Ha scritto Corrado Augias in “Il virus che cancella la storia”, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di oggi primo di novembre 2021: A Novara alcuni manifestanti
contrari alla Carta verde (Green Pass) hanno sfilato indossando le uniformi a
strisce dei prigionieri dei lager. Si fingevano legati tra di loro da una
grossa fune nodosa che richiamava il filo spinato. Vengono in mente due parole
per tentare di definirli: empi, oppure, in modo più rude, imbecilli. Empio è il
contrario di pio. Enea era Pio, era pio l'imperatore Antonino. Uomini
rispettosi dell'umanità prima ancora che dei principi religiosi propri e
altrui. Chi adotta un tale comportamento merita l'aggettivo Pius. L'empio è
invece chi non prova questi sentimenti e lo dimostra con un comportamento
opposto, empio è colui che calpesta i principi morali, profana valori,
sofferenze, vittime ritenute intoccabili sulla base di qualità umane
universalmente condivise. Quanto a imbecille, non è solo un insulto comunemente
usato, in psicologia ha un significato preciso così condensato nel Dizionario
Treccani: "Debole fisicamente o mentalmente. Chi, per difetto naturale o
per l'età o per malattia, è menomato nelle facoltà mentali e psichiche. Più
spesso, nel linguaggio familiare, titolo ingiurioso, rivolto a chi, nelle
parole e negli atti, si mostra poco assennato o si comporta scioccamente, senza
garbo, da ignorante". (…). Forse però ho esagerato cercando una
definizione filologica dell'oscena manifestazione di Novara. È possibile che la
spiegazione sia più semplice, derivi da semplice ignoranza del passato e di
quanto avvenne nell'orrore dei lager. (…).
…(que)gli sciagurati (…) forse non sanno bene quali spettri abbiano evocato
accomunando un provvedimento concepito per salvaguardare la salute di tutti,
con l'eliminazione, programmata a freddo, di milioni di uomini, donne, vecchi e
bambini. Due cose che si trovano agli estremi opposti delle attività umane.
Viviamo in un'epoca che il sociologo Giuseppe De Rita ha chiamato
"presentismo". Tale la velocità dei cambiamenti e delle novità nelle
quali l'intera popolazione del pianeta è coinvolta che il passato scivola via
inavvertito e del futuro poco ci si preoccupa, nonostante alcuni fenomeni
lascino presagire un cataclisma. Il vecchio precetto di saper cogliere
l'attimo, il Carpe diem con il quale il poeta latino Orazio invitava a godere
ogni giorno dei beni offerti dall'esistenza, pochi o molti che siano, viene
applicato in maniera stravolta. Carpe diem è piuttosto inteso come
un'esortazione ad annegare tutto nel presente ignorando il passato e senza
tenere in alcun conto il possibile futuro. Se questo fosse, se gli sciagurati
di Novara davvero fossero soltanto degli ignoranti, bisognerebbe ritirare sia
l'accusa di empietà sia quella di imbecillità (in senso clinico) per ripiegare
sulla desolata constatazione che l'inerzia di una pace durata - nei confini
europei - quasi ottant'anni, ha reso quei crimini senza precedenti, di cui
ancora sopravvivono testimoni diretti, indistinguibili dalle cento altre
sciagure che hanno colpito l'umanità nel corso della sua storia tormentata.
Tratto da “I finti sapienti che negano
il virus” del filosofo Maurizio Ferraris, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di ieri, domenica 31 di ottobre 2021: All’origine di ogni complottismo
c’è il più umano dei sentimenti: perché proprio a me? Il
complottista, però, è un collettivista, e traspone il proprio stato d’animo su
una scala cosmica, o almeno cosmopolitica, e nella peggiore delle ipotesi
nazionale, come quando si reputa «particolarmente interessante» l’azione del
virus nello spazio sociale francese, senza considerare che è interessante se e
solo se si è francesi. Il decorso del complottismo presenta una morfologia
simile alla favola, di cui è una variante: l’illusione universale, l’eroe che
squarcia il velo, i tentativi di soffocare la voce dell’eroe, qualche eventuale
aiutante magico, e dietro le quinte il male che non può non vincere, essendo il
principio e la fine di tutto (tale, infatti, il fatalismo soggiacente al
complottismo). Lo schema si adatta alle diverse contingenze, si nutre di
anticipazioni letterarie e si perfeziona nel corso del tempo, principalmente
attraverso l’accumulo di prove. (…). Ma, non dimentichiamolo, il complottismo,
soprattutto in questioni mediche, è il punto di approdo di un crescendo che
comporta varie tappe che vale la pena di ripercorrere. Di fronte al virus, la
filosofia non ci è di alcuna utilità, sostengono taluni; talaltri, però, non
sono dello stesso avviso. Filosofare può, per esempio, fornire solidi argomenti
per negare l’esistenza del virus. Solo un filosofo può chiedersi se l’albero
che ha di fronte a sé esista, e solo un filosofo può seriamente negare una
pandemia. Nelle cronache dell’epidemia si sono spesso alternati, nello stesso
