"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 14 novembre 2024

MadeinItaly. 40 Donatella Di Cesare: «Il volto familiare nasconde e mimetizza l’amministrazione autoritaria, l’aura carismatica del potere accentrato, affidato alla setta di parenti e amici, tenta di eliminare ogni contestazione e neutralizzare l’opposizione».


(…). Lasciamo stare il povero Salvini, che si fa i video come Farfallina76 per dire che il comunismo non passerà e vuole chiudere i centri sociali a Bologna (tranquillo, Matteo, li ha già chiusi quasi tutti la sinistra, cioè i “comunisti”) e aspettiamo che qualcuno lo intervisti per una volta non come storico, ma come ministro dei treni in ritardo. Però, dicevo, al di là del famoso cabarettista padano, la parola “comunista” rimbalza nelle cronache e nel chiacchiericcio politico in modo ossessivo. Con grande sprezzo del ridicolo, va detto, perché a sfogliare le cronache recenti la destra meloniana e gli assistenti del capocomico di via Bellerio hanno dato del “comunista” a chiunque, ai magistrati che applicano la legge, a esponenti della sinistra più liberale e annacquata che esiste, ai professori che non bocciano, ai volontari delle Ong, all’Europa, a Biden e Kamala Harris, e via elencando. Se esistessero in natura tutti i comunisti evocati dai figuranti della destra italiana altro che Stalingrado, avremmo almeno ripreso la Liguria. Pare che di colpo, sul pianeta, tutto quello che sta anche vagamente a sinistra di Bocchino sia “comunista”, il che non rende giustizia a una parola nobile, che segnò un clamoroso pezzo di storia dell’Ottocento e del Novecento. Non si capisce, insomma, se dare del “comunista” a Gentiloni, o a Schlein, sia più offensivo per loro o per i famosi “comunisti” che vedendosi così paragonati potrebbero anche sospirare: “Ma come cazzo siamo finiti”. E del resto, anche Trump ha tuonato che bisogna battere il comunismo, e forse intendeva il famoso comunismo della Florida o del Wyoming dove, come è noto a tutti, comandano i Soviet. Ma sia: sopportiamo qualche imprecisione storica, che a volte è dettata dall’ignoranza e più spesso dalla malafede, del resto ancora oggi – 2024 – si legge ogni tanto che le truppe russe sul fronte ucraino sono “sovietiche”, che è un po’ come dire che a Lampedusa sbarcano migliaia di Ostrogoti. E del resto fu proprio un ministro della cultura del governo Meloni, Sangiuliano Martire, a pronunciare durante un’esilarante intervista la mitica frase: “Non mi venite a dire che in Italia non c’è stata una dittatura comunista”. Vabbé, il ministro finì come finì, in una storia sospesa tra Boccaccio e un cinepanettone, ricucito sulla capoccia (spoiler: mica sono stati i comunisti) e non fa testo. Restiamo qui noi, come al solito basiti, italiani semplici, a guardarci le spalle, magari in lista d’attesa per una visita o un esame medico, o col soffitto della scuola che ci frana in testa, o con la busta paga che ci consente a malapena di arrivare al 20 del mese. Ma molto, molto spaventati dai “comunisti”. (Tratto da “Allarme. Un virus misterioso fa vedere comunisti ovunque: la destra si vaccini” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 13 di novembre 2024).

