“Dalla parte delle vittime”, testo di Luigi Manconi pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 25 di ottobre ultimo: (…). Quando sento anche persone a me care (politicamente e affettivamente) ammonire che i bambini palestinesi uccisi dai bombardamenti di Israele sono «tre, quattro volte» quelli uccisi da Hamas provo un leggero disgusto. Le cifre sono quelle e quella è la loro ripartizione etnica. Ma questo calcolo selettivo aiuta a porre rimedio alla catastrofe in corso? Accade che quotidianamente venga stilata una sorta di gerarchia del dolore, esito torvo di una triste contabilità dei morti, dei feriti, dei rapiti e della loro aritmetica attribuzione all’una o all’altra parte in guerra. E provo altrettanto disgusto per l’ossessione di trarre un saldo definitivo nel bilancio delle responsabilità e delle cause, delle radici remote e delle dinamiche storiche che hanno determinato l’attuale tragedia. Non che queste non esistano o non siano trattabili e discutibili, ma mi sembra che non possano più essere utilizzate secondo l’elementare e micidiale meccanismo di causa-effetto. Per capirci, resto convinto che tra le antiche ragioni di quella tragedia vi sia la mancata fondazione di uno Stato palestinese all’epoca della formazione di quello di Israele; e che tra quelle recenti pesi assai significativamente l’occupazione dei territori palestinesi e la politica di colonizzazione messa in atto dai governi israeliani. Ma non mi basta. Limitarsi a questo rischia di alimentare il giustificazionismo morale che inevitabilmente porta a ritenere Hamas come l’espressione - magari deformata - di una causa giusta. Così non è. Per questo bisogna tornare al 7 ottobre scorso e alla carneficina, a opera di Hamas, nel deserto del Negev e nei kibbutz di Kfar Aza, Be’eri, Re’im e Urim. (…). E la condanna sarà tanto più forte quanto più saremo capaci di considerare il comportamento di Hamas non come la manifestazione estrema ed estremista della condizione di oppressione del popolo palestinese, bensì come una scelta tutta politico-militare e tutta da attribuirsi alla strategia dell’Iran e dei “partiti armati” da esso formati e finanziati. Da qui una ulteriore conseguenza: le vittime civili della reazione di Israele mai potranno essere considerate - come tanti fanno - una forma di risarcimento o di riequilibrio per le vittime ebree. Anche in questo caso ci si deve sottrarre al meccanismo di causa-effetto. Anche in questo caso le morti dei civili palestinesi non sono l’esito collaterale di una giusta reazione di Israele ai crimini di Hamas, ma l’espressione di una strategia politico-militare del governo Netanyahu. Per questo quello che vorrei riuscire a dire e a motivare è una posizione che non si schieri con una fazione o con l’altra, bensì esclusivamente dalla parte delle vittime quando come tali si presentano a noi con tutto il loro carico di dolore. Sono d’accordo quindi con quei cinquecento ebrei statunitensi - tra loro una ventina di rabbini - che la scorsa settimana hanno manifestato all’interno del Congresso degli Stati Uniti chiedendo il “cessate il fuoco”. Insomma, non ne posso più di questa interpretazione competitiva e tifosa dell’orrore e penso che sia nostro compito - tanto più perché siamo privilegiati e viviamo in una comfort zone dove non arrivano né le bombe né i parapendio - farci carico del dolore di tutti, cercando di porvi rimedio nei limiti delle possibilità e delle responsabilità di ognuno e tentando di disinnescare il dispositivo infernale della vendetta che chiama vendetta. Voglio dire, molto semplicemente, che, mentre mi auguro con tutta l’anima che Israele interrompa i suoi bombardamenti indiscriminati e l’assedio a Gaza, non voglio dimenticare nemmeno per un attimo gli ebrei sgozzati nei kibbutz e quelle ragazze e quei ragazzi uccisi mentre ballavano. Solo se pensiamo a loro, ai loro nomi e cognomi, alle aspettative distrutte, alle speranze spazzate via e alla dignità mortificata, solo allora potremo essere all’altezza del dolore altrettanto irreparabile dei loro coetanei palestinesi. Ciò che davvero conta è “l’autorità dei sofferenti”, di cui scriveva Johann Baptist Metz. Non la sofferenza come astrazione o categoria ideologica, come fattore statistico o contabilità funebre. Ma la sofferenza dei corpi straziati di esseri umani che sono solo ed esclusivamente esseri umani. Questo non significa ignorare la storia e la geografia e le dinamiche politico-diplomatiche: si tratta piuttosto di constatare che siamo precipitati in una dimensione che eccede tutto questo e che si presenta come dis-umana, dove serve qualcosa di più dei consueti strumenti di analisi e di intervento. E dove tutti dovremmo essere capaci di andare oltre la miseria degli schieramenti convenzionali e della logica marziale, o di qua o di là: quella che sempre impone di sacrificare un pezzo di umanità a vantaggio di un altro pezzo di umanità.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 27 ottobre 2023
Memoriae. 87 Luigi Manconi: «Ciò che davvero conta è “l’autorità dei sofferenti”, di cui scriveva Johann Baptist Metz».
