"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 29 ottobre 2023

Memoriae. 88 Biagio Di Grazia: «Le lancette del Doomsday Clock sarebbero innescate e segnerebbero l’inizio del confronto nucleare e della scomparsa del genere umano».


“L’obiettivo è distruggere Gaza, questo male assoluto”. L’ha detto a Rete4 Dror Eydar, ex ambasciatore di Israele a Roma dal 2019 al ’22. Non distruggere Hamas, ma Gaza: un territorio abitato da 2,3 milioni di palestinesi che in stragrande maggioranza non hanno alcun rapporto con Hamas.

Buona parte dei maggiorenni ha al massimo votato Hamas alle ultime e uniche elezioni legislative per l’Autorità nazionale palestinese nel 2006, quando noi occidentali spiegammo loro che dovevano diventare democratici ed eleggere liberamente i propri rappresentanti. Poi, siccome vinse Hamas sia nella Striscia sia in Cisgiordania, Usa e Ue iniziarono a boicottare economicamente non Hamas, ma l’Anp, affamando e spingendo vieppiù la gente verso gli estremisti. Ma metà della popolazione è formata da bambini, che non votano, ma voteranno. E, continuando a trattarli così, possiamo immaginare per chi, sempreché qualcuno li chiami ancora alle urne. “Noi – ha aggiunto l’ex ambasciatore – non siamo interessati a discorsi razionali. Ogni persona che minaccia un ebreo, che vuole uccidere un ebreo, deve morire”. Ma si è scordato di spiegare come si fa a riconoscere chi, fra quei 2,3 milioni di civili quasi tutti inermi, vuole uccidere ebrei: a meno di presumere che lo vogliano tutti e sterminarli tutti. Già l’idea che un simile soggetto che usa un tale linguaggio sia un diplomatico, se non fosse tragica sarebbe comica: perché è l’antitesi della diplomazia, anche di quella più ipocrita che usa toni suadenti ed espressioni soavi per nascondere le peggiori nefandezze del Paese che rappresenta. Ma il fatto che il governo israeliano mandi in giro per l’Europa a spiegare le sue ragioni figuri come Eydar, la dice lunga sull’ottusità dell’attuale classe dirigente di Tel Aviv. Che, anche dimenticando per un attimo gli orrori in corso a Gaza, non si pone minimamente il problema del consenso internazionale, convinta che le verrà permesso qualsiasi crimine di guerra per vendicare il terrificante “pogrom” di Hamas del 7 ottobre. È la terribile sintesi della storia israelo-palestinese di questi 14 anni di Era Netanyahu-Hamas: il sistematico sabotaggio bipartisan degli accordi di Oslo del ’93, siglati da Arafat e Rabin sul principio “due popoli, due Stati” e proseguiti da Sharon col ritiro da Gaza. Quel principio, così in voga in Occidente, è sparito da un pezzo dai radar del Medio Oriente: Israele è grande quanto la Puglia, ma ha la popolazione della Lombardia; la Cisgiordania è grande quanto la Liguria e Gaza è un decimo della Val d’Aosta e hanno ciascuna la popolazione della Calabria. Altro che “due popoli, due Stati”: oggi l’epilogo più probabile è “nessun popolo, nessuno Stato”. (Tratto da “Il diplomatico” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, sabato 28 di ottobre 2023).

