"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 22 ottobre 2023

Memoriae. 85 Giovanni Valentini: «All'origine di tutte le guerre, grandi o piccole che siano, alligna la malapianta delle disuguaglianze: economiche, sociali e religiose».

''... Che sto’ covo d'assassini/che ci insanguina la terra/lo sa bene che la guerra/è un gran giro de quatrini/che prepara le risorse/per i ladri delle borse". (Trilussa, 1914. Prima Guerra mondiale)

Ha scritto Giovanni Valentini in «La guerra e la doppia verità: a volte è solo “un giro de quatrini”», pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, sabato 21 di ottobre 2023: Nell'amara e toccante poesia in romanesco da cui sono tratti i versi iniziali, recitata con trasporto da Gigi Proietti in un video diffuso nei giorni scorsi sui social, c'è quel senso di tristezza e disperazione che contagia tutti noi di fronte alle guerre – in Ucraina, in Medio Oriente o altrove – a cui purtroppo stiamo assistendo con crescente stupore e sgomento. Un senso d'impotenza e di rabbia, dal fondo del quale affiora - come un incubo notturno - il dubbio esistenziale che la pace non sia altro che una parentesi fra una guerra e l'altra. E che questa, la guerra, sia un vizio del genere umano; un cupio dissolvi; o addirittura un bisogno dell'umanità, per nutrire la consapevolezza della propria esistenza o salvaguardare l'aspettativa della propria sopravvivenza. Mentre l'appello al disarmo mondiale appare sempre più una pia illusione e l'aspirazione alla convivenza pacifica si rivela una chimera o un'utopia. Non l'aveva già detto il generale prussiano von Clausewitz che “la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi"? E che cos'è il calcio se non la simulazione bellica di uno scontro fra due piccoli eserciti in campo, con le opposte fazioni sugli spalti a tifare per l'uno o per l'altro? O, più ingenerale, gli sport individuali o di squadra delle Olimpiadi, inaugurate nell'antica Grecia proprio per sospendere e interrompere le guerre in corso? E che altro sono i conflitti generazionali, le feroci competizioni sul lavoro o magari le liti condominiali? Sì, è vero che i torti - al pari delle ragioni - non stanno mai da una parte sola. E che per distinguere gli uni dalle altre bisogna risalire alle scaturigini delle guerre. Ma in tutte le guerre c'è (quasi) sempre una "doppia verità", come per il tragico e controverso bombardamento missilistico sull'ospedale di Gaza, perché è più naturale per ciascuna delle due parti in causa rivendicare le proprie ragioni che ammettere i propri torti. Ovvero, contestare i torti altrui e disconoscerne le ragioni. Alla fine, non sempre vince chi ha ragione, chi se lo merita di più o, nella metafora sportiva, chi gioca meglio. Vince, come spesso accade in tribunale, chi riesce a dimostrare di avere ragione anche quando in realtà ha torto. Non è sempre la verità che trionfa, ma piuttosto la verità apparente, come la "temperatura percepita" delle previsioni meteorologiche. E chi perde e soccombe nella guerra dell'informazione, si rifugia nel vittimismo, si autoconvince di avere ragione e non riesce più ad ammettere neppure con sé stesso di avere torto. La "doppia verità" è a ben vedere l'esito di un conflitto mediatico che prescinde dall'accertamento delle effettive responsabilità. Solo la Storia, quella con la S maiuscola, può ristabilire a distanza di tempo la vera verità. Ma anche in quel caso scatta come un riflesso condizionato la reazione istintiva del revisionismo o del negazionismo, un atteggiamento mentale che è capace di negare e rimuovere anche l'evidenza. L'unica verità incontestabile è che all'origine di tutte le guerre, grandi o piccole che siano, alligna la malapianta delle disuguaglianze: economiche, sociali e religiose. E sono tutte queste insieme ad alimentare tensioni, rivalità e odio, come nell'inferno della Striscia di Gaza, nelle banlieu parigine o nelle periferie degradate e degradanti delle nostre città. Sono le disuguaglianze la miccia che innesca le rivolte e i conflitti. E se non si possono azzerare, come vagheggiano i populisti e i massimalisti, allora i Paesi cosiddetti civili devono fare in modo almeno di ridurle il più possibile.