(…). Non amo parlare basandomi interamente
su numeri e statistiche. Cerco sempre di dare un volto alle vittime. Vivian
Silver ha settantaquattro anni ed abita nel kibbutz Beeri. Non la conosco, ma
so che è una militante della pace. Fa arrivare i bambini di Gaza negli ospedali
israeliani. Esistono persone come lei, che rischiano la vita per contribuire al
riavvicinamento dei due popoli. È stata rapita, non se ne conosce la sorte.
Nulla, secondo me, può giustificare gesti di questo tipo. Ascolto i discorsi di
chi su questa tragedia dice qualsiasi cosa. Ma nemmeno una resistenza nazionale
può giustificare una barbarie simile, una tale violenza. Bruciare vive delle
persone, uccidere dei bambini davanti ai loro genitori...Nulla può giustificare
questo. Azioni simili non fanno che ritardare il necessario accordo tra
israeliani e palestinesi — perché è evidente che tra i due popoli occorra
trovare un modus vivendi sostenibile. Non vi sono altre opzioni possibili. (…).
Il macabro ciclo di eventi a cui stiamo assistendo fa venire voglia di
piangere. Il governo Netanyahu è composto da integralisti, membri dell’estrema
destra, persone che si lasciano andare a delle provocazioni sul Monte del
Tempio, a Gerusalemme. Mentre, da mesi, ogni settimana centinaia di migliaia di
israeliani manifestano contro questo governo. Il sentimento più diffuso oggi è
simile a quello di cinquant’anni fa. La storia purtroppo si ripete. Ma il ciclo
che stiamo vivendo è peggiore di quello che la mia generazione conobbe. Nel
1973, ai tempi della guerra del Kippur, non vi furono villaggi distrutti, dati alle
fiamme o occupati, né israeliani rapiti. Oggi è un’altra storia. Si è messo in
moto un rituale terribile, fatto di bombardamenti, perdita di vite umane e
spreco di tutte le risorse di questa regione, in nome del conflitto militare, e
senza soluzione di continuità. Stiamo vivendo un momento molto buio. Nessuno sa
come andrà a finire, ma ritengo che occorra tenere alta la speranza. In caso
contrario, ad avere il sopravvento sarebbero il nihilismo, la distruzione, la
morte. Occorre continuare a sforzarsi di tracciare un cammino di speranza. (…).
A differenza di molti uomini politici che conosciamo, che studiano i sondaggi
del mattino per sapere cosa dire nel pomeriggio, Rabin era un vero uomo di
Stato, ed ebbe il coraggio — direi addirittura l’audacia — di costruire
qualcosa di diverso, un altro Medio Oriente. La sua uccisione ha decapitato gli
sforzi di pace. Cosa può fare l’arte in un contesto simile? L’arte, purtroppo o
per fortuna, non modifica il corso degli eventi. Ne conserva però la memoria.
Ci ricorda che un’opzione diversa, un’opzione di pace, è esistita. Un modo di
vivere che riconosceva la tragedia di due popoli e tentava di costruire per
essi un futuro diverso. Sapere che un’altra realtà è possibile è l’unica
consapevolezza che può permetterci di uscire dall’attuale situazione di stallo.
(Tratto da “La memoria della pace”
di Amos Gitai - Haifa, 11 di ottobre dell’anno 1950, regista, sceneggiatore,
artista e produttore cinematografico israeliano - pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 23 di ottobre 2023).
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