Ha scritto Michele Serra in “Le nuove gabbie identitarie” pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di oggi, sabato 20 di novembre 2021: L’intenzione di includere è
giusta. L’intenzione di escludere, ingiusta. Ma di buone intenzioni è
lastricata la strada dell’inferno (aforisma attribuito a Karl Marx). (…). Ho
scritto (…) che quando si parla di un insieme di esseri umani (un popolo, una
folla, un pubblico, un gruppo), è scontato che si stia nominando una somma di
persone la cui identità sessuale è ben poco rilevante: folla è parola femminile,
ma non c’è maschio che possa sentirsi escluso, popolo è parola maschile, ma non
c’è femmina che non se ne senta parte. Ma non dev’essere tanto ovvia, questa
esistenza già solida e attiva del genere neutro, non sessuato, visto che si
discute accanitamente di nuovi pronomi e nuove definizioni. Qui sta il
problema: l’ansia definitoria rischia di ottenere l’effetto contrario rispetto
alle buone intenzioni. Se lo scopo è che ogni persona sia considerata libera e
degna per ciò che è, ciò che ama, ciò che sente, e non sulla base della propria
appartenenza a questa o quella definizione, siamo sicuri che “iel” (il
nuovo pronome neutro, né maschio, né femmina, che si vorrebbe introdurre in
Francia per dirimere le pressanti questioni di genere. Che non siano queste “questioni”
uno specchietto per le allodole dei poteri forti? Come mai questo sospetto non
sia passato per le menti acute dei No-vax, dei No-pass, dei No-tutto? Mistero! n.d.r.)
semplifichi,
e non complichi? E se qualcuno considerasse il neutro “iel” un genere a sua
volta stretto, e non ci si riconoscesse? E se una quarta, una quinta, una sesta
categoria reclamasse un nome e un pronome, non si arriverebbe forse all’esito
opposto alle intenzioni, nuove gabbie identitarie al posto della libertà di non
abitare in nessuna gabbia? Tratto da “Io non sono un asterisco” di Maurizio Maggiani, pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” del 6 di luglio 2021: Ho ricevuto un invito a una
manifestazione culturale piena di buona volontà indirizzato a un asterisco,
car* amic*. Non andrò, io non sono un asterisco, ho solo qualche modesta
certezza su me medesimo ma so per certo che non necessito di un richiamo a
fondo pagina, posso essere caro e forse anche amico, ma non un impronunciabile
*. (…). Sempre più di frequente mi imbatto sulla stampa politicamente corretta
nella comunità LGBTQI+, non ne appartengo, e dunque so di non poter arrogarmi
alcun diritto di rappresentanza, ma stento a credere che un umano possa
sentirsi appagato nel ridursi in un acronimo; gli acronimi vanno bene per le
società di affari, per le infezioni, per le cose di moda, non vanno più bene nemmeno
per i partiti politici, come lo potrebbero per anime e corpi viventi. C’è poi
quel segno +, addizione indeterminata, forse dal latino plus, non saprei, ma
qui si parla di vite, c’è una vita plus, c’è una vita +? Immagino che
l’intenzione sia quella di rivoluzionare alfabeto e lingua per rivoluzionare il
sistema delle relazioni tra i sessi, farla finita con la lingua maschia,
instaurarne una inclusiva cominciando con la neutralizzazione per iscritto
degli esseri. Bene, allora davvero è ragionevole pensare che quando parleremo
tutt* a scatti il mondo fuori dallo schermo sarà un posto migliore? E qui cito
una studentessa liceale nostra vicina di casa. Certo, la lingua conta, eccome,
la lingua è potere, sovvertire la lingua è sovvertire il potere. Personalmente
mi vanto senza alcun ritegno di essere un teppistello, attempato, della
rivolta, un teppistello della letteratura; non essendo di costituzione adatto a
menare le mani, ho presto imparato a menare la lingua, a farne un proposito di
eversione, e continuo così. Conosco bene il potere della lingua e sin da quando
andavo a scuola a prendermi i miei quattro e i miei n.c., schifoso acronimo, so
che la lingua è potere, e con la lingua il potere l’ho combattuto, la mia
lingua per sovvertire la vostra. E la mia lingua me la son