«Libano, la paura nei Kibbuz: “Hezbollah è peggio di Hamas”», corrispondenza a firma di Bastien Massa pubblicata su “Mediapart” e riportata su “il Fatto Quotidiano” sempre di ieri 23 di ottobre 2023: Ai piedi del monte Hermon, nella valle di Hula, il kibbutz Dan, circondato dalla vegetazione e attraversato da un ruscello, con i suoi campi di avocado e gli allevamenti di trote, è un piccolo giardino dell'Eden. La comunità conta circa 800 persone. "Abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno. La vita qui è tranquilla e piacevole", osserva Yoav Hermoni, guida turistica che vive a Dan da nove anni. Ma, con la guerra tra Israele e Hamas, la comunità del kibbutz, situato lungo il confine con il Libano, comincia a temere l'apertura di un secondo pericoloso fronte contro le milizie di Hezbollah. "Il confine libanese dista solo 2,5 km. In cima a quella collina, a ridosso del confine, c'è un villaggio libanese -, aggiunge Yoav, che ha scambiato i suoi abiti civili con l'uniforme verde oliva dei riservisti -. Certo che abbiamo paura. Hezbollah è un nemico ancora più forte di Hamas. Se scoppiasse la guerra qui, saremmo noi le prime vittime". Gli scontri a fuoco lungo il confine del Libano non cessano. Una base militare sul fianco del monte Hermon è stata colpita. Il 17 ottobre un missile anticarro ha distrutto una casa a Metula, il kibbutz più a nord. In risposta, gli F16 isreaeliani hanno bombardato le posizioni di Hezbollah nel sud. L'attacco aereo ha fatto diversi morti, tre civili israeliani e molti libanesi, tra cui un giornalista dell'agenzia Reuters. Malgrado gli apparenti tentativi per evitare l'allargamento del conflitto al territorio del Libano, gli abitanti del kibbutz temono l'escalation. "La linea rossa non è stata superata, non credo che vogliano la guerra. Ma l'apertura di un nuovo fronte di guerra dipende da quanto Israele si sente minacciata", osserva un abitante di Dan. Hezbollah ha già minacciato Israele di ritorsioni nel caso di un'offensiva militare via terra nella Striscia. Dopo l'attacco ai kibbutz nel sud, le autorità israeliane hanno rapidamente istituito una zona cuscinetto militare al confine con il Libano e hanno evacuato 28 località. A Dan restano solo 120 degli 800 abitanti. "Ci vogliono meno di dieci secondi perché i missili Hezbollah raggiungano il villaggio. Non abbiamo nemmeno il tempo di correre nei rifugi. C'è un proverbio che dice che un missile esplode a Dan prima che la radio abbia il tempo di lanciare l'allarme", osserva con ironia Hila, una studentessa di 26 anni che ha scelto di lasciare il kibbutz. Nelle strade deserte ormai ci sono più soldati che residenti. La comunità di Dan, in genere aperta al mondo esterno, si è barricata. Una dozzina di volontari fa la guardia davanti ad un'imponente barriera: "Ci alterniamo giorno e notte per proteggere il kibbutz - spiega Hilik, un pensionato di 74 anni, che porta a tracolla un fucile d'assalto -. Sono circa le 17, È l'ora in cui bisogna essere più vigili. Quando il sole tramonta dietro la montagna, a ovest, i nostri soldati vengono accecati dalla luce guardando verso il Libano. E il momento che Hezbollah ha scelto per attaccare". Malgrado i rischi, alcuni rifiutano di lasciare il kibbutz. "Non abbandonerò la mia casa. Ora che l'esercito ha rinforzato la frontiera, non ci sono più rischi di incursioni, perché tutti sono in allerta. Se scoppierà una guerra con Hezbollah, i miliziani lanceranno missili su Tel Aviv e nel centro del Paese. Di sicuro non qui", dice Ori Itai, un impiegato informatico di 52 anni. I diversi villaggi che sorgono lungo