"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 30 ottobre 2023

Memoriae. 89 Amihai Ayalon, contrammiraglio israeliano: «Ancora oggi Israele rifiuta di ammettere che i palestinesi siano un popolo».


(…). Il problema è che non riusciamo a tenere lo sguardo fermo sul male. Anche la morale, troppo indaffarata e sollecitata da un mondo fuori controllo, procede per stereotipi assegnando una specifica categoria ad ogni vicenda, e finisce per giudicare la categoria, non l’avvenimento. È un giudizio disincarnato, prevedibile ma meccanico, quasi automatico dunque non riflessivo, che ci consente di rimanere al riparo delle nostre convinzioni e dei nostri pregiudizi senza lasciarci investire e deviare dalla furia degli eventi incalzati dalla continua metamorfosi del male: che mentre si riproduce cambia ogni volta la sua configurazione per sorprenderci, tentarci, sedurci fino a catturarci. Tutto conferma l’indebolimento della nostra capacità di conoscere e capire, fondamento indispensabile di qualsiasi scelta consapevole nel prendere posizione. Il risultato è che il giudizio del cittadino rischia di impigliarsi nei luoghi comuni gregari del pensiero egemone o nella semplificazione del controcanto populista, ottundendosi, oppure di smarrirsi soverchiato dalla portata universale dei fenomeni che deve valutare, arrendendosi. Semplicemente, non reggiamo il peso del reale. Senza più sovrastrutture ideologiche e culturali capaci di ingannare e consolare ma anche di decifrare e tradurre, incasellando, non sappiamo maneggiare l’evidenza rovente di ciò che accade fuori dagli schemi costruiti per semplificarci la visione del mondo, con l’obiettivo di decantare le vicende che ci sconcertano, decontaminandole fino a banalizzarle. Rifuggiamo dalla potenza della realtà, oppure la consumiamo da semplici spettatori, proiettandola all’esterno della nostra testimonianza di vita, illudendoci di essere al riparo protetti dallo schermo artificiale che trasforma l’esperienza in rappresentazione, dunque intangibili. In realtà quel che cerchiamo di evitare non è tanto la vulnerabilità, ma la responsabilità, cioè la coscienza di essere anche noi, dovunque siamo, parti in causa del nuovo disordine mondiale che ci minaccia. (…). (Tratto da “Lo sguardo sul Male” di Ezio Mauro pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, 30 di ottobre 2023).

“Netanyahu è colpevole: Hamas armata da Tel Aviv”, intervista di Patrick Saint-Paul al contrammiraglio israeliano Amihai Ayalon – già a capo dei servizi segreti interni di Israele, eletto alla Knesset per il Partito laburista - pubblicata su “LeFigaro.fr” del 9 di ottobre 2023 e riportata su “il Fatto Quotidiano” dell’11 di ottobre ultimo:(…).  Il 7 ottobre 2023 verrà ricordato come 1'11 settembre Israeliano? “Per molte persone, in Israele, gli eventi drammatici di questi giorni sono come una seconda guerra del Kippur. Avevamo appena commemorato l'attentato del 1973, e quello che è successo il 7 ottobre non è molto diverso. L'attacco è arrivato a sorpresa, probabilmente per le stesse ragioni. Penso però che, a lungo termine, quando cercheremo di comprendere la nostra storia, la pagina del 2023 ci apparirà ancora più cupa. Questo attacco è destinato a cambiare il volto di Israele. È la prima volta dalla creazione dello Stato ebraico che centinaia di civili vengono massacrati, assassinati nelle loro case, sul nostro territorio. Ci vorranno degli anni per comprendere l'impatto a lungo termine causato dall'orrore e dalla paura generati da questi eventi. Anche se riprendiamo la terminologia dello Yom Kippur, il contesto oggi "è molto diverso. Abbiamo creato uno Stato per difenderci. Abbiamo investito un'enorme quantità di denaro per assicurarci che il nostro esercito fosse il più forte ed efficace. Questa sicurezza è crollata il 7 ottobre 2023. La maggior parte delle persone non si aspetta più nulla dai nostri leader politici. Ci aspettavamo invece ancora qualcosa dai nostri comandanti dell'esercito. Ma hanno fallito”.

