“Uomini&Cinema”. 1 “Non dite mai la verità”: Manuel De Sica, musicista e figlio di Vittorio, morì quarant'anni dopo suo padre. Entrambi in autunno, entrambi troppo presto. «Mi portano in clinica» disse Vittorio a Manuel nel loro ultimo incontro. La voce roca, l'incedere della malattia, un ultimo contratto firmato per girare un film tratto dai racconti di D'Annunzio e la speranza che il suo mestiere, un mestiere da illusionisti, potesse ingannare la morte. «Io devo lavorà» ripetè due volte il padre al figlio e poi sparì nella pioggia francese, tra medici, analisi e piccole consolazioni: «Vorrei andare al cinema, Maria (Maria Mercader, madre di Manuel e Christian n.d.r.). In cartellone c'è Ben Hur. Mi accompagneresti?». (…). A cinquant'anni dalla sua scomparsa, dire cosa abbia rappresentato De Sica, rende le parole soltanto lettere slegate, segni senza importanza, inutili esercizi di stile. De Sica era il Novecento e il Novecento, non solo al cinema, non c'è più. «Mi raccomando» diceva Vittorio ai suoi figli «non dite mai la verità». Forse sottintendeva che la verità, per poterla nascondere, si doveva conoscere, ma secondo Manuel si trattava comunque di un esercizio complesso: «Sotto il segno dei De Sica non sono mai riuscito ad appurare dove sia riposto il vero. Impossibile capirci qualcosa». Per farlo, fuori tempo massimo, Manuel scrisse un libro di ricordi familiari in cui fin dal titolo, Di figlio in padre, erano chiari debiti e ascendenze. Dentro, tutte le contraddizioni del genio. Il Vittorio sinceramente addolorato dalla maleducazione riservata ai camerieri nei ristoranti, il De Sica crudele che costretto a far piangere Bruno, il bambino di Ladri di biciclette, gli infila a tradimento dei mozziconi di sigarette nelle tasche e poi lo espone al pubblico ludibrio per provocargli rabbia e vergogna, il regista/attore perennemente con la valigia in mano per recitare, dirigere, perdere tutto al tavolo da gioco e pagare, da gran signore, i debiti delle sue tante tribù. Prendeva il treno per non essere da meno, come cantava Jannacci o alla stazione, ambientava interi film perché il confine tra realtà e finzione, con l'abito che aveva scelto di indossare, era una linea invisibile da attraversare con le divise più varie. Se eri Vittorio De Sica, disse Fellini, riuscivi «a conservare questo impalpabile pulviscolo dorato del palcoscenico». Se eri Vittorio De Sica potevi inchinarti al pubblico che plaude all'Oscar e scrivere per il teatrino natalizio dei tuoi figli preferendo di gran lunga la seconda emozione. Se eri Vittorio De Sica potevi reagire alla «marcata ombra di contrarietà sul volto» di tuo figlio e spronarlo a modo tuo: «Manuel, non mettere su quella faccia da cazzo» per poi chiedere preoccupato a tua moglie in separata sede: «Maria, ma lui cosa ti dice di me?». Se eri Vittorio De Sica potevi far recitare chiunque e recitare qualsiasi cosa trasformando le doti naturali in naturalezza. Vittorio e Manuel non ci sono più. È rimasto Christian che con il fratello fuggiva a vedere Ultimo Tango a Parigi e proprio come lui si addormentava poco prima della scena madre. Ne avevano viste troppe, dal vivo, per farsi sorprendere da due corpi precipitati in un appartamento parigino. Dieci anni fa, nelle ore successive all'addio di Manuel, Pasquale Squitieri, un fratello acquisito, lo salutò irritualmente: «Aveva mille talenti e una straordinaria sensibilità, ma non era mai riuscito a essere felice fino in fondo. Non era neanche malinconico il mio amico, era triste. E gli uomini tristi, per non essere fottuti dalla vita, devono compiere uno sforzo sovrumano». Manuel si pronunciava Manuèl. Gli accenti sono come i caratteri. Hanno una loro ragione, non sono una battuta da riscrivere.
