Sopra. "Erisittone taglia una quercia sacra a Cerere" di Luigi Ademollo (1832).
martedì, 26.11
Idee un po' più chiare dopoché a Kirchheim ho comprato una carta Shell. Nella notte una bella bufera, la mattina neve dappertutto, sfrangiata, che si scioglieva. Pioggia, tormenta sono ancora gli ordini minori. La baracca conteneva, a guardar bene, correggiato e rastrello per fieno, appesi alle pareti, per fare il rustico, e anche dei bastoni da passeggio con applicate delle placchette, rastrelli in croce, e un foglio di calendario con Playmate del mese di settembre. Sopra la finestra foto degli abitanti, fatte all'automatico, mi ricordano molto gente come Zef e Schinkel. L'uomo del distributore mi guardava con un'aria così irreale che io mi sono precipitato alla toilette per convincermi davanti allo specchio che ho ancora un aspetto umano. Ma sì, adesso mi faccio trascinare dalla bufera intorno al distributore fintantoché non mi spuntano le ali. Questa notte sarò re nella prossima casa violata; sarà la mia fortezza. Una sveglia da cucina, una volta messa in moto, annuncia in grande stile l'Ultima Fine. Il vento di fuori fruga il bosco. Questa mattina la notte era sospinta, come un'annegata, da fredde onde grigie. (Tratto da “Sentieri nel ghiaccio” di Werner Herzog, 1978).
“Stiamo divorando noi stessi”, riflessioni sulle “Metamorfosi” di Ovidio di Maurizio Bettini – docente di “Filologia classica” nell’Università di Siena – pubblicate sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 24 di novembre 2024: Erisittone, personaggio delle Metamorfosi di Ovidio, è un uomo che spregia gli dei, e la sua empietà è davvero inimmaginabile. Nei pressi della sua casa sorgeva un bosco sacro a Cerere, in cui torreggiava una quercia immensa, di altezza e grossezza straordinaria. I devoti lo avevano costellato di addobbi ed ex voto, per sottolinearne il carattere sacro, e la maestà di questa pianta era così grande che le altre querce, sotto di lei, facevano la figura dei fili d’erba che coprono il terreno di un bosco. Erisittone però concepì il desiderio di abbattere l’albero sacro. Nessuno voleva colpire quel legno, tanto che l’empio in persona cominciò a menar colpi di scure. L’albero, ferito, si “umanizza” nel lamento che emette, nel pallore di morte che si spande sulle ghiande, sulle fronde, sui rami. Questa umanizzazione della quercia non è un semplice artificio del poeta, per aggiungere pathos alla sua descrizione, ma allude a una cosmologia, a una visione della natura, che fu propria degli antichi e che noi non condividiamo più. Nel mondo antico, infatti, umani e alberi non erano separati da una totale alterità, come accade nella percezione comune della nostra cultura: ma fra loro agiva una sorta di continuità che noi abbiamo perduto – e che oggi, grazie alle nuove ricerche dei più avvertiti studiosi di botanica, stiamo man mano riconquistando. Dopo la ferita inferta al tronco della quercia, una voce si fa flebilmente udire. È quella della ninfa che abita nell’albero, ma nonostante il susseguirsi di questi prodigi, Erisittone insiste nella sua infame opera: l’immensa quercia crolla a terra. Le ninfe del bosco si recano da Cerere, la dea cui la pianta abbattuta era sacra, per chiederle vendetta su Erisittone. La dea non si fa pregare, e al suo accenno di assenso – il suo “dir di sì” con il capo – le messi, cariche di spighe, si scuotono come in una tacita sintonia. In questa solidarietà fra la quercia e le spighe, sotto la regia del numen di Cerere, sembra di riconoscere un’anticipazione divina di ciò che oggi si chiama “wood wide web”, l’invisibile rete di connessione fra le piante che sappiamo attiva nel regno vegetale. Conformemente alla provincia governata dalla dea, saranno proprio le messi, infatti, il vettore della punizione divina. Erisittone sverrà colpito da una punizione alimentare, di cui l’agitarsi delle spighe costituisce il segno premonitore. Lo colpirà una fame insaziabile, che lo porterà a divorare tutte le derrate di cui dispone, tutte le mandrie che pascolano nei suoi campi, finché, a corto di ogni risorsa, finirà per divorare se stesso, lacerando il proprio corpo. Qual è oggi la significazione del mito di Erisittone? In quale contesto si inserisce questo racconto che ci giunge dall’antichità? La risposta, purtroppo, è abbastanza ovvia. Viviamo in un mondo afflitto da un continuo processo di deforestazione, praticato per attuare monoculture intensive, per intensificare la produzione di legname, per molti altri motivi legati alle esigenze della nostra economia. E questo nonostante ormai sappiamo che il diminuire della superficie verde sul pianeta è un’altra delle cause che provocano il riscaldamento globale. La sorte patita da Erisittone ci ammonisce dunque sul fatto che abbattere alberi può condurre alla privazione di cibo, alla carestia e alla fame, proprio a motivo di quella solidarietà che in modi a volte sotterranei e invisibili unisce fra loro gli elementi naturali. Il mito ci parla di connessioni che al primo sguardo non si vedono, come quella fra la quercia abbattuta e le messi: perfetta prefigurazione delle conseguenze provocate oggi dalla deforestazione che, agendo sul cambiamento climatico, finisce col produrre fenomeni in apparenza da esso indipendenti, come desertificazione e carestie. E dunque fame. La nostra è una umanità bulimica, ingorda, che, per soddisfare i propri insaziabili bisogni, da un lato produce la distruzione dell’ambiente in cui vive, dall’altro provoca la rovina di se stessa. Più consumiamo, più desideriamo, in un ciclo infinito che potrebbe finire per distruggerci. Come Erisittone, stiamo divorando noi stessi.
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