il confine settentrionale di Israele sono profondamente segnati dalla storia del Paese e dai suoi numerosi conflitti. Il trauma è particolarmente vivo a Dan, che si trova al crocevia tra il confine libanese e la frontiera con la Siria che esisteva prima del 1967. "Durante la guerra dei Sei Giorni, le autorità dissero che era il posto più sicuro del mondo. Un ministro affermò persino che vi avrebbe potuto lasciare la sua famiglia Quando i carri armati siriani attaccarono, qui non c'era neanche un soldato e ci siamo dovuti difendere da soli', ricorda Yuval. Oggi quei carri armati siriani sono dei monumenti nelle strade del kibbutz. I più giovani ricordano soprattutto la seconda guerra del Libano, nel 2006, e i ripetuti bombardamenti delle milizie sciite. "Non è la prima volta che siamo sotto il fuoco di Hezbollah, ma forse questa è la peggiore', ha detto un residente di un kibbutz vicino. Hezbollah ha un vero e proprio esercito che conta centomila combattenti e possiede un arsenale di missili a lungo e medio raggio. Più a sud, sulle rive del lago Tiberiade, sette famiglie hanno trovato rifugio nella comunità dell'ex kibbutz di HaOn. "Siamo partiti non appena abbiamo saputo cosa era successo nel sud. Siamo abituati ai missili, ma quando abbiamo visto che degli uomini armati erano entrati nei kibbutz, abbiamo avuto paura che la stessa cosa potesse succedere anche al nord – confida Noa, la moglie di Yoav Hermoni-. Nella fretta abbiamo preso con noi solo pochi vestiti, quanto bastava per due o tre giorni". Qui nessuno sa quando potrà tornare a casa "Cerchiamo di creare un'atmosfera rassicurante per i bambini, di dimenticare un po' la guerra, di parlarne il meno possibile. Non c'è televisione e non guardiamo le notizie': spiega Maya, raggiunta dal marito. Ma per questi bambini, che sono cresciuti sotto la minaccia continua delle bombe, la guerra fa parte della vita di tutti i giorni. "Dato che siamo al confine, impariamo fin dalla scuola elementare come reagire agli attacchi. Impariamo a raggiungere i rifugi e a proteggerci dalle bombe”, spiega Irden, 16 anni. "Era un giorno di festa, ma siamo stati svegliati dal rumore dei missili e siamo dovuti correre a ripararci nei bunker': racconta Roni, di appena 10 anni. "Siamo molto uniti, anche tra abitanti di kibbutz di regioni diverse. Ho amici nei kibbutz di Beeri e Kfar Aza, dove sono avvenuti i massacri di Hamas. Solo questa settimana sono già stata a sei funerali”, osserva Ariel, col volto tirato per la stanchezza In queste comunità basate sui principi del vivere insieme e fortemente ancorate a sinistra, i massacri perpetrati nel sud rappresentano un trauma profondo. A Nahal Oz, dove un quarto degli abitanti è stato assassinato dai soldati di Hamas, lo stesso giorno si sarebbero dovuti far volare degli aquiloni per manifestare il sostegno alla pace. Tra le vittime e gli ostaggi catturati da Hamas, molti sono attivisti di sinistra che lottano contro l'occupazione israeliana. "Ovviamente quello che è successo rischia di modificare il nostro modo di vivere e il nostro rapporto con i palestinesi. Sicuramente ci sarà meno apertura e crescerà la sfiducia - continua Ori Itai -. Faccio parte io stessa del 5% dei residenti del kibbutz che hanno votato per la destra alle ultime elezioni”.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 24 ottobre 2023
Memoriae. 86 Donald Rumsfeld, Segretario della Difesa americana (2002): «“Sono interessato perché ci sono cose conosciute note. Poi ci sono cose sconosciute che non conosciamo e poi cose sconosciute che non sappiamo neppure di non sapere”».
