“LaPoliticaVuota”. 2 “Il personale è partito”, testo di Filippo Ceccarelli pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 26 di ottobre 2024: Chi fa da sé fa per tre, ma al giorno d'oggi, con la benedizione degli antichi proverbi, chi fa da sé può tranquillamente farsi un partitello, entità così diffusa che l'odierna politologia ha preso a qualificare appunto "partito personale" una formazione fondata, alimentata e concentratissima sulla figura e gli interessi di un'unica persona. In questi ultimi anni abbiamo visto tanti, anzi troppi partiti personali, la memoria saltabecca qui e là senza trattenere più che qualche vago ricordo, per lo più inglorioso, il partitello della Pivetti, quello di Monti, quello di Scilipoti, di Santanchè, di Gigino Di Maio, di Renzi e di Calenda, l'ultimo a nome di Michele Santoro. Al dunque sfuggono i nomi e i simboli di tali effimeri aggregati, chi mai volesse rinfrescarsi le idee a proposito di Mastella, che pure nella sua formazione aveva coinvolto moglie e figli dando vita alla variante famigliare, o di chissà chi altro, può utilmente rivolgersi a Gabriele Maestri, Pontefice Massimo della micropolitica, che ha la passione e la pazienza di annotarsi ogni novità nel suo sterminato blog, I simboli della discordia, là dove quest'ultima, con i suoi capricci di ordine condominiale, senz'altro contribuisce a diffondere l'oblio sull'intera materia. Chi fa da sé, d'altra parte, almeno in teoria incontra meno problemi di chi, nel dar vita a un partito, deve mettere insieme tante storie, tante persone, tanti interessi e altrettanti capricci. Per certi versi la privatizzazione della politica ha a che fare con la cultura della scorciatoia, per altri occorre riconoscere che l'imprenditoria politica individuale risponde, sia pure richiamando le compagnie di ventura di diversi secoli orsono, allo spirito di un tempo dominato dalla frammentazione egoistica, dal disincanto ideologico e dall'accelerazione della tecnologia. Per quanto complessa possa dirsi la spiegazione, è accaduto tutto abbastanza in fretta, anche se in profondità. A partire dai primi anni 80 la formula fu quella dei processi di personalizzazione imposti al giornalismo politico dall'avvicendamento mediatico: meno giornali e più tv generarono una situazione per cui non contava più tanto il Psi, ma il suo leader Bettino Craxi; così come il glorioso Partito comunista, che nei cortei veniva liturgicamente evocato con una sequela di cognomi che da Gramsci via Togliatti e Longo arrivava a Berlinguer, ecco, alla fine del decennio il Pci parve esaurirsi nella figura del nuovo e baffuto leader, Achille Occhetto, unico, solitario e anche per questo contestatissimo autore di una "Svolta" che sola, anch'essa, avrebbe posto insieme fine e rimedio all'avventura del comunismo. Pure nella Dc, del resto, il partito più collettivo che mai l'ingegno italiano avesse impiantato, Ciriaco De Mita non solo aveva ritenuto di poter fare da sé, ma anche proponendosi come un eroe isolato sceso in guerra contro le nefaste correnti. Di lì a poco venne giù la Prima Repubblica, cui diedero un colpo, in ordine sparso ma serrato: Cossiga il picconatore, Bossi il capopopolo, Mariotto Segni l'hidalgo referendario, Tonino Di Pietro il vendicatore, oltre a una manciata di sindaci giovani e fascinosi, Orlando, Rutelli, Cacciari, Bassolino, Bianco, che parvero calamitare l'attenzione più sui loro tratti personali che sul governo municipale che i cittadini gli avevano affidato. La fine del contatto quotidiano, nel frattempo, la velocità della comunicazione, le politiche simboliche e la gestione delle emozioni s'impossessarono della scena pubblica mettendo in luce come al vuoto della rappresentanza andava sostituendosi un pieno di spettacoli ad alta densità per la conquista dell'attenzione. In tal modo, per non farla troppo lunga, terminò il secolo, con i suoi antichi e forse indispensabili equivoci di massa. Senza proclami, come inavvertito dogma, si pose all'ordine del giorno la convinzione che per governare un Paese complicato come l'Italia fosse necessario affidarsi a un solo capo politico. Per quanto erroneo e sciaguratello, questo andazzo fertilizzò il terreno per la prima vittoria, ma poi anche per l'epopea ventennale del messia della grande mutazione antropologica e individualistica, Silvio Berlusconi, l'uomo solo al comando per eccellenza. Ora, può risultare temerario avventurarsi in diagnosi istituzionali tanto complesse quanto semplificate, ma il Cavaliere non fu un normale presidente del Consiglio: operò e soprattutto visse se stesso come un sovrano. La monarchia tornò quindi in auge in evoluta cornice tecnologica. Ne seguirono feudatari, valvassini, pretesi o attesi eredi, cerchi magici e cortigiani, mentre nelle Regioni i presidenti eletti presero a fregiarsi del titolo di governatori. La verticalizzazione del comando conobbe varianti e variabili anche considerevolmente lontane fra loro - vedi Renzi, l'Elevato Grillo o lo stesso tecnocrate Draghi - ma nessuno pensò mai di ripristinare il vecchio partito di massa. Se proprio occorre andare a caccia di inediti sviluppi, oggi va molto l'identità che apparentemente tiene insieme il leader e i molti, ma non i troppi. Chi troppo vuole, del resto, nulla stringe - e nel buio di senso forse solo i proverbi ci restituiscono un lumicino.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 5 novembre 2024
Lastoriasiamonoi. 16 Filippo Ceccarelli: «Il Cavaliere non fu un normale presidente del Consiglio: operò e soprattutto visse se stesso come un sovrano. La monarchia tornò quindi in auge in evoluta cornice tecnologica».
(…). Se ai fiumi di parole spese negli
ultimi anni per analizzare la mediocrità della sinistra, la sua crisi, la sua
debolezza, la sua incoerenza, avesse corrisposto uno sforzo almeno pari per
capire la mostruosa (aggettivo scelto con cura) metamorfosi delle destre
occidentali, forse potremmo capire un po’ meglio come sia possibile che un
figuro siffatto minacci di diventare, per la seconda volta, presidente degli
Stati Uniti. Ma non mi sembra sia accaduto. Trump, il populismo, il bullismo
nazionalista che in ogni paese, compreso il nostro, sprizza odio e ignoranza,
vengono sistematicamente “spiegati” come il risultato dei famosi errori della
sinistra, delle sue mancanze, dei suoi tradimenti, delle sue incertezze. Va bene,
ma la destra? Questa destra? È il mero effetto dei fallimenti del Welfare,
della globalizzazione, della democrazia? Possibile che non abbia un’anima
attiva, una sua propria storia, responsabilità autonome? Possibile che la sua
madornale rozzezza, il suo disprezzo per le regole, il suo fanatismo siano
sistematicamente addebitabili alle “colpe della sinistra”? Senso di colpa
altissimo a sinistra, senso di colpa zero a destra? Glielo ha ordinato il
dottore, a quelli di destra, di votare per gli autocrati, i miliardari, i
paranoici? Non potevano scegliersi una leadership decente? Gli acuti analisti
che giustificano Trump come conseguenza del fallimento delle élites
democratiche, hanno mai pensato che Trump e i suoi elettori sarebbero ciò che
sono, e penserebbero ciò che pensano, anche motu proprio? (Tratto da “Perché Trump è Trump” di Michele Serra
pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, 5 di novembre 2024).
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