“Gli apprendisti stregoni contro la Carta”, intervista di Silvia Truzzi al professor Gustavo Zagrebelsky pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 26 di settembre ultimo: (…). Professore, con quel cognome si sente italiano? «Super-italiano! Ma che cos’è l’Italia? Mi riconosco nell’Italia come la definisce il primo articolo della Costituzione: una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, con tutto ciò che ne segue. Non è una sommatoria indifferenziata che mescola tutto, nel bene e nel male. Intendo anche, per esempio, mafia, corruzione, familismo ed evasione fiscale. Sono cose “italiane”. Sì, ma sono anche l’Italia in cui ci riconosciamo? Sono la nostra civiltà o la nostra inciviltà?».
E si riconosce nella parola intellettuale? «In mancanza di meglio…».
In Politica e cultura (1954) Norberto Bobbio dice che il ruolo dell’intellettuale è seminare dubbi e non affermare certezze. È d’accordo? «Sì, ma con una precisazione. Su questo, ho scritto un piccolo libro sul valore del dubbio, Contro l’etica della verità. Bisogna intendersi: il dubbio, per me, non è affatto il contrario della verità. In un certo senso, è un omaggio alla verità. Solo chi crede nell’esistenza della verità può dubitare di possederla. Il dubbio di cui parlo non è lo scetticismo radicale di un Pirrone di Elide, cioè la convinzione che sia insensato giudicare ogni cosa come vera o falsa, giusta o ingiusta, buona o cattiva, bella o brutta. Il dubbio, invece, presuppone l’afferrabilità delle cose umane, e insieme l’insicurezza di averle davvero afferrate. Quando dubitiamo ci esprimiamo così: sarà davvero vero? E questo è insieme un omaggio alla verità e il riconoscimento della nostra fallibilità».
Come sono cambiati gli intellettuali dagli anni Cinquanta a oggi? «Se parliamo di intellettuali in astratto, non c’è nessuna differenza. In concreto, anche alla luce di quello che ci siamo detti su dubbio e verità, gli intellettuali che ho conosciuto facevano della ricerca della verità il loro scopo non mescolato con altri intenti».
Che cosa intende quando parla di mescolamenti? «Il cedimento agli innumerevoli opportunismi che tentano quotidianamente la nostra esistenza. Tra questi alcuni sono ignobili, altri meno, come per esempio la tendenza a piegare la ricerca della verità allo spirito del tempo. Stare al passo con i tempi, però, molto spesso coincide con il conformismo».
Ha attraversato le Repubbliche: qualche nostalgia? «Dal punto di vista costituzionale, dividerei il mio tempo in due parti. La prima, che arriva fino agli anni Settanta, è il tempo della lotta per l’attuazione della Costituzione. Nessuno si proponeva di cambiarla, anche se molti agivano contro. La seconda, dagli anni Ottanta a oggi, è l’epoca del cambiamento della Costituzione. Molti vogliono intensamente cambiarla e altri difenderla».
Perché questa ossessione? «Non parlerei di ossessione, ma di un preciso disegno che viene nobilitato con l’ambigua parola “governabilità”, una parola impropria, sdrucciolevole, che pretende arrendevolezza da parte dei “governati”. Le mandrie o le greggi sono “governabili”. Ciò che si vuole con quella parola ingannatrice è rafforzare il potere “pastorale” (per restare nell’immagine) sui cittadini. Tutto ciò implica un radicale rovesciamento del “flusso politico” che la democrazia, come è scritta nella Costituzione, vuole che sia dal basso verso l’alto, dalla società alle istituzioni politiche, non viceversa».
Chiarissimo. Questa inversione cambia anche la natura della legge? «Certamente. Dalla legge come confluenza delle libertà sociali, operanti nel Parlamento rappresentativo, alla legge come imposizione decretata dal governo. Sono prospettive radicalmente diverse».
Il governo sta lavorando su un progetto di modifica costituzionale per introdurre il premierato. Che cosa ne pensa? «È un modo per operare quel rovesciamento. Aggiungo: un modo bislacco, denunciato da tanti costituzionalisti. Il premierato di cui si parla, comunque, è parente stretto di tutte le altre proposte che si basano sulla elezione diretta di un capo».