“Guerra, cancellare la parola vittoria”, testo di Biagio Di Grazia – “già Capufficio delle Operazioni e Piani nel Comando di Reazione Rapida della Nato” – pubblicato su “il Fatto Quotidiano” dell’11 di ottobre ultimo: (…). L’incubo nucleare ha dominato la scena mondiale per tutto il tempo della Guerra Fredda e, con alcune varianti, fino ai giorni d’oggi. I militari della mia generazione – sono entrato in Accademia Militare nel 1966 – hanno vissuto questo periodo di ansia storica, in cui si sarebbe potuto replicare l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, con la consapevolezza che Usa e Unione Sovietica avevano attivato i dovuti controlli sull’uso dei rispettivi arsenali e il confronto sarebbe stato evitato dal terrore della vicendevole distruzione. Un dominio nucleare mantenuto in esclusiva dalle due Superpotenze e mai sottoposto a vincolo esterno. Questo reciproco comportamento ha fatto sì che le guerre che si sono succedute in tutto il mondo, si siano sviluppate senza che lo scambio atomico sia stato posto sul piatto; le due Superpotenze sono state libere per 80 anni di confrontarsi in sanguinose guerre “per procura” ovunque. Questi comportamenti di sicurezza di Usa e Russia sono terminati con la guerra in Ucraina, in virtù della particolare configurazione del conflitto, che ha assunto il carattere di scontro mortale tra due Stati, Ucraina e Russia, in cui la sconfitta pregiudica la sopravvivenza dell’una o dell’altra nazione. Si tratta di un conflitto europeo in cui una potenza nucleare, la Russia, è direttamente impegnata in campo di battaglia; l’altra potenza nucleare, gli Usa, partecipa alla guerra “da remoto”. È evidente che Russia e Usa sono in uno stato di guerra. Ma quali sono i percorsi operativi per giungere a un confronto nucleare tra i due Paesi? Essenzialmente due. Il primo consiste nella incauta entrata dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica, che indurrebbe la Nato all’applicazione dell’articolo 5 per fronteggiare la Russia; il confronto globale con utilizzo di armi “convenzionali” tra Nato e Russia non avrebbe storia: la Nato è superiore e la Russia non avrebbe altra scelta che il ricorso all’arma nucleare per riequilibrare la situazione; se la Nato poi reagisce con pari nucleare, il genere umano scompare. La recente riunione della Nato a Vilnius ha negato, per ora, l’entrata dell’Ucraina nella Nato; ma non passa giorno che il presidente ucraino Zelensky rinnovi questo appello che segnerebbe il tragico sviluppo della vicenda. Il secondo percorso per giungere allo scontro nucleare è legato alla parola “Vittoria” che molti leader occidentali evocano come unica soluzione. Ma esaminiamo cosa significhi “vittoria” per l’uno o l’altro dei contendenti in combattimento su suolo ucraino. La vittoria russa segnerebbe la divisione dell’Ucraina in due parti; la prima soggetta ai russi a Sud; la seconda soggetta all’Europa a Nord. Ciò costituirebbe un grave danno alla integrità territoriale ucraina che diverrebbe terra di ulteriore competizione armata entro la Regione: ma non si avrebbe nessun innesco di confronto nucleare tra superpotenze. Non è vero che l’Ucraina scomparirebbe e, molto probabilmente, la porzione residua a Nord diverrebbe parte della Nato e, soprattutto, dell’Europa, che sarebbe chiamata a sostenerla finanziariamente per (almeno) i prossimi 20 anni. Il secondo caso, la vittoria ucraina sulla Russia, sotto la declamatoria di salvaguardia della democrazia e della libertà, avvierebbe una deflagrazione strutturale della nazione russa, con sviluppi gravi in tutto il mondo. Nella Russia, così è stato storicamente nei casi gravi di sconfitte militari, oppure rovesci in politica estera: nel 1905, dopo la débâcle subita dalla flotta giapponese; così avvenne nel 1917, a seguito delle sconfitte russe sul fronte occidentale durante la Prima guerra mondiale che segnò la fine dello Zar; infine, dopo il fatidico 1989, in cui l’Unione Sovietica si suicidò e divenne facile preda dell’espansionismo americano. Una sconfitta in Ucraina indurrebbe la Cina ad avere facile gioco nell’acquisire la Siberia e il potere assoluto in Asia; i Baltici e la Polonia interverrebbero sulle spoglie russe per regolare una volta per tutte i conti storici con la Russia; il sistema di governo di Mosca ne sarebbe distrutto. La guerra nucleare diverrebbe naturale, doverosa e improrogabile reazione del popolo russo nella sua interezza, qualunque fosse la dirigenza superstite. Le lancette del Doomsday Clock - “Orologio dell’Apocalisse” (1985) n.d.r. - sarebbero innescate e segnerebbero l’inizio del confronto nucleare e della scomparsa del genere umano. Come evitare tutto ciò? Con la sospensione della guerra e, soprattutto, senza che ci sia un vincitore! La parola “vittoria” dovrebbe scomparire definitivamente dal lessico internazionale: nessuno parli di vittoria e nessuno sia lo sconfitto. I confini tra Ucraina e Russia rimarranno forzatamente quelli segnati dal confronto militare sul terreno; l’Ucraina e la Russia ne uscirebbero ambedue penalizzate, ma senza innesco del confronto nucleare. D’altra parte è evidente che al momento, sul terreno, nessuno stia vincendo e si è in una fase di stallo, dove le battaglie si sostanziano con l’acquisizione o la perdita di un paesino di nessuna importanza. In questa situazione sono gli ucraini a sopportare le perdite maggiori, costretti a una sconsiderata “controffensiva”, in condizioni di inferiorità numerica, il che è un assurdo in termini militari. Sul campo di battaglia esistono regole che non possono essere sovvertite: chi attacca deve disporre di superiorità in uomini e mezzi di almeno 3 a 1; e una logistica di almeno 7 a 1; si tratta di regole fondamentali che solo in casi eccezionali, una delle quali è la supremazia assoluta dei cieli, il che non è il caso in Ucraina, possono subire variazioni. Queste regole militari fondamentali, normalmente adottate dalla Nato, non sono seguite dagli Ucraini; chi ha imposto ai generali ucraini di attaccare, a qualunque costo e con dispendio incredibile di vite umane? Qual è il tributo da pagare? E a chi? Per tre anni sono stato capoufficio delle Operazioni e Piani nel Comando di Reazione Rapida della Nato, che è l’unità operativa di eccellenza dell’Alleanza, e sono stato responsabile della pianificazione di azioni di guerra, alcune delle quali trovarono, purtroppo, effettiva attuazione in Jugoslavia. Le cose che affermo sono frutto della mia esperienza. Il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, evoca i successi da 100 metri al giorno quale risultato della controffensiva ucraina. Ma cosa significano 100 metri e quante vite umane al giorno costano quei pochi metri? Nessun comandante Nato farebbe una cosa simile, senza essere cacciato per palese incapacità militare.

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