TattichediDistrazionediMassa”. “Il volto ibrido di Meloni: tecnicismo più familismo” testo di Donatella Di Cesare – docente ordinaria di “Filosofia Teoretica” presso il “Dipartimento di Filosofia della “Università Sapienza” di Roma - pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 24 di ottobre 2024: Non c’è quasi dibattito pubblico in cui, per qualificare Meloni e il suo operato, non si ricorra sbrigativamente all’etichetta “populismo”. Sappiamo bene che ormai, nel crescente degrado, le parole vengono svuotate di significato e usate a sproposito. Perciò spesso finiscono per essere lanciate come pietre contro l’avversario politico. Ma in questo caso occorre forse fermarsi e chiedersi se – alla luce di questi due anni e della manovra che incombe – il governo Meloni presenti davvero qualche carattere populista. A me non pare proprio. E vorrei perciò, a scanso di equivoci, tentare di chiarire subito la mia tesi interpretativa. Avevo scritto tempo fa, su queste colonne, che saremmo andati verso forme di governance ignote e inquietanti. Oggi posso confermare questo giudizio. Ne sono la prova, ad esempio, lo schieramento nell’asse atlantista, l’accoglimento di misure tecno-amministrative e finanziarie del tutto letali per l’economia di questo paese, l’oblio dei poveri, la cancellazione del Sud, i provvedimenti aggressivi contro la magistratura e la stampa, che mettono a rischio la stessa libertà di dissenso, la stretta sui diritti civili. L’elenco potrebbe continuare. L’impressione è che il governo Meloni sia un ibrido che coniuga due tendenze in modo inedito e allarmante: la tendenza tecnocratica di una governance amministrativa, che fa il gioco di grandi imprese, industria militare, banche e capitale finanziario; la tendenza familistica che accentra e personalizza l’esercizio del potere. L’una è aggressivamente modernista, piegata alle pretese del neoliberismo, l’altra è arcaica e regressiva. Si potrebbe parlare di un tecno-familismo o di un familismo tecnocratico. Che cosa potremmo immaginarci di peggio? Il volto familiare nasconde e mimetizza l’amministrazione autoritaria, l’aura carismatica del potere accentrato, affidato alla setta di parenti e amici, tenta di eliminare ogni contestazione e neutralizzare l’opposizione. Queste due tendenze, apparentemente antitetiche, si congiungono così in un ibrido senza precedenti che mina e decompone la democrazia. Di più: questo ibrido, questa forma politica, costitutivamente ingannevole, che riesce a tenere insieme il peggio del passato, raddoppiandolo persino, è particolarmente adatta a favorire la corruzione delle élite e ad assecondare le disuguaglianze economiche e sociali. Se prima qualcuno poteva nutrire qualche pia illusione, dopo due anni di governo, mentre si vara la nuova legge di Bilancio 2024, i dubbi sono dissipati. Per un verso acquiescente, e perciò misera e striminzita, per l’altro spietata e miope (con le solite concessioni tribali e le consuete sperequazioni fiscali), la manovra taglia i servizi pubblici, mentre fa finta di tassare le banche (in realtà chiede con il cappello in mano un anticipo sulle imposte future). Non si vede, dunque, in che cosa dovrebbe consistere il populismo del governo Meloni, a meno di non voler intendere con questo termine iperabusato un sinonimo di propaganda demagogica. In questo, a dir vero, i nuovi patrioti sembrano imbattibili. Ma per il resto c’è ben poco di populismo e ancor meno di popolo. Dietro la maschera familistica si scorge sempre più distintamente il potere dell’establishment di sempre. Direi anzi che il governo Meloni sancisce l’esistenza di un demos senza kratos, un popolo senza potere, sempre più ridotto all’impotenza politica. Basti pensare alle guerre e allo scenario di politica estera. Tutti i tentativi di etnicizzare il popolo, cioè di favorire gli interessi di alcune tribù e additare nei migranti il nemico da internare in Albania, sono brutali quanto inutili tattiche di distrazione di massa volte a coprire il vero problema democratico. Mai come ora c’è stata una politica sprezzante e sorda ai bisogni che vengono dal basso. E la frattura è destinata ad aumentare per via di quel neoliberismo avventurista e bellicista, sposato in pieno da Meloni. Toccherà allora alle opposizioni farsi più populiste – nel senso eminente di questa parola – dando voce al disagio crescente e arginando il fenomeno sempre più pericoloso dello svuotamento della politica. Dopo innumerevoli e brucianti disillusioni, dopo dolorose e avvilenti frustrazioni, siamo a un passo, in questo paese, da uno iato irreversibile tra governanti e governati. Provocatoriamente vorrei allora dire che sarebbe tempo di riscoprire il populismo come forza di emancipazione. È così che, in fondo, era stato inteso inizialmente da alcuni politologi: come processo di democratizzazione della democrazia, come forza positiva in grado di mobilitare i cittadini e di coinvolgerli nella vita politica e nelle scelte comuni che li riguardano. Esattamente l’opposto di quel che avviene in questi giorni.

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