La "sua" Praga (“Come Praga divenne magica”, Neri Pozza editore, pag. 208, euro 20, n.d.r.) così ben raccontata nei dettagli storici sembra un prequel della "Praga magica" di Angelo Maria Ripellino. «Il volume di Ripellino fu per me un amore a prima vista, al pari di Danubio di Claudio Magrìs, Sono ancora oggi nello scaffale dei miei pochi libri preferiti. Ma Praga mi era già cara. Fin da bambino sognavo il suo "orologio astronomico" e amavo la leggenda del Golem creato da Rabbi Loew. Fin dall'adolescenza sono stato un lettore di Kafka per poi tuffarmi nella Mitteleuropa di Musil e Roth. Per il resto amo un po' tutta la letteratura danubiana e i suoi stili di vita».
Preferisce questa civiltà a quella nata intorno al Mediterraneo? «Niente affatto. Non riuscirei a immaginare un'Europa che non ricomprendesse il Mediterraneo. Che terra sarebbe? Ho avuto fin da piccolo la fortuna di viaggiare moltissimo, in tempi in cui non lo si faceva. E questo mi ha consentito di farmi un'idea complessiva delle culture e degli intrecci tra esse».
Dove è stato? «Negli anni Cinquanta ho conosciuto l'Europa: Vienna a 12 anni, Parigi a 13, Madrid a 14. A 16 ho tentato una rocambolesca fuga da casa per raggiungere Budapest in fiamme e morire sulle barricate in difesa del popolo ungherese».
Era il 1956, il suo sdegno contro il comunismo sovietico aveva una matrice di destra. «Il mio "fascismo" di allora era la febbre romantica di un ragazzo che aveva letto troppo Salgari con il risultato di immergermi nell'avventura, nel sogno esotico, nella ribellione. In pratica mi sentivo un ''tigrotto della Malesia" che presto sarebbe passato a Melville e Conrad, ma anche al romanzo russo dell'Ottocento. Fossi però stato diciottenne nel 1920, avrei seguito D'Annunzio a Fiume».
E due anni dopo avrebbe magari partecipato alla "marcia su Roma". Era poco più che un adolescente quando aderì al Movimento sociale italiano. Cosa trovava in quel fascismo di "revenant"? «Potrei risponderle che agli occhi del ragazzo di allora erano importanti alcuni valori: onore, lealtà, coraggio, disinteresse e solidarietà con il mondo degli emarginati, dei poveri, degli sfruttati. Sullo sfondo vedevo già allora l'Occidente liberale e post-colonialista, vincitore di due guerre mondiali, andare nella direzione opposta. Paradossalmente avevo tutte le carte in regola per diventare comunista. Simpatizzai perfino con Stalin, ma quei fatti del '56 rivelarono il volto crudele e improponibile del comunismo».
Di qui la scelta? «Sì. Alla quale ha contribuito quello che considero uno dei miei più cari maestri: Attilio Mordini. Fu volontario di guerra in Russia. Fu lui a parlarmi del "fascismo di sinistra" di Ardengo Soffi.ci e di Ottone Rosai. Aderì a Salò per il suo programma sociale. A causa dei mesi di detenzione postbellica contrasse la tubercolosi, morì nel 1966 a soli 43 anni».
È sempre un po' complicato parlare dei maestri senza la necessaria distanza. Mordini cosa le ha insegnato oltre il fascismo? «Era un fine germanista, uno studioso attento di Stefan George, il che non gli impediva di essere attratto dalla mistica ebraica e quindi lontanissimo da qualunque tentazione razzista. Cosa mi ha insegnato? Fu lui a iniziarmi ai misteri esoterici del mozartiano Flauto magico. A lui debbo il mio attuale sentire antimoderno e la mia difesa a oltranza degli "ultimi", nel senso francescano della parola».
Fu considerato una specie di "Evola cattolico". «Ne rigettò il razzismo, ma fu un lettore attento dei suoi libri, specie del suo migliore La dottrina del Risveglio, dedicato al buddismo. Al magistero di Mordini debbo anche il mistero contraddittorio per cui uno con una formazione come la mia abbia potuto sopravvivere così a lungo nell'Msi».
Quanto vi è restato? «Per circa un decennio. La ragione di questo prolungato "soggiorno" era nella consapevolezza di trovarmi all'interno di un microambiente di "eretici di ogni eresia"; una strada del genere, diciamo da "fascisti immaginari", sarebbe stata percorsa anni dopo anche da personaggi come Marco Tarchie Stenio Solinas».
Cosa intende per "eretici di ogni eresia"? «Semplicemente persone che ragionano in modo inclassificabile, il contrario di un pensiero retto e ortodosso».
In fondo, quello nel quale ha vissuto è un partito segnato da un'ortodossia nostalgica del ventennio. «Non ho mai condiviso nulla con i patriottardi del mio stesso partito. Con il rispetto per i caduti, di qualunque parte e di qualunque guerra, alle commemorazioni a Redipuglia preferivo visitare le reliquie dell'imperatore nella Cripta dei Cappuccini a Vienna. Resistetti nell'Msi vivendo questa lacerazione come un paria all'interno di un mondo di paria, finché non fui costretto a prender atto che non c'era spazio in quel partito neofascista. In quegli anni furono Ho Chi Minh e Fidel Castro ad aprirmi gli occhi».
