«(…). Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze. Di certezze – rivestite della fastosità del mito o edificate con la pietra dura del dogma – sono piene, rigurgitanti, le cronache della pseudocultura, degli improvvisatori, dei dilettanti, dei protagonisti interessati. Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva. (…)». (Dal saggio di Norberto Bobbio “Invito al colloquio” 1951).
È per questo che lei invita a una disciplina della libertà? «Sartre ha scritto che mai la Francia era stata così libera come sotto l'occupazione nazista. Avevano perso ogni diritto, anche quello di parlare. Eppure, la necessità di resistere, tra paura e angoscia, era per Sartre il culmine della libertà».
Significa che in una situazione normale è impossibile essere liberi? «Significa che la libertà è inscritta sempre dentro un ordine sociale, in una serie di necessità. Io e lei ora parliamo liberamente perché rispettiamo delle regole. Ma se mancano le condizioni per esercitarla, la libertà è nulla. Potrai pure essere formalmente libero di professare le tue idee, ma quando ti ammali e non hai un sistema sanitario che ti cura, avrai di sicuro altro per la testa».
Il disordine, invece, soffoca la libertà? «Quando infrangi l'ordine, inizi un gioco molto pericoloso. Prenda rivolte le francesi di quest'estate. Giovani immigrati musulmani che si sollevano violentemente. La maggior parte degli intellettuali di sinistra le ha considerate un momento di radicale libertà. Io, invece, no».
Perché? «Perché la violenza cieca che gli insorti hanno usato, distruggendo tutto quello che trovavano sulla propria strada, ha ottenuto un risultato inverso alla libertà: ha sconvolto l'esistenza delle persone normali, che hanno visto sgretolate le condizioni minime per una vita pacifica, e ha suscitato una forte reazione contraria, che alla fine ha avuto la meglio».
Capisce più la reazione che la rivolta? «Penso che la sinistra dovrebbe rispettare di più i sentimenti delle persone normali. La Francia non è sola. L’ordine sociale dei Paesi sviluppati si sta disfacendo, e questo crea una serie di cortocircuiti».
Per esempio, quali? «A Seattle, i liberal hanno fatto una battaglia per togliere soldi alla polizia, considerandola uno strumento dell'oppressione dei neri. Ma se in metropolitana gli rubano il portafogli, oppure qualcuno entra in casa loro per rapinarli, chi chiameranno? Non potranno certo telefonare al commissariato. Con i pochi soldi a disposizione, i poliziotti si occuperanno solo di reati gravi. Possibile non si rendano conto? La condizione preliminare per essere veramente liberi è poter camminare per strada, andare a fare la spesa al supermercato, sentendosi al sicuro».
Meno rivolte, più polizia? «Per quanto suoni strano, il mio è un appello alla legge e all'ordine. Ma "da sinistra"».
Da quando la legge e l'ordine sono di sinistra? «Lei crede sia di destra avere rispetto per i timori delle persone normali? Io penso il contrario. Come penso non sia da fascisti riconoscere la legittimità dei confini. I liberal, invece, sono scandalizzati dall'idea che in Polonia il governo abbia convocato un referendum sul sì o no all'immigrazione illegale. Ma perché le persone non dovrebbero essere libere di scegliere?».
Ma il punto non è essere liberi di scegliere, il punto è se si possa veramente scegliere con un sì o con un no su questo tema. In Italia, per esempio, Meloni ha vinto promettendo di fermare l'immigrazione, ma non ci riesce. «Io non sono per bloccare l'immigrazione. La mia tesi è che sia necessario regolarla. Chi entra deve farlo legalmente. Credo che se la discussione si concentrerà ancora a lungo sull'alternativa tra confini aperti e confini chiusi, si getteranno le basi per una grande ascesa della destra in Europa: dopo la Polonia e l'Italia, sarà il turno della Francia e poi ancora della Germania. E, a quel punto, cosa accadrà?».
Davvero, per fermare la destra, la sinistra deve assomigliarle? «Non è di destra andare alla radice del fenomeno migratorio. Cercare una soluzione sistemica. I liberal pensano che aprire le porte ai poveri immigrati sia un grande gesto umanitario. E che tutto si risolva con il buon cuore. Ma il problema è che chi parte dall'Africa non è povero. Non sempre, almeno. Chi parte, anche clandestinamente, è colui che può permettersi il costo del viaggio. E ciò significa che i più poveri non vengono qui, ma rimangono in Africa. Non è difficile prevedere che, nel lungo periodo, questa situazione non allevierà la pressione sull'Europa, ma la accentuerà».
Sa che c'è chi pensa che l'Europa sia già troppo chiusa? «Sarebbe ora di smetterla con l'auto umiliazione occidentale. Al confine con lo Yemen, l'Arabia Saudita spara sui migranti che vogliono entrare nel suo territorio; e tutti i Paesi arabi ricchi li respingono senza pietà. E l'Europa sarebbe la fortezza del mondo?».
