“QuellAmericaDopo”. “Il dovere della coerenza davanti all’estremismo”, testo di Gustavo Zagrebelsky pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, lunedì 11 di novembre 2024: Che cosa è davvero avvenuto il 5 novembre? Solo il futuro, lo dirà. Nel frattempo fioriscono “interpretazioni” e “scenari” che, per chi sta dalla parte della democrazia, sono tutti foschi. Ma, la storia è fatta così: il senso di ciò che avviene, soprattutto se è grande, sta in ciò che avverrà. Il senno degli storici è sempre il “senno di poi”. Il voto americano, a detta di tanti, è un fatto storico che divide un prima, che abbiamo conosciuto, da un dopo che solo confusamente intravediamo. Siamo di fronte al sussulto d’un grande corpo un tempo dominatore del mondo e ora in difficoltà, oppure al frutto di guasti sociali d’un capitalismo senza regole e senza prospettive? Le elezioni americane, dunque, sono una svolta o un’increspatura? Sono un episodio di disagio di classi medie impoverite e senza speranza di miglioramento? Sono la riscossa degli umiliati da élite tronfie, sicure di sé, vacue e distanti dalla vita del Paese profondo? Sono una rivolta a difesa di culture, fedi tradizionali minacciate? Sono la reazione a un malessere diffuso e la richiesta di sicurezza e di pugno duro contro il disordine, la criminalità, la violenza? Sono il segno di un arroccamento sulle proprie risorse e sulle proprie certezze, minacciate dall’invasione di gente e culture immigrate? Sono la naturale espressione d’una divisione da gran tempo segnalata tra due Americhe, l’America rurale profonda, dalle prospettive ristrette, e l’America intellettuale, ricca, progredita, cosmopolita, insediata nelle grandi città dell’Est e dell’Ovest? Quando il malessere è grande e la fiducia nelle proprie forze è piccola, non è naturale prestare fede a promesse di riscatto tanto più se formulate con slogan, parole facili che, in altre circostanze, sarebbero apparse assurde? Come se si dicesse: “Vai, figlio nostro, figlio dell’America autentica che noi siamo. Liberaci dalle paure, dai soddisfazione alle nostre frustrazioni, fagliela vedere brutta a quelli che si vergognano di noi. Che tu sia ricco e potente a dismisura, non importa. Anzi. Per proprio per questo vogliamo te, perché solo tu hai parole di speranza e mezzi per realizzarle”. Tanto più se qualche futurista senza freni ti affianca promettendo la luna e oltre. In ciò vi è un seme che può sviluppare demagogia e populismo. La democrazia, a meno di negare se stessa, è per sua natura aperta anche a questi sviluppi che, a seconda dei punti di vista, sono opportunità o rischi. Invece, è sicuro che è la Costituzione a traballare. La Costituzione americana da quasi tre secoli è un simbolo del “governo moderato”, il governo nemico d’ogni eccesso di potere, fosse anche quello, anzi proprio quello che pericolosamente si annida nella democrazia pura, priva di “pesi e contrappesi”. Il federalismo, argine alla centralizzazione politica e garanzia delle libertà delle comunità locali; la divisione e l’equilibrio dei poteri tra il presidente, il Senato espressione degli Stati federati e la Camera dei Rappresentanti del popolo, entrambi sottoposti a verifiche di “medio termine”; la Corte Suprema dotata di immensi poteri, formata da giudici nominati a vita dal presidente; anche il presidente per il quale i “Padri fondatori” esclusero, proprio per quel timore, l’investitura popolare diretta e preferirono l’elezione di secondo grado, mediata dalla saggezza dei cosiddetti “grandi elettori”, personaggi eminenti espressi dagli Stati federati. Questo è sulla Carta. La realtà è il contrario della separazione e dell’equilibrio: è l’unità del potere. L’elezione del presidente, per effetto dei partiti nazionali, è ormai da tempo un fatto federale che fa apparire i delegati stato-per-stato un anacronismo; il partito del presidente controlla i due rami del Parlamento e la maggioranza della Corte suprema è composta da giudici di quella parte. Il futuro dirà se si tratta di una