Mi pare un gran bel salto quello che ha compiuto. «La chiami pure follia postadolescenziale. Senonché alle follie adolescenziali bisogna restare sempre devotamente fedeli anche quando si sa bene di averle superate. Averle nel mio Dna non mi ha impedito di vivere da cittadino e studioso onesto ed equilibrato».
Lei è nato a Firenze, che famiglia l'ha formata? «Provengo da una famiglia cattolica e socialista. Vivevamo a San Frediano, nel quartiere più "rosso" di Firenze. Mio padre era un artigiano orafo. Da giovane lavorai come apprendista nella sua bottega. Mi piaceva, ma non avevo la sensibilità manuale per un lavoro del genere. Ho anche fatto il venditore di cianfrusaglie per i turisti che venivano in visita dalle parti di Ponte Vecchio. Mi divertivo, prendendo anche dimestichezza con le lingue straniere».
Quando le è nato l'interesse per la storia? «La prima passione fu per il Medioevo di Walter Scott, poi vennero le Crociate con le loro avventure e a seguire il "Grand siècle", dalla fine del Cinquecento agli inizi del Settecento, ossia dall'editto di Nantes di Enrico IV alla morte di Luigi XIV. Quanto al mio orientamento di studi fu decisiva, all'università, la lettura dell'Autunno del Medioevo di Johan Huizìnga. Così, al terzo anno decisi di dedicarmi alla storia; le due più eminenti personalità erano Delio Cantimori ed Ernesto Sestan. Mi divisi fra i loro insegnamenti. Il marxista Cantimori fu sufficientemente provocatore da propormi la lettura di un testo sui principi del nazionalsocialismo di Carl Schmitt».
Perché proprio quel testo? «Lo aveva tradotto con qualche entusiasmo negli anni Trenta; più in generale, scoprendo che conoscevo un po' di tedesco, non gli dispiaceva che leggessi i testi del grande giurista. Quanto a Sestan, weberiano e liberal-conservatore, sapendo del mio impegno missino mi sfidò a leggere Il tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler. Con Sestan, oltretutto, condividevo un grande amore per il mondo austroungarico».
Chi scelse alla fine tra i due? «Per quanto ammirassi Cantimori, sapevo di appartenere a un'altra parrocchia. Perciò alla fine mi laureai con Sestan. Fu naturale che nella mia maturazione incrociassi in seguito le ricerche di Jacques Le Goff, Alberto Tenenti, Fernand Braudel, ossia quella "Scuola delle Annales" che intendeva la storia come scienza a suo modo sociale».
Da questo punto di vista come si definirebbe? «Sono uno storico di professione. E come sempre accade, nel mestiere mi porto appresso le mie passioni ma non è detto che il mestiere e le passioni vadano sempre d'accordo. Quanto alla mia idea di storia, penso che essa non abbia alcuna "Ragione", non tenda ad alcun fine sul piano del suo concreto processo. La storia, voglio dire, è imprevedibile e perciò gli storici sono semplicemente ridicoli quando si atteggiano a futurologi o, peggio ancora, a profeti».
Un cattolico, quale appunto dichiara di essere, conserverà qualche seria speranza per il futuro. «Per un cattolico quale sono la storia avrà anche un fine, ma è inconoscibile, Dio non ce lo viene a dire. Quel tipo di storia, che fu importante tra l'Otto e il Novecento, levatrice della nazione, o tendente al superamento delle classi, è fallita. Per quanto mi riguarda sono cattolico apostolico romano. Resto fedele alla Chiesa e al pontefice romano in tutto e per tutto. Il mio "credo" è quello del Simbolo Niceno».
Cioè crede in un solo Dio. «E nel solo nostro Signore Gesù Cristo. Il mio cattolicesimo è profondamente tradizionalista. Sono un devoto della Beata Vergine Maria e da Attilio Mordini ho appreso la bellezza e la misteriosa profondità della preghiera del rosario».
Si offenderebbe se la definissero un "bacchettone"? «Non mi offenderei, ma ne rigetterei la definizione. Non c'è nessuna ostentazione nel mio credo, ma solo intima convinzione religiosa. Credo infatti che nel cattolicesimo si possa vivere appieno l'esperienza del sacro, sia nel suo significato antropologico sia come fede».
Come si accosta alla fede? «Come alla cosa più semplice e al tempo stesso sublime. La fede a cui penso è quella predicata nel Cantico delle creature da Francesco d'Assisi».
Lei è un uomo di molte letture e di molti slanci. Ma tutto, a cominciare da questa conversazione, converge in una sua critica ai valori dell'Occidente. Cosa non le sta bene del mondo in cui comunque vive? «Rigetto questo "nostro Occidente" che blatera di umanità, di democrazia e di giustizia e poi lascia annegare il "popolo di gommoni", che ormai ha trasformato il Mare nostrum in un cimitero. Aggiungo che detesto con tutta l'anima le ostentazioni di opulenza e lo sperpero di ricchezze delle nostre vite vissute nel fasto effimero del consumo; mi fanno orrore quelle vite oggetto delle vetrine televisive, dei talk show animati da sonnambuli perduti dietro il chiacchiericcio telematico e trovo insensate le mortifere illusioni della cosiddetta "intelligenza artificiale" mentre a Gaza uomini, donne e bambini muoiono in un'assurda mattanza e si negano loro perfino i medicinali».
Ritiene che una sobria povertà possa arginare tutto questo? «Penso, o meglio ritengo, che tutte le ricchezze che sperperiamo nel nome del possesso e del profitto, dell'avere e del comparire non valgano il fruscio del povero sari bianco-celeste di Madre Teresa di Calcutta».
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