soggetto politico, allarmismo e negazionismo. Ma per i filosofi (e tutti i
negatori si sentono tali) va altrimenti. Il pensatore si propone di pensare con
la propria testa e di non assumere come vera alcuna «verità ufficiale». La
prima posizione della Fenomenologia dello spirito è la certezza sensibile, come
posizione triviale, cui Hegel contrappone, filosoficamente, il dubbio metodico
ereditato da Cartesio. Poiché i moderni sono filosofi nati, il primo
atteggiamento nei confronti del virus consiste anzitutto nell’individuare la
complessità del fenomeno: «il germe è nulla, il terreno è tutto», dunque la
pandemia è un costrutto tanto complicato da cessare di costituire un fatto per
divenire una interpretazione e, da ultimo, un puro nulla. Ecco qualcosa di
assolutamente moderno: l’ontologia, quello che c’è, dipende dall’epistemologia,
quello che sappiamo, ergo il virus non esiste perché non è definito con
sufficiente chiarezza. Ma siamo davvero così moderni? Questo negazionismo
pastorizzato richiama gli argomenti del negazionismo barocco narrato da
Manzoni, che negli Sposi promessi era introdotto da un certo signor Lucio,
«professore d’ignoranza, e dilettante d’enciclopedia», lanciando l’assist alla
tirata di Don Ferrante: il virus non è né sostanza né accidente, dunque non
esiste. Nei Promessi sposi, cassato il vero ignorante, rimane il finto
sapiente, che, proprio come i suoi pronipoti postmoderni, sostiene che «la
scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare». Ovviamente facendo ricorso a
una scienza più vera e contrastante con quella ufficiale. Di qui l’esito
prevedibile e l’aggiunta mirabile di uno dei passi più alti della letteratura
italiana: «His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna
precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un
eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle». I rispecchiamenti tra antico
e moderno non finiscono qui. Nella modernità il virus, turista opportunista e
viaggiatore senza biglietto, impone la ricerca di modelli alternativi e per
l’intanto rovina viaggi, vacanze, turismo domestico o esotico, tutte cose che
non c’erano ai tempi di Don Ferrante. Tuttavia, sotto ogni cielo e in ogni tempo
il virus è prima di tutto (cioè prima che un rischio) un guastafeste. Nella
costante del guastafeste, cambiano le feste da guastare, per esempio il
miracolo economico di Trump (men-tre altri sostengono – e come dar loro torto?
– che il guastafeste è stato proprio lui con lo smantellamento dell’Obamacare),
e soprattutto le feste possono essere tanto metaforiche quanto letterali. Il
significato profondo di «dàgli all’untore» va inteso dunque come «dàgli al
guastafeste». Sotto questo profilo, il comportamento dei milanesi di Ferrer di
fronte alla peste non è diverso da quello dei nostri contemporanei. Il
lazzaretto o la quarantena sono temuti molto più che il morbo, e ce la si
prende con il tribunale della sanità come se il suo credere nell’esistenza del
morbo fosse il segno di una ostinazione folle, del desiderio di credere a tutti
i costi all’esistenza di un male che non esiste, e che viene tirato fuori con
un sovrappiù di crudeltà per tormentare un popolo già fiaccato dalla carestia
allo scopo di arricchire medici spregiudicati che speculano sulla paura della
gente. In Manzoni, il protofisico Ludovico Settala viene fischiato come un
menagramo che vuole a tutti i costi la peste per poter far lavorare la sua
squadra, ed è per questo che nel 1621 come nel 2021, per non es-sere
impopolari, altri medici minimizzano e negano, mentre l’arrivo del carnevale –
l’aperitivo e la discoteca dell’epoca – fa mordere il freno contro le
restrizioni. Non potendosi ancora lamentare l’illiberalismo dell’imposizione
delle mascherine, né escogitare metodi per non portarle e per sottrarsi al
lockdown, o notificare gli effetti collaterali come la maskne, ossia l’acne
prodotta dall’uso prolungato di mascherine, e neppure dichiararne l’utilità o
l’inutilità prove scientifiche alla mano, i milanesi di Manzoni fremono per il
divieto delle mascherate, e quelli che fra loro si trovano nel lazzaretto
festeggiano più degli altri perché si sentono discriminati. A quattro secoli di
distanza, il catalogo è questo: i vaccini sono i veicoli del virus, e non è un
caso se le popolazioni più vaccinate sono anche quelle più ammalate. Dietro di
loro c’è una lobby di case farmaceutiche e un sistema corruttorio che non si ferma
di fronte a niente minando le fondamenta della democrazia e imponendo controllo
sociale e condotte dissennate, come il confinamento, studiato per far infettare
le famiglie; il divieto di un medicamento efficace ed esistente da decenni, ma
su cui non si possono realizzare utili; l’occultamento del fatto che per curare
il virus basta l’aspirina.
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