Il governo israeliano ha ignorato gli avvertimenti dell'esercito? “Innanzitutto c'è stato un enorme fallimento delle nostre agenzie di intelligence. A Gaza, tutta l'intelligence era basata sulla sorveglianza elettronica. Ma i leader dell'ala militare di Hamas, come il loro capo, Mohammed Deif sono sopravvissuti alla prima e alla seconda Intifada e a numerose operazioni militari israeliane. Sanno come comunicare senza telefono e Internet. Probabilmente un numero molto ristretto di responsabili era a conoscenza dell'operazione. I nostri servizi sono stati ciechi. Ma gran parte della responsabilità ricade ovviamente sul governo. I comandanti di tutte le agenzie di sicurezza avevano avvisato il governo che la politica che stava portando avanti era sbagliata e che sarebbe stata usata dai nostri nemici contro di noi. I nostri nemici vedono che siamo più deboli. Vedono che la nostra resilienza e unità si stanno indebolendo. Hanno percepito la profonda divisione che si è creata intorno alla crisi provocata nel Paese dalla riforma della Giustizia. Naturalmente i politici non hanno ascoltato questi avvertimenti. E soprattutto non hanno ascoltato quelli che riguardavano la Cisgiordania. Il governo israeliano ha fatto di tutto perché Fatah e l'Autorità palestinese non fossero più dei partner, ha dato il potere ad Hamas. Oggi a Gaza c'è Hamas, ma non è rimasto più nessuno in Cisgiordania. La maggior parte dei palestinesi, anche in Cisgiordania, considera l'Anp, e in particolare il suo leader Abu Mazen, come un collaboratore di Israele. Abbiamo tollerato l'intollerabile lasciando che Hamas si armasse alle nostre porte dal 2006. Abbiamo lasciato che il Qatar gli trasferisse dei fondi, permettendogli di armarsi. Abbiamo gestito il problema di Hamas alternando periodi di offensive militari e tregue. Ogni volta Hamas era un po' più forte. Il nostro governo ha pensato che il problema principale a Gaza fosse economico e ha dato ossigeno rilasciando permessi di lavoro a migliaia di palestinesi, che sono entrati nel nostro territorio due settimane prima dell'attacco del 7 ottobre. Hamas è un'organizzazione molto strutturata. Hamas è un'ideologia. Hamas è un movimento sociale. Dobbiamo combattere l'ala militare del movimento, le Brigate Ezzeddine al-Qassam. Dobbiamo assicurarci di eliminare questa immensa capacità militare alle nostre porte. Un'enorme operazione militare è necessaria”.

Un'operazione via terra è inevitabile a Gaza? “Sì, non abbiamo altra scelta, è l'unico modo per distruggere le brigate Ezzeddine al-Qassam. Ma dovremmo cambiare completamente la nostra politica se vogliamo avere un partner palestinese. Dobbiamo dire fin dall'inizio che la nostra guerra non è contro il popolo palestinese. Che è una guerra contro l'ala militare di Hamas. Prima di attaccare, dovremmo dire che vogliamo costituire una realtà in dialogo con i palestinesi, che accettino le iniziative di pace e che vogliano discutere con noi dei due Stati. Penso, però, che nessun governo israeliano accetterà mai di farlo in questo momento. Eppure, se non lo facciamo, assisteremo a un incremento della violenza. Ancora oggi Israele rifiuta di ammettere che i palestinesi siano un popolo. Lo sviluppo economico non basterà. I palestinesi vogliono la libertà, vogliono la fine dell'occupazione”.

Crede che gli eventi del fine settimana sarebbero stati evitati se la questione palestinese fosse stata risolta con la creazione di uno Stato palestinese? “Certamente. Basta guardare come è cambiato il nostro concetto di sicurezza, a Israele. Fino alla guerra del Kippur, cinquanta anni fa, preferivamo la terra alla pace perché per noi la pace non era importante. Il nostro obiettivo era la sicurezza. Abbiamo dovuto aspettare lo choc della Guerra del Kippur per giungere alla conclusione che per avere sicurezza deve esserci pace. La pace con l'Egitto è stata possibile soltanto dopo il trauma del Kippur. Abbiamo iniziato a negoziare con i palestinesi a Madrid, e poi a Oslo, solo dopo la prima Intifada. Abbiamo lasciato il Libano solo a causa del terrorismo sciita e degli attentati suicidi. Ci siamo ritirati da Gaza solo a causa della seconda Intifada. La comunità internazionale ha svolto un ruolo maggiore in quei casi. Oggi viviamo una tragedia e nessuno se ne preoccupa. Non possiamo dare la colpa a nessuno. Nessuno ci può salvare”.

E gli arabi? È la fine degli accordi di Abramo? “Non è detto che sia la fine. E soprattutto, non sono finiti i nostri problemi. La firma degli accordi di Abraham è stata percepita in modo sorprendente-mente diverso da noi e dal mondo arabo. Loro hanno firmato il trattato per bloccare le annessioni immediate previste da Netanyahu. Era una condizione. Il nostro governo ha dato il suo consenso e poi ha spiegato all'opinione pubblica israeliana che non avevamo pagato alcun prezzo per la pace. Ha anche aggiunto che non avremmo proceduto immediatamente alle annessioni, ma che avremmo agito un poco alla volta. Che dunque non avremmo mantenuto la parola data”.

Ma l'offensiva via terra è una trappola per Israele? “Sarà molto difficile. Perché sia un successo dovremo uccidere migliaia di palestinesi. Non ho idea di quanti soldati e quanti civili israeliani moriranno. So anche che più palestinesi uccideremo a Gaza, maggiori saranno le probabilità di un intervento di Hezbollah nel nord del Paese. E che il livello di terrore in Cisgiordania crescerà. Cosa succederà nelle strade arabe in Giordania, in Egitto... Ci sono molte incognite. Ma le capacità militari di Hamas devono essere annientate, perché oggi ci troviamo in una situazione molto difficile, in cui l'effetto dissuasivo delle nostre forze è stato ampiamente discreditato. Negli ultimi giorni abbiamo visto cose che non avremmo mai potuto immaginare. È stato un massacro. Dei bambini e delle donne sono stati uccisi nelle loro case e non solo con l'uso di armi. Per distruggere l'ala militare di Hamas non ci sono alternative all'offensiva via terra. Non possiamo uccidere due milioni di persone sotto le bombe”.

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