Non vorrà imitare l'Arabia Saudita. «Non sto dicendo questo. Sto mostrando un paradosso. È come per il razzismo. La tratta degli schiavi è esistita per secoli, anche all'interno dei Paesi africani. E la vera, unica novità introdotta nella storia umana dalla civiltà occidentale - a partire dal XIX secolo - è il movimento per l'abolizione della schiavitù. Nonostante ciò, oggi l'Occidente è considerato la quintessenza della discriminazione razziale. È assurdo».
È diventato un cantore del modello occidentale? «No, anzi. Ho molte riserve. Ma di diverso genere. Per esempio: noi europei parliamo in continuazione di crisi, ma la verità è che viviamo in un relativo benessere. Abbiamo però di fronte delle catastrofi - il disastro ambientale, innanzitutto - di fronte alle quali il nostro sistema non può reggere. E il tardo-capitalismo non ha alcuna soluzione da offrire».
Ha usato l'espressione "tardo-capitalismo"? «Sì, esatto».
E crede davvero che il capitalismo sia prossimo al termine? «Già Marx parlava di fase finale del capitalismo, poi Lenin di ultimo stadio dell'imperialismo e Mao dell'ultra fase finale del modello americano. Capisco si possa essere sarcastici sull'espressione. Ma credo veramente che nel capitalismo stia succedendo qualcosa di sconvolgente che ne cambierà totalmente il volto».
In quale direzione? «La mia ipotesi è che il futuro assomigli al presente dell'India: un'economia di mercato sfrenata, una democrazia svuotata di qualsiasi elemento che non sia puramente formale e un feroce nazionalismo di Stato».
È uno scenario inevitabile? «Solo la sinistra potrebbe reinventare il meglio del sistema liberale, creando un modello che le consenta di prendere il potere senza distruggere l'economia, come le è successo molte volte in passato».
Ha in testa qualche figura? «Alvaro Garcia Linera. Quando era vicepresidente della Bolivia è riuscito a sfidare il grande capitale, far passare riforme sociali radicali, senza far fuggire gli investimenti».
È un modello generalizzabile? «Il mondo, checché ne dicano i bravi liberali, avrebbe bisogno di un comunismo di guerra: un sistema, cioè, che di fronte alle catastrofi che ci attendono crei un coordinamento internazionale, un po' come è successo con il Covid, dove solo la cooperazione globale si è dimostrata efficace a contrastare la minaccia pandemica».
È strano che lei sia così sprezzante con i liberali. «Perché?».
Perché anche uno dei suoi autori di riferimento, lo psicoanalista Lacan, era liberale. «Succede che un autore non sia personalmente all'altezza della propria teoria. Purtroppo a Lacan è accaduto con le sue posizioni politiche: non sono affatto al livello del suo pensiero. In questi casi, la mia regola è: segui le idee, non la persona».
Ma le idee non sono separate dalle persone. Per esempio, lei ha detto che la sinistra può reinventare il meglio del sistema liberale. «E lo ripeto».
Eppure dipinge i pensatori di sinistra quali stupidi ingenui. Come potrebbero riuscirci? «Non penso siano tutti stupidi. Penso però che la sinistra sia vittima di una tragedia culturale: il politicamente corretto. Ha abbandonato la vita delle persone normali per dedicarsi a insensate battaglie sul maschile o il femminile dei sostantivi, contro la discriminazione dei pronomi personali: tutte cose che interessano per lo più l'alta classe media».
L'inclusione, secondo lei, è un falso problema? «No. Penso tuttavia che gli apostoli dell'inclusione vivano un paradosso. Dicono di lottare per non escludere nessuno, ma si dedicano notte e giorno a cacciare le persone, a metterle fuorilegge. Fanno fuori uno perché ha pronunciato una parola sessista, poi un altro perché ha fatto un'allusione omofoba. Per questo la cancel culture io la chiamo cancer culture: è un cancro, il cancro della sinistra».
La destra non ha paradossi? «Ne ha uno enorme: è contro il relativismo post-moderno ma ha come eroe il campione della post-modernità, Donald Trump. Uno che si prende gioco di tutto, incluso se stesso, che minimizza la storia e ingigantisce le sue psicosi».
Di Giorgia Meloni che pensa? «Glielo dico in italiano: è una "furbetta". È abile a non spaventare l'Eu-ropa, ma porta comunque avanti la sua agenda. Ha successo perché risponde alle domande della gente normale, a cui la sinistra non parla più».
Sull'Ucraina la pensa come lei. «Non mi sorprende. Quella di Putin non è una guerra come le altre. È uno stupro. È la metafora che i nazionalisti russi usano per descrivere quello che stanno facendo: negare il diritto all' esistenza di una nazione che lotta per esistere, ed essere libera».
Non è curioso che gli ucraini desiderino così tanto quella che lei chiama una "malattia incurabile"? «Lo è».
E allora perché vuole che si ammalino anche loro? «Perché c'è un solo farmaco che cura la libertà umana: è fa tirannia; il totalitarismo. Ed è di gran lunga preferibile essere malati che schiavi».
Nessun commento:
Posta un commento