Ha scritto Michele Serra in “Il candidato impossibile”, pubblicato
sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 5 di novembre 2021: Temo
che quando uscirà questa rubrica della posta l’intenzione del centrodestra di
candidare Berlusconi al Quirinale, almeno in prima battuta, sarà ancora in
piedi. Pure io rimango basito quando leggo articoli e commenti che la trattano
alla stregua di una normale proposta politica. Ma non lo è e non può esserlo, e
per più di una ragione. La più rilevante, e anche le più evidente, non è l’età
(anche se l’età non è certo il punto di forza del leader di Forza Italia). È
che anche solo ipotizzare Berlusconi al Quirinale è una esplicita offesa a
molti milioni di italiani, che in quel signore hanno visto, per il ventennio
nel quale è rimasto sulla scena, non un semplice avversario politico, ma una
specie di quintessenza dell’arbitrio, dell’ignoranza delle regole, della
mancanza di ogni misura nell’ostentazione del proprio potere pubblico e delle
proprie ricchezze private. Quella delicatissima carica -capo dello Stato -
apparenta il presidente a un monarca, nel senso più profondo del termine:
incarna la maestà della Repubblica. Proprio per questo si è sempre cercato,
quasi sempre riuscendoci, di mandare al Colle una personalità il meno divisiva
possibile. Dico quasi sempre perché almeno un settennato, quello di Cossiga,
non è stato certo segnato da concordia e pace istituzionale, per l’evidente
ragione che era stata destinata a quell’incarico la persona meno adatta. Ma per
il resto, con alti e bassi, attraverso figure a volte sbiadite, a volte di
spiccato prestigio, al Quirinale sono sempre andate persone accettate da tutti e
stimate da molti. Sgomenta che il centrodestra (l’Italia dei moderati e dei
conservatori, almeno sulla carta) ancora non abbia capito che il berlusconismo
è stato un periodo di profonda lacerazione politica, di traumi istituzionali e
di grave conflitto etico; che le cicatrici sono ancora aperte, malgrado lui si
sia ritagliato, per la fase estrema della sua parabola, il ruolo, davvero
improbabile, di padre della Patria, liberale e super partes. E forse ancora di
più sgomenta che il centrodestra, qualunque cosa significhi questa
approssimazione politologica, non abbia una rosa di candidati e candidate da
proporre prima di tutto all’opinione pubblica, poi alle Camere, in sostituzione
del suo vecchio capo, improponibile per chiunque abbia memoria, anche vaga, del
recente passato di questo Paese. Da ultimo, davvero da ultimo, il problema
giudiziario. A parte l’episodio, gravissimo, della corruzione di un magistrato,
tutto il resto è solo il corollario di qualcosa che una normale sensibilità
democratica avrebbe già giudicato (male) da sé, senza alcun bisogno del
supporto degli incartamenti giudiziari. Scrivo per la millesima volta che un
Paese politicamente sano non avrebbe bisogno alcuno di appigliarsi ai processi
per decidere, in buona autonomia, se una persona è degna oppure no di reggere
il timone. Spiace dover concludere che non siamo un Paese politicamente sano. A
chi al tempo mi poneva il problema di cosa avrebbe potuto tenere desto ed anzi
rinvigorire il senso civico e repubblicano del paese, una volta liberatici dall’ingombrante
figura dell’uomo di Arcore, ero solito rispondere che, come la cattiva erba che,
come suol dirsi, non muoia mai, di quella “maledizione” abbattutasi sul nostro
sgangherato paese sarebbe stato sempre ben difficile affrancarci. È stato
facile dire in tal modo. I giorni nostri che ci sono dati di vivere mi stanno
dando ragione. Magrissima consolazione. Questa “memoriadeigiornipassati” è dell’indimenticato Franco Cordero – “Tutti gli scudi del Cavaliere” – pubblicata
sul quotidiano “la Repubblica” del 27 di febbraio dell’anno 2012: L’Ex-premier
è imputato a Milano quale corruttore in atti giudiziari: una parte congeniale,
visti i precedenti, stavolta tintinnano 600mila dollari all’avvocato londinese
David Mills, esperto in labirinti fiscali nonché servizievole testimone. Lo
racconta il predetto, confesso in Inghilterra e Italia, sicché alla difesa
resta solo l’arma del perditempo, tanto da estinguere i reati. Monsieur B.
