“GenerazioniNuove”. 1 “Ragazzi di famiglia” di Concita De Gregorio: La tassista che mi porta in albergo (che meraviglia quando in taxi trovi una donna alla guida, che relax) ha 41 anni, lo dice appena cominciamo a parlare di ragazzi: «Non è che sia matusalemme, ma non li capisco più per niente». Mi guarda con gli occhi blu dallo specchietto, mi sorride e mi dice mi raccomando non vada in teatro a piedi stasera, è pericoloso. L'albergo è nel pieno centro della piccola città e il teatro a trecento metri. Chiedo pericoloso in che senso. Siamo al Duomo, è tutto illuminato, come dovrei farli questi trecento metri se non a piedi. Dice no guardi, la vengo a prendere io. Non lo dico per profitto, non la faccio pagare. Mia sorpresa massima. Ma pericoloso come, ripeto. I ragazzi sono ubriachi dalle otto di sera, risponde, specie nel fine settimana. Alle dieci succede di tutto. Si picchiano, rompono vetri. Bevono senza mangiare, bevono tantissimo, e poi gira ogni tipo di sostanza, perciò vanno fuori controllo. Sono anche ragazzi di famiglia eh, mica criminali. Sono ragazzi che magari studiano. Però è così. «Ragazzi di famiglia», dice. Non "di buona", solo "di". Nel senso che hanno una famiglia, perché non tutti in effetti. Si prostituiscono per pagarsi la serata, dice. Penso che esageri anzi ne sono certa, lei lo capisce dal fatto che ammutolisco. Non ci crede? Lo dico perché lo so, sa quante volte li riporto a casa io specie le donne. Spesso sono in due. Conosco gli indirizzi in cui le porto, vedo i portoni, i palazzi. Sento quello che si dicono. Hanno fatto due-trecento euro, li hanno spesi per l'alcol e per le sostanze, le pastiglie, poi però a casa ci tornano in taxi. Con gli ultimi venti euro, dieci a testa, si rimettono un po' in ordine prima di scendere. Così semmai ci fosse una madre o un padre che guarda dalla finestra - un genitore che le ha aspettate insonne – possono dire ero con le amiche, tutto bene. Resto ancora in silenzio. Il sesso non è quello che è stato per noi, mi dice allora la tassista. Il sesso non ha quell'importanza lì, per loro, non è quella cosa che si fa nell'amore. A volte è un piacere, altre un bisogno, un modo per fare soldi. Anche quando è solo un piacere, una volta e via. Ha mai frequentato una app di incontri? No, dico piano. Eh, male. Così non sa niente del mondo come va. E come va? La regola è questa. Per le ragazze specialmente. Una volta e basta, tanti saluti. Anche se ti sei trovata bene, mi sono spiegata, non importa. La regola è non rivedersi. Poi certo qualche eccezione ci sarà. Però ecco, dico per dire che è cambiato tutto. Fanno così. Lo fanno se hanno voglia, oppure per alzare cento euro. Nessun compro-messo, nessuna paura, niente. Non lo so, non lo so. Scendo e penso solo questo: non lo so. Pensavo di aver capito qualcosa delle persone più giovani (…). Ti affacci in un mondo, quello dei millennial, che ha davvero codici così diversi, proprio sconosciuti. I nostri figli, quell'età. C'è anche una purezza, insieme alla disperazione. Ma poi c'è sempre un passo ancora da fare. C'è talmente tanto che non sappiamo, non vediamo.