vicenda politica transitoria o strutturale, nel solco della trasformazione di molte democrazie liberali in democrazie illiberali o autoritarie. O, forse, dirà anche una cosa anche più inquietante: che le differenze, chiare nei principi, nella pratica tendono sempre più ad attenuarsi. C’è dell’altro. Una delle grandi acquisizioni politiche di ciò che chiamiamo “Occidente” è la spersonalizzazione del potere. Osserviamo le leggi, ubbidiamo ai decreti, rispettiamo le sentenze in quanto leggi, decreti, sentenze, non in quanto volontà grezza di legislatori, governanti, giudici. La volontà di questi deve, per così dire, essere filtrata da istituzioni che, nella loro astrattezza e impersonalità, le conferiscono legittimità e autorità generale. Il compito delle istituzioni è precisamente questo. Se così non fosse, saremmo sudditi, non cittadini. Questo è un punto chiaro e cruciale sul quale, forse, non si riflette abbastanza. Tra le istituzioni della democrazia – è ovvio – ci sono le elezioni. La democrazia non è fatta solo da elezioni, ma senza elezioni non c’è democrazia. Esse sono, come si dice, condizioni necessarie e non sufficienti. Naturalmente, affinché i risultati siano accettati da tutti, anche quando non coincidono con le aspettative, devono essere oneste. Onestà e accettazione sono tutt’uno. Le elezioni truffaldine non devono essere accettate, ma è un segno di decomposizione la facilità con la quale si denunciano truffe, brogli, furti e si contestano i risultati, addirittura preventivamente. Le elezioni oneste sarebbero, così, solo quelle che corrispondono a certe aspettative. È come se esistesse a priori un vincitore “morale” e l’eventuale vincitore “formale”, se non corrispondesse al primo, fosse un usurpatore.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 12 novembre 2024
Lastoriasiamonoi. 19 Gustavo Zagrebelsky: «Non siamo profeti. Non sappiamo. Troppe cose che nemmeno immaginiamo possono accadere. Ma non siamo nemmeno ignavi».
(…). Quasi in extremis nella ex sezione
missina di piazza Tuscolo ha fatto la sua prima uscita il Comitato Nazionale
Pro Trump. L'ha animato il sempiterno ex parlamentare della fiamma Domenico
Gramazio, 77 anni, fra i camerati conosciuto come "er Pinguino", già
consumatore di spumante e mortadella al Senato. Gramazio ha chiamato a
presiederlo una vecchia gloria locale, l'ex neofascista andreottiano Pietro
Giubilo, 82, detto "er Monaco". (…). C'erano una ventina di persone, i
filmati mostrano un'euforia molto contenuta, una mano ha deposto sul banco
degli oratori un cappello da baseball con su scritto, vedi un po',
"Trump", Anche meno fervore ha destato la nascita del comitato
"Trump liberator" da parte dell'instancabile ex generale Pappalardo,
già leader dei forconi e dei gilet arancioni. (…). In un lungo appello Pappardo,
che è anche uno stimato compositore, ha promesso degli «incentivi» consistenti
nella «possibilità di ricevere gratuitamente testi e video» delle sue canzoni,
New song e, appunto, Trump liberator. (…). …si segnala l'assenza nel tifo di
Antonio Razzi, che nel 2016 aveva sventolato forte la bandiera trumpista, pure
offrendosi in seguito come mediatore fra gli Usa e la Corea del Nord e
invitando Donald e Kim a una mangiata di arrosticini in Abruzzo. Un tempo il
tifo era molto più forte e da qui si faceva di tutto per far credere ai
candidati di aver mobilitato milioni di voti italo-americani. La politica ufficiale,
stavolta, è rimasta acquattata. Salvini l'unico che ha cercato di farsi notare
(«Aridateci Trump!»); Meloni aveva il problema del bacio in fronte di Biden;
"Giuseppi" Conte, l'acrobata, ha giochicchiato su due tavoli, ma meno
si scopriva, meglio era. A parte Capezzone e Renzi, che stava con i
democratici, ma attraverso gli arabi è entrato in rapporti con il genero di
Trump, la distrazione è prevalsa. Forse anche perché in Italia si è visto
tutto. Forse perché finalmente ci sentiamo piccoli. Forse perché quanto a
iperboli, vanagloria, provocazioni e volgarità fare di più non è possibile.
