarda te, sono proprio lì dove meno te li aspetti... (Tratto da “Camicie nere dove meno te le aspetti” di Dario Vergassola pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 12 di luglio 2024).

“Porcellum e Profeta: l’odonto-statista e domatore di leggi” di Pino Corrias, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, mercoledì 20 di novembre 2024: Il giocoliere Calderoli, detto “l’odonto-statista”, “il matto”, e persino “il pasticcione”, è un gigante dello spettacolo. Viene da Bergamo, aggiustava i molari, ma è capace di esibirsi in numeri più divertenti del circo cinese. In Parlamento fa il domatore di leggi che finiscono sempre per rincorrerlo e morderlo. Mentre nel giardino di casa, sui colli di Mozzo, dove ospita gatti, maiali, lupi e altri carnivori s’è salvato dalla tigre che dopo lo svezzamento ha preferito mangiarsi un cane anziché la sua polpa di ministro. A questo giro, la Corte costituzionale si è divorata la sua appetitosa riforma sull’Autonomia regionale differenziata, che ha cucinato per una trentina d’anni, meschino, stavolta con il proficuo contributo del professore, giurista e presenzialista Sabino Cassese, una Italexit con polenta e virgole, che a essere gentili, manderebbe in malora l’Italia, trasformando le venti Regioni in altrettanti staterelli allo sbando nel mare grande della globalizzazione e dei suoi naufragi. La Corte ha stabilito che la riforma ha (perlomeno) sette buchi nello scafo, sette voragini di incostituzionalità che non rispettano l’unità nazionale, la sussidiarietà tra le Regioni e l’uguaglianza di tutti i cittadini indipendentemente se nati nella bambagia di Lombardia o tra il cisto spinoso di Calabria e Sardegna. Una riforma che dovrebbe suddividere il bottino fiscale in parti diseguali. Da consegnare alle Regioni secondo la loro spesa storica. Il che vorrebbe dire consolidare i privilegi delle più ricche a scapito delle più povere con perequazioni, i famosi Lep, i livelli essenziali di prestazione, che ancora nessuno ha calcolato.  Nel frattempo autorizza le gabbie salariali. E affida a ogni Regione 23 competenze che vanno dalla Sanità all’Istruzione, dal Commercio con l’estero alle banche, dalla ricerca scientifica ai beni culturali. Cioè quasi tutto – tranne Forze armate e Giustizia, al momento – tanto da moltiplicare il groviglio di norme, la rete dei regolamenti, il ginepraio delle procedure, destinati a formare una miscela di tali e tanti incompatibili paradossi da dissolvere in un amen l’intera nazione tanto cara a Garibaldi e alla Meloni. La bocciatura della Consulta gli è arrivata dritta alla mascella come un gancio, disorientandolo, più di Tyson, il toro. “Sono soddisfatto” ha dichiarato il Calderoli, mentre a bordo ring ancora gli facevano aria. Poi, con l’aiuto dell’ossigeno dei telegiornali, l’ha fatta facile: “Ma sì, aggiusteremo, riscriveremo”. Come no: “L’importante è che la Consulta ha riconosciuto la costituzionalità dell’autonomia” ha detto, infilando due errori in una sola frase, la logica e il congiuntivo. Non contento, il giorno dopo, ha ricominciato a fare il gradasso: “E una volta riscritta la riforma, spero che la sinistra taccia. Taccia per sempre”. Minaccia che ha fatto saltare sulla sedia i cuori semplici e la Elly Schlein. Che andrebbero tutti rassicurati con una favola della buonanotte, la favola del Calderoli. Nacque il Riccardo nel mese (del pesce) d’aprile, anno 1956 a Bergamo, primo slogan imparato con le frittelle dello zio federalista: “Bergamo nazione, tutto il resto Meridione”. Studia da dentista, come il padre, il nonno, quattro dei suoi otto fratelli e nel 1982, mentre sfascia automobili nei rally d’Appennino, si laurea chirurgo maxillofacciale. L’incontro fatale con Bossi – “un tizio che veniva da Varese e diceva: passerò alla Storia” – avviene durante la festa più adatta, quella del Carnevale. La maschera secessionista gli va a pennello, anche lui predica la supremazia della “razza padana, razza pura, razza eletta”. Lo fa nel primo comizio della sua vita in bergamasco stretto. Gli credono. Entra in Consiglio comunale nel 1990. Due anni dopo è in Parlamento. È da allora che maneggia minacce: rastrellamento ed espulsione degli immigrati, castrazione con forbici per i pedofili, legge del taglione compresa la pena di morte. Ce l’ha con “i nazisti rossi”. Con “la civiltà gay che sta trasformando la Padania in un ricettacolo di culattoni”. Ma specialmente con Berlusconi, “il mafioso di Arcore”, “il re dei debiti”, “l’uomo della P2”, “l’assassino dell’economia italiana”. Ma quando Silvio scuce qualche milionata per ripagare i debiti della Lega, cambia musica. Con tutta la nomenclatura padana entra nella stanza dei bottoni. Bossi diventa ministro delle Riforme, anno 2001, riassunte ogni anno nei raduni di Pontida e Venezia con l’ostensione del Tricolore: “Lo uso per pulirmici il culo!”. Calderoli crede a tutto: all’Ampolla del dio Po, al matrimonio celtico officiato dal sindaco Formentini, con il braciere e il sidro nel centro di Milano, al “tallero padano” in sostituzione della lira, alla buffa camicia verde e al commovente “Va’ pensiero”, inno padano, cantato con la mano sul cuore. Bossi lo fa ascendere tra i velluti dei senatori, tre volte con la qualifica di vicepresidente, tre volte da ministro. In aula studia le geometrie dei regolamenti, come fossero le arcate dentali. Alle quali imprime la sua nuova scienza che consiste nel creare danni parlamentari ove possibile, moltiplicare gli inciampi, fino al capolavoro degli 82 milioni di emendamenti presentati per rallentare la discussione sulla legge elettorale, il cosiddetto Italicum: “Ho un programmino che da un testo base è in grado di comporre centinaia di migliaia di varianti”. Si vanta di avere elaborato il Porcellum, riforma elettorale talmente strampalata che la Consulta infila nel trita documenti subito prima di alzarsi per andare a cena. Nonché l’altro capolavoro della riforma federale – “mi sono messo a studiare perché della materia non sapevo nulla” – elaborata nella celebre baita di Lorenzago, in Cadore, con altri “tre saggi”, il cinghiale arrosto, la grappa e cinque giorni di seminario. Che ci vuole? Nulla. E infatti tutto finisce cancellato dal referendum, anno 2006. Tra una riforma e l’altra, invita gli immigrati a “tornare nel deserto a parlare con i cammelli”, chiama la ministra Cécile Kyenge “orango”, mostra al Tg1 la maglietta anti-islam, provocando una mezza rivolta a Bengasi, in Libia, con assalto all’ambasciata italiana, 11 morti. Passeggia con un maiale a Bologna su un terreno destinato alla costruzione di una moschea. E finalmente ieri si gode la bocciatura dell’Autonomia differenziata, confessando: “Embè? Mi muovo in un territorio sconosciuto”. A forza di dare spettacolo, è diventato un re della “Roma ladrona”. Ha sposato in seconde nozze Gianna Gancia, leghista con le bollicine. Brinda alle figuracce, al vitalizio, e al lieto fine, il suo.

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