“GenerazioniNuove”. 2 “Quel giorno ogni giorno” di Massimo Giannini: Dire che Shirel si ricorda bene quel giorno è una bestemmia, un non senso, una follia. Shirel quel giorno ce l'ha inciso nella carne, è un pugnale piantato nel cuore, che non vuole saperne di uscire. E lei lo sa: quel pugnale ce l'ha dentro, e ce l'avrà dentro per sempre. È parte di lei, è un cancro che le consuma il corpo, un Alien che le divora l'anima. Shirel quel giorno lo rivive ogni giorno. Anzi no, ogni singolo minuto, ogni singola ora di questa sua vita che, scandalosamente, sopravvive a se stessa. Shirel si rivede ballare felice, al ritmo assordante della musica tecno, con i capelli biondi che ondeggiano nel vento. Rivede Adì, il suo compagno, che balla con lei, le prende una mano, la fa girare, girare e ancora girare, insieme al gruppo dei suoi amici che, come lei, perdono la cognizione del tempo e dello spazio. Perché il tempo è dilatato, in quel pomeriggio tardo di ottobre, e lo spazio è infinito quanto il deserto che li circonda, in quella luce rosata del tramonto sulla sabbia. Shirel riattraversa quella notte, tra l'alcol, il sonno e le risate, e ritrova quell'alba di abbacinante bellezza, che chiede solo di essere abbracciata, nella libertà totale del momento, scandito ancora dalla stessa colonna sonora: tunf, tunf, tunf, tunf, tunf... Poi, all'improvviso, la scena cambia, e Shirel si rivede correre verso il nulla, inseguita da un nemico che sapeva di avere, ma non immaginava mai di ritrovarselo lì, in quel giorno, in quel posto, a quell'ora. E invece il nemico è arrivato, è ovunque, corre anche lui, urla feroce, spara, uccide. Ha sete di sangue, il sangue di Shirel e di tutti i ragazzi che hanno condiviso la straniante magia del rave party. E lei, mentre sente i colpi secchi degli Ak-47 che ormai sovrastano i bassi della musica, rivive l'istante in cui si getta con Adi dentro un grosso cespuglio in mezzo alla radura. Senza più un filo di fiato, ascolta a pochi passi da lei la morte che fa il suo giro, portandosi via tutti quelli che ama e che ha amato fino a pochi minuti fa. Non sa neanche lei perché, nel sabba della strage appena cominciato, non è fuggita con gli altri in macchina, ma si è nascosta con Adi in quella siepe isolata. Non lo sa e non lo saprà mai. Non saprà mai perché, in quel terribile pogrom del 7 ottobre dell'anno prima, i terroristi di Hamas hanno fatto irruzione al Festival Supernova, tra le dune del Negev, e hanno stuprato, torturato, sterminato e bruciato 364 giovani colpevoli solo di essere ebrei. Soprattutto non sa e non saprà mai perché proprio lei, solo lei non è finita tra quei 364, quale musica del caso l'abbia risparmiata a quel rito barbaro che ha cambiato la storia del Medioriente. Ma una cosa la sa. Ora che è tornata a casa a Porat, il suo verdeggiante moshav fiorito tra il mare caldo di Netanya a ovest e la polveriera infuocata di Tulkarem a est, lei non vuole più vivere. È devastata da una colpa che non ha, quella di essere sopravvissuta al massacro. E non se la può perdonare. Così Shirel aspetta il 20 ottobre, il giorno del suo compleanno. Doveva festeggiarlo con i genitori e il fratello Eyal, al Muro del Pianto di Gerusalemme. E invece no. Si chiude nella sua stanza, e ingoia l'intero flacone dei farmaci che avrebbero dovuto curarla. Se ne va a morire in cortile, guardando un'ultima volta il filare di ulivi sulla collina. È bella, la sua Porat: vuol dire "vite feconda". Ma lei sa che un tempo si chiamava Qalansawe, la abitavano gli arabi, da sempre, finché nel 1950 gli ebrei della diaspora, tornati in Israele, li hanno cacciati senza pietà. Ci sono dolori che un giorno ci tornano utili, come scrive Peter Cameron. Altri che ci soverchiano, ci sono fatali. Shirel Golan aveva 22 anni. Mi piace pensare che se ne sia andata sognando i suoi amici che ballano sulla musica di Paul Kalkbrenner, come il 7 ottobre. Ma anche i suoi coetanei palestinesi ammazzati a migliaia a Gaza, come succede ormai da 12 mesi. Anche loro sono morti senza avere alcuna colpa.
N.d.r. I testi sopra riportati sono stati pubblicati sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 2 di novembre 2024.
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