Ha scritto ieri, 23 di ottobre 2023, Massimo
Ammaniti in “Se si spegne la ragione”
pubblicato sul quotidiano la Repubblica”: (…). Quello che è successo a Gaza con la
distruzione dell’Ospedale e la morte di centinaia di persone, fra cui molti
bambini, ha provocato uno scontro mediatico fra Israele e Hamas, ognuno per
accusare l’altro per la responsabilità dell’eccidio, (…). Quello che è mancato
in entrambi i popoli è il dolore e la disperazione per la drammatica morte di
tante persone, sia che si trattasse dei malati ricoverati in ospedale sia delle
famiglie che si erano rifugiate lì, nella speranza di potersi salvare dai
bombardamenti. L’odio ha accecato gli occhi di tutti, purtroppo sono morti
uomini, donne e bambini che fuggivano terrorizzati, la cui vita è stata
cancellata con le loro storie personali fatte di rapporti, di affetti, di
desideri e di paure. La stessa cosa è avvenuta nel rave in Israele, dove sono
stati massacrati ragazzi e ragazze giovanissimi che si aprivano alla vita e che
non avranno la possibilità di viverla. Sono stati anche loro vittime dell’odio
e della vendetta implacabile dei militanti di Hamas, che hanno volutamente
estirpato i loro sentimenti per divenire giustizieri violenti, che non hanno
mai appreso il linguaggio dei sentimenti umani. Si può cercare di risalire alle
cause di tutto questo, la nascita dello Stato di Israele non voluto dai paesi
arabi, guerre di aggressioni concluse con sconfitte amare, insediamenti dei
coloni israeliani che hanno eroso i territori palestinesi, le convinzioni
deliranti di cancellare lo Stato di Israele, una spirale distruttiva che ha
intrecciato i destini di due popoli e che rischia di perpetuarsi nel futuro
condannandoli come Sisifo a reiterare i propri comportamenti inconcludenti. Tutto
questo è senz’altro vero, ma forse c’è qualcosa nella mente collettiva dei due
popoli che li spinge a ripetere gli stessi comportamenti ormai da molti
decenni, senza interrogarsi sul senso di quello che stanno facendo. La paura,
l’insicurezza, il terrore, il risentimento e l’odio silenziano le capacità di
guardare sé stessi, di comprendere quello che si pensa, i propri sentimenti, le
proprie direzioni personali e le proprie motivazioni. Non riguarda solo una
capacità individuale, si riferisce anche ai gruppi e addirittura ai popoli che
perdono il terzo occhio, quello rivolto a sé stessi e che aiuta a comprendere
anche gli errori effettuati e a correggere le traiettorie personali, non solo quotidiane
anche quelle di più lunga durata. Come scrive Stephen Fleming, Direttore del
Laboratorio di Neuroscienze dell’University College di Londra, la
metacognizione, ossia la consapevolezza di sé è fondamentale per vivere ed
orientarsi nel mondo attuale. Questa autoconsapevolezza non solo si focalizza
su sé stessi, aiuta a capire che anche gli altri hanno una mente come la
propria, per cui ci si può interrogare “io vedo quello che succede nel mondo a
modo mio, ma come lo vedrà un’altra persona differente da me?”. Un esempio più
che convincente raccontato da Stephen Fleming nel suo libro “Conoscere se
stessi” riguarda quello che successe in Iraq nel 2002 con l’invasione
americana, che veniva giustificata dai Comandi militari e dagli stessi
Governanti convinti che Saddam Hussein e gli iracheni possedessero le armi di
distruzione di massa. In una intervista alla Cnn fu chiesto a Donald Rumsfeld, Segretario della Difesa americana quali
fossero le prove che il governo iracheno possedesse queste armi a cui rispose: “Sono
interessato perché ci sono cose conosciute note. Poi ci sono cose sconosciute
che non conosciamo e poi cose sconosciute che non sappiamo neppure di non
sapere”. Con questa argomentazione capziosa si decise di entrare in guerra
perché questa incognita sconosciuta sarebbe stata troppo pericolosa, anche se
in seguito si è scoperta la sua falsità. Evidentemente Rumsfeld nonostante
ignorasse l’esistenza di questo pericolo non ebbe incertezze, che invece lo
avrebbero aiutato a dubitare dell’utilità dell’intervento. E se poi nonostante
tutto si fosse intrapresa la guerra sarebbe stato possibile riconoscere gli
errori e rimediare evitando di andare avanti a testa bassa compromettendo la
propria posizione politica e il futuro dell’Iraq. Purtroppo nella guerra fra
israeliani e palestinesi ognuno vuol far valere le proprie ragioni che non
vengono valutate in modo critico; diventano convinzioni granitiche, supportate
anche da credenze religiose che provocano un’intolleranza dogmatica verso il
nemico. L’altra faccia è l’autoritarismo con cui si impone la propria visione
intransigente e la propria volontà nei rapporti cogli altri. Questo viene
puntualmente confermato dai dirigenti di Hamas che si sono impossessati del
potere abolendo le elezioni, mentre in Israele nonostante certe forme
autoritarie del Governo attuale vi è un assetto democratico nel paese,
testimoniato dalle manifestazioni oceaniche contro i provvedimenti governativi
proposti per ingabbiare la giustizia. (…).
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