“Il corteo di pacifinti aiuta la guerra”, testo del Generale Fabio Mini pubblicato sulla stessa edizione de’ “il Fatto Quotidiano”: (…). In questi ultimi vent’anni è prevalsa la regola “prima spariamo e poi ragioniamo”, a modo nostro, ovviamente. È stato un periodo in cui gli stessi movimenti pacifisti si sono adeguati a questo criterio e salvo qualche minimo sforzo nessuno è riuscito a farsi ascoltare dai grandi decisori e nemmeno dai piccoli ras. La guerra in Ucraina non ha fatto eccezione e quella riaperta tra Israeliani e Palestinesi conferma sia l’incapacità dei sostenitori del dialogo e della pace di farsi ascoltare sia la debolezza della loro stessa fede: i carri armati in agguato e le artiglierie rimbombanti sono manovrati anche da coloro che fino al giorno prima si dichiaravano amanti della pace. La loro, ovviamente. E fatalmente ma non inconsapevolmente, la guerra si alimenta di queste debolezze, trova nuovi pretesti, giustificazioni e legittimazioni. In questi giorni non deve impressionare il numero enorme di iniziative, sottoscrizioni, petizioni, appelli, manifesti, dimostrazioni di piazza organizzati dai movimenti, dai singoli cittadini e da varie emittenti e testate. Non deve sorprendere che essi abbiano altrettanto varie idee sulla pace: da quella idealistica, a quella pragmatica e a quella “eterna” riservata a un paio di milioni di palestinesi e un altro milione di ucraini e russi del Donbass, oggi, esattamente come lo fu per milioni di iracheni, curdi e siriani, ieri e milioni di ebrei l’altro ieri. Fatta eccezione per l’unica voce istituzionale che invoca veramente la Pace, quella del Papa, e di qualche nobile e convinta iniziativa promossa e sostenuta da intellettuali e cittadini ragionevoli, (…), il resto si basa su rituali politicizzati in cui gli officianti si parlano addosso, vantandosi di essere gli unici a volere la pace, di essere i più pacifisti dei pacifisti, caricandosi di saccenza e di retorica, sparando sugli altri, riesumando slogan della cui ragione si è perduta la memoria. Tutto ciò è sconfortante e perfino controproducente: il numero delle iniziative è inversamente proporzionale alla loro efficacia e alla loro credibilità. La retorica contro la guerra ha sempre un sottofondo d’interesse personale o di gruppuscolo esattamente come quella bellica ha i suoi gruppetti riuniti nei saloni del potere. La pace diventa l’alibi per promuovere idee e ideologie ormai defunte e la stessa non-violenza si fa violenta: ogni proposta che la invoca è un ultimatum, una sfida, una lotta, una rivolta, un incitamento allo scontro. E la Guerra che dovrebbe essere evitata si rafforza. Non mancano le persone che vogliono sinceramente la pace, in Italia sono la grande maggioranza, manca la maturità di chi pretende di guidarle. In questo panorama di raffazzonata desolazione i movimenti che nel mondo hanno lentamente virato dalla faziosità e dalla frattura orientandosi ad unire le intelligenze e le anime della pace invece di dividerle si contano sulle dita di una mano. Nel suo piccolo l’Italia offre in questi giorni un esempio di maturazione con il percorso di un movimento controverso e divisivo già nel nome: “Il Fronte del Dissenso”. Partito da posizioni di contrasto nei confronti di quasi tutto ciò che l’establishment socio-politico nazionale ha imposto negli ultimi decenni, nell’intento di allargare il “consenso al dissenso” ha accolto le posizioni più stravaganti. Posizioni rispettabili perché individuali ma non sempre condivisibili proprio per lo stesso motivo. Oggi, con la terza o quarta guerra mondiale alle porte e i suoi focolai più evidenti in Ucraina e Israele, il movimento ha avviato un progetto pragmatico e ambizioso: unire in una rete globale gli sforzi per evitare il disastro che potrebbe anche essere l’ultimo. In senso assoluto. Così accade che decine di organizzazioni, movimenti e partiti politici provenienti da tutto il mondo, siano state invitate a Roma il 27 e 28 ottobre (Hotel Universo) per interrogarsi “con autentica fermezza e lucidità, dove davvero si stia dirigendo l’umanità e quanto pericoloso sia il bivio davanti al quale ci troviamo”. L’appuntamento ha preso la forma di una Conferenza Internazionale di Pace alla quale parteciperanno delegazioni provenienti da tutto il mondo, dalla Germania alla Russia, dalla Grecia all’Ucraina, dall’Afghanistan agli Usa, dall’India alla Corea del Sud, dalla Cina alla Palestina, dal Venezuela all’Australia. Di particolare interesse è la qualità della partecipazione. Accanto agli intellettuali per cultura e onestà e ai militanti appassionati ci saranno esponenti di movimenti e partiti politici che nel mondo interpretano le posizioni estreme del dissenso e che le loro autorità nazionali definiscono ribelli o antagonisti, se non sovversivi, per le idee e le opinioni che esprimono. Queste persone invise o perseguitate potranno parlarsi e scambiare le proprie esperienze. Il rischio che l’evento favorisca l’agglomerazione della parte più discutibile del dissenso è reale ma dagli effetti limitati: per definizione il dissenso non unisce ma divide e comunque finora ha perfino diviso gli stessi dissenzienti. Più realistico è il rischio che venga infiltrato e screditato da fanatici e violenti di mestiere. Tuttavia è altrettanto realistica, e auspicabile, la prospettiva che proprio dagli estremi si riconosca l’inutilità e la vanità dello scontro fine a se stesso e si costruisca un consenso unanime sulla necessità di usare gli strumenti della democrazia per indurre i governanti del mondo a rispettare le Costituzioni, le leggi e i trattati che essi stessi hanno sottoscritto; di rinunciare non solo alla guerra in senso astratto e retorico, ma prima di tutto alle pratiche criminali della guerra, alle sue mistificazioni, alle provocazioni, alle indegnità e alle ingiustizie. Auguri quindi alla Conferenza.

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