Forse perché a Trump e ad Harris poco interessano gli italiani e ormai può
anche essere un bene. (Tratto da “Trumponi
d’Italia” di Filippo Ceccarelli pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica”
dell’otto di novembre 2024).
Dell’assalto a Capitol Hill
del 6 gennaio 2021 non si è sottolineato mai a sufficienza il significato: per
l’appunto la superiorità di un’autoproclamata morale sostanziale rispetto ai
risultati formali che, se non coincidenti con quelli desiderati, sarebbero
perciò truffaldini. La stessa cosa non si è verificata nelle elezioni di
qualche giorno fa ma non se ne è data l’occasione. Non c’è dunque controprova.
Ma, altrimenti, che cosa avrebbe potuto accadere? Non si è forse parlato
apertamente di guerra civile e non è venuto l’invito a prepararsi? Il
precedente della tornata elettorale del 2021 è lì e fa pensare. Il declino
delle istituzioni e del loro ruolo di moderazione è un rischio del nostro
tempo, il tempo di scelte drammatiche tra concezioni del mondo radicalmente
antagoniste. L’estremismo e l’intolleranza vorrebbero dividere il mondo in due:
o con noi o contro di noi e uno solo deve poter vincere. “Vincere” (e
vinceremo), prendere tutto: a questo fine, tutto è lecito perché la posta in
gioco è, per l’appunto, tutto. Quella parola, vincere, non equivale a
“con-vincere”: parola della moderazione, della tolleranza, delle deliberazioni
alimentate dalle opinioni di molti. Non equivale, anzi la contraddice. Il presidenzialismo
e, in genere, ogni sistema politico che chiama gli elettori a scelte binarie,
aut-aut, non sono necessariamente votate alla proclamazione del vincitore, ma
in questo momento sì. Consideriamo il linguaggio aggressivo, l’odio, le
menzogne, i dossieraggi, le intimidazioni, le repressioni, le violenze, le
strategie per diffondere tensioni e paure da cui nessuno, nemmeno noi, siamo
immuni. La vicenda americana non è un modello, ma un ammonimento. Ritorniamo
all’inizio. Non siamo profeti. Non sappiamo. Troppe cose che nemmeno
immaginiamo possono accadere. Ma non siamo nemmeno ignavi. Il futuro non è
nelle mani di qualche oscura e incontrollabile fatalità. Per quanto poco possa
contare nel grande gioco delle politiche e degli interessi mondiali, ciò che possiamo
fare è restare fedeli a ciò che crediamo e darne testimonianza. Che non possa
venire poi qualcuno a rimproverarci, o che non abbiamo noi stessi a
rimproverarci, l’ignavia o il cedimento all’ineluttabile deriva antidemocratica
delle democrazie in cui crediamo. Anche nei terribili anni ’20 e ’30 del secolo
scorso esse apparivano vuote, sfiancate, indifendibili. Sappiamo come è andata
e attraverso quali tragedie e sofferenze. Che non possa apparire, tra qualche
tempo, uno dei “libri del tempo” come Il tradimento dei chierici, scritto da
Julien Benda nel 1927 e dedicato a chi, avendo il dovere della coerenza, in
quell’epoca terribile, perse la fede e sé stesso.
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