In campagna elettorale Fratelli d’Italia proponeva il presidenzialismo, oggi si vira sul premierato. L’elezione diretta di qualcuno, purché sia? «L’elemento comune è la democrazia di investitura, che è il contrario della democrazia di partecipazione prevista dalla Costituzione. Parente stretta delle democrazie autoritarie o illiberali che si stanno diffondendo in tutto il mondo».
Loro dicono: il parlamentarismo ha fallito, qualcosa bisogna fare. «Il parlamentarismo è la traduzione nell’architettura costituzionale di quel flusso dal basso verso l’alto che si alimenta attraverso la partecipazione della società alla politica. Lei ha mai riflettuto sul significato della formula che si sente ripetere a ogni tornata elettorale: “Noi abbiamo vinto” “gli altri hanno perso”. Ecco: il verbo “vincere”, a proposito delle elezioni, è l’espressione di quella concezione della democrazia dall’alto verso il basso. Chi vince comanda, chi perde viene comandato. In questo contesto s’inseriscono sia l’elezione diretta di un capo, sia i vari marchingegni elettorali come i premi di maggioranza spropositati e l’abolizione delle preferenze. Le forme di governo di per sé non falliscono o prosperano; falliscono o prosperano in conseguenza della vitalità delle forze sociali e politiche che le devono animare. Il problema, per chi crede in una democrazia partecipata, non è superare il parlamentarismo, ma dare nuova linfa alle forze che lo sorreggono. Quelle invenzioni da ingegneri costituzionali sono strumenti in mano ad apprendisti stregoni: pensano che funzionino in un certo modo, poi le circostanze s’incaricano di dimostrare la loro fatuità».
L’altra grande riforma annunciata è quella dell’autonomia differenziata. «Una premessa: guardiamo lo stato della Repubblica, della res publica. Non ci accorgiamo di vivere in un’epoca di grandi divisioni: ricchezza contro povertà, lavoratori contro disoccupati, garantiti contro disperati, periferie contro centro-città, eccetera. Non ci sono mai state tante fratture nella società come oggi. Non dimentichiamo la “distanza” Nord-Sud, una tra le più grandi fratture».
Appunto, così torniamo all’autonomia. Più che Nord-Sud possiamo dire che la contrapposizione è tra Regioni ricche e Regioni povere? «Il burocratismo dominante pensa di risolvere le disuguaglianze usando algoritmi sintetizzati nei Lep, i livelli essenziali di prestazioni. L’algoritmo sembra un metodo oggettivo, pacificatore. Ma la ricomposizione dell’unità nazionale è questione politica, non matematica».
Un’altra ossessione della politica è la giustizia. «Sembrano, quelli che abbiamo sfiorato, temi indipendenti uno dall’altro, ma non lo sono. Che cosa ci garantisce contro la formazione di poteri oligarchici che creano divisioni tra chi sta su e chi sta giù nella scala sociale? La legge. ‘La legge è uguale per tutti’: una bella frase scritta sulla testa dei giudici in tribunale, ma la legge in concreto può essere uguale solo se i giudici, nell’applicarla, non dipendono dalle gerarchie politiche e sociali».
Non è già cosi? «Intanto, in Italia conosciamo le leggi ad personam. Poi abbiamo sistemi processuali che sembrano fatti apposta per impedire di giungere alla conclusione dei processi quando sono in campo grandi interessi che usano ogni mezzo a disposizione. La prescrizione, per esempio, dovrebbe essere un istituto nelle mani dello Stato che rinuncia al perseguimento dei reati perché così consiglia l’interesse pubblico. Da noi è diventato invece uno dei maggiori strumenti privati di difesa dal processo. Anche qui un’inversione di senso. Come se ciò non bastasse è sempre in auge l’idea di separare le carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti. Non ci sarebbe nulla di male, sempre che ai magistrati della pubblica accusa venisse garantita l’indipendenza che spetta ai magistrati giudicanti. Se non ci fosse un retro-pensiero, non si spiegherebbe l’accanimento dei separatori. Si spiega invece benissimo se lo scopo ultimo della separazione è poi il controllo sull’esercizio dell’azione penale. Ma, allora, la legge sarebbe più uguale per alcuni e meno uguale per altri».
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