aveva ricusato l’intero collegio: è la nona volta e soccombe ancora,
impassibile. Le sue guerre forensi sono materia da stomaco forte, dove onore,
verità, belle figure dialettiche contano poco. Se l’asserito reato esista e sia
ancora punibile, doveva dirlo il Tribunale. L'ha detto: esiste e nei suoi
calcoli risulta estinto dal tempo; era punto controverso. In lingua meno
tecnica, l’impenitente corruttore schiva la pena e gli resta il marchio: fosse
dubbio il fatto, sarebbe assolto; non se ne vanti, quindi. Avere schernito Dike
con i versi della scimmia è titolo da compagnia equivoca: infatti vi gode un
meritato culto, patrono con aureola; Kronos mangia i delitti. L’analisi
comincia dalla persona. Esistono italiani intolleranti della serietà:
preferiscono Crispi a Cavour; detestano Giolitti; liquidano De Gasperi; amano i
buffoni, specie quando emergano aspetti sinistri. Mussolini li incanta con le
smorfie al balcone e sotto la divisa da primo maresciallo dell’Impero: vola,
nuota, balla, scia, miete, batte il passo romano, farnetica glorie militari;
dopo vent’anni resterebbe a vita nella sala del mappamondo se non muovesse
guerra a tre imperi. Berlusco Magnus è catafratto nella sicumera
degl’ignoranti: sguaiato megalomane, ha fantasia fraudolenta, menzogna estrosa,
occhio sicuro nel distinguere i lati peggiori dell’animale umano; vìola
allegramente ogni limite. Le sue gesta stanno in quattro verbi: corrompe,
falsifica, froda, plagia (mediante ipnosi televisiva, allevandosi una massa
adoperabile); cervelli e midolla sono materia plastica. Due mosse strategiche
dicono cos’abbia in mente: appena salito al potere, homo novus, propone
guardasigilli l’avvocato che gli combinava ricchi affari loschi (il capolavoro
è la baratteria con cui s’impadronisce della Mondadori comprando una sentenza);
e degrada a bagatella il falso in bilancio, importantissimo nella diagnostica
penale. In due legislature, padrone delle Camere, attua quel che sarebbe appena
immaginabile in monarchie piratesche: governo personale, quasi lo Stato fosse
roba sua; brulicano voraci faune; i convitati spolpano l’Italia. L’effetto non
tarda. Fanno testo i numeri forniti dalla Corte dei conti: 60 miliardi l’anno
nel giro d’affari corrotti; e un’evasione fiscale calcolabile in 100-120
miliardi; invano il Consiglio d’Europa raccomanda misure contro la tenia
economica (verme nient’affatto solitario, visto come gavazzano P3, P4 et
ceterae); il governo non batte ciglio. Metà dell’intera patologia europea
fiorisce qui. Dove porti la politica del laissez manger, è presto detto:
traslocando nel novembre 2011, sotto l’assalto dei mercati, l’Olonese lascia un
debito pubblico pari a 1.905.012 (miliardi d’euro) ossia il decuplo dell’annua
emorragia malaffaristica; aveva governato otto anni e mezzo, «uomo del fare». I
conti tornano. Estinzione del reato, dunque, e se l’è sudata: incasserebbe i
quattro anni inflitti a Mr Mills da Tribunale e Corte d’appello se le Camere
affollate da uomini e donne del sì non votassero un malfamato lodo che vieta i
giudizi penali nei suoi confronti, quia nominatur leo, strapotente capo del
governo; quando va in fumo, dichiarato invalido, gli servono un privilegio
dell’impedimento d’ufficio a comparire nell’aula. Così passano settimane, mesi,
anni. Era latta anche questo scudo: finalmente compare ma nominor leo, quindi
concede al massimo un giorno alla settimana e il dibattimento, illo tempore
sospeso, deve ripartire davanti a un collegio diverso; il tutto basta appena,
essendosi Sua Maestà accorciati i termini della prescrizione, con relativa
amnistia occulta. Caso mai non bastasse, aveva pronte due leggi da manicomio:
l’imputato ricco allunga finché vuole i dibattimenti arruolando testimoni a
migliaia, e sul processo pende una mannaia; scaduto il termine, gli affari
penali svaniscono. Sembrano incubi d’un cattivo sonno. No, è vergognosa storia
recente. Come Dio vuole, sabato 12 novembre 2011 esce dal Palazzo avendo
condotto l’Italia a due dita dalla bancarotta, ma non pensiamolo depresso: cova
revanche; arrotano i denti dignitari, sgherri, domestici d’ambo i sessi,
infuriati dalla prospettiva d’una ricaduta nel nulla. Mercoledì 22 febbraio
nelle tre ore del colloquio col successore tocca argomenti caldi quali Rai e
giustizia: le cosiddette «carriere separate» ossia un pubblico ministero
governativo, che dorma o azzanni, secondo gli ordini; non dimentichiamo chi
voleva installare in via Arenula. Gli spiriti animali restano integri. Lo
confermava l’energico sostegno al piano delle Olimpiadi, come se opere
colossali, talora finte, non avessero divorato abbastanza denaro; particolare
pittoresco, sedeva a banchetto qualche gentiluomo del papa. La Corte dei conti
(16 febbraio) chiede due misure dal senso chiaro: riconfigurare comme il faut
il falso in bilancio; e un regime equo della prescrizione, l’attuale essendo
criminofilo. Ogni tanto lamenta d’avere
speso somme enormi in parcelle. Parliamone: ai bei tempi penalisti d’alta
classe giostravano nel merito delle cause, fatto e diritto, sdegnando i cavilli
procedurali; dura il ricordo d’avvocati giuristi quali Arturo Carlo Jemolo o
Alfredo De Marsico, morti quasi poveri dopo una lunga vita in cattedra e sui
banchi giudiziari. Erano sapienti ma disadatti al mestiere, commentano eroi del
Brave New World, scambiando sogghigni porcini. L’immagine viene da Orwell,
nella cui molto istruttiva Fattoria degli animali comandano maiali umanoidi dal
freddo aplomb manageriale: una specie importante; chiamiamola verres erectus.
Siamo salvi dal default. Deo gratias. Rimane una questione grave: quanto
mordano nel codice genetico gli ultimi vent’anni; anzi, trenta, se v’includiamo
l’antipedagogia televisiva.
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