“Uomini&Cinema”. 2 “Risparmiarsi è già morire”: Da circa cinquant'anni, Viggo Mortensen gira il mondo con una macchina fotografica in valigia. Iniziò a scattare quando era ragazzo e vendeva fiori per le strade di Copenaghen. Non si è più fermato. Sostiene che ciò che davvero gli piace e lo spinge a scattare sia ciò che resta ai margini dell'inquadratura, sullo sfondo, nel luogo in cui accadono le cose che non si vedono, ma si intuiscono. Come tutti quelli che non covano una sola passione, guarda oltre. Scrive poesie, recita, dirige film, studia, si documenta, scandaglia la storia, esplora la botanica. Suona. E suona molto bene. Che le lingue che parli correntemente siano sette o nove, come assicura qualcuno, ha relativa importanza. Viggo estrae i suoi dischi da uno zaino per regalarteli, ti chiede se tu abbia un «cd player» ed è allora che capisci che nelle parole e nei gesti c'è qualcosa di universale e di antico al tempo stesso: l'anacronismo del dono e quello della volontà di rimanere ancorato a qualcosa che, nell'era dell'intelligenza artificiale e nei voli del futuro che promettono di portarti in un'ora da Pechino a New York e di sognarti Neil Armstrong, segnano il confine tra ciò che è sopportabile e ciò che non lo è. Alla modernità, Viggo Mortensen preferisce il cavallo. Diverso dai cammelli che aveva visto da bambino, in un cinema di Buenos Aires, guardando Lawrence d'Arabia con sua madre Grace. Simile a quelli su cui era salito fino a undici anni, prima di pagare il divorzio dei suoi genitori con un improvviso trasferimento ai confini del Canada, con l'hockey al posto del calcio, il tango sacrificato ai cantanti folk e la neve nel vialetto. Da Watertown, venticinquemila abitanti, passando per una sessantina di film, Viggo Mortensen è arrivato fino ai suoi sessantasei anni ed è rimasto in sella. Alla sua seconda regia - The dead don't hurt - un western pieno di sfumature, delicatezze, fiori, sangue, paesaggi sconfinati e, come gli piace, di contrasti perché «Ciò che rende interessanti gli uomini è la contraddizione». Mortensen cavalca come il ragazzo che è stato e che anche oggi, che i suoi figli hanno la barba, vuole continuare ad essere. Il sogno è tale solo se apparentemente insensato. Dopo il successo de Il signore degli anelli, infatti, invece di acquistare un'isola, Viggo Mortensen ha fondato una casa editrice. Perceval press ha quasi venticinque anni di vita. Pubblica poesie, album fotografici, libri. Mortensen legge, corregge le bozze, cura ogni passaggio. Stampa in Europa, ma si rivolge a tutti quelli che hanno voglia, ancora, di ascoltare. Soprattutto a chi non è d'accordo con lui. Viggo continua a tenere le briglie e non si chiede quanto durerà. Proprio come Laurie Anderson, Mortensen amava molto il suo cane. Al momento dell’addio scrisse una poesia. "Sapevi come vivere e nessuno ti ha detto che non sarebbe stato per sempre". Non saperlo fa parte della sua filosofia. Risparmiarsi o risparmiare è già morire. Per interpretare l'uomo in fuga nelle atmosfere da fine del mondo immaginate da Cormac McCarthy, dormì per giorni al gelo assicurandosi che le scarpe, al momento del ciak, fossero bagnate. Per impersonare Freud imparò a scrivere esattamente come lui. Eccetera, eccetera. Se lo chiami maniaco, comprensibilmente, si offende. Il termine perfezionismo gli sembra già un inganno. È lavoro, solo lavoro. E si fa bene. Le cose si affrontano. Nel 2005, Viggo si svegliò di buon mattino. Sminuzzò le foglie, mise l'acqua a bollire e preparò il suo mate. Poi accese la televisione. Cindy Sheehan, madre di un soldato ucciso in Iraq si era accampata in Texas, davanti al ranch dei Bush per protestare. Viggo guardò l'orologio, fece i calcoli, sellò il cavallo. Raggiunse la signora Sheehan con verdure fresche e acqua minerale. Restò con lei mezz'ora. Poi tornò a Los Angeles per prendere il figlio a scuola. Il cuore, di simboli, è pieno.
N.d.r. I testi sopra riportati sono di Malcom Pagani e sono stati pubblicati sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” rispettivamente il 23 di novembre e il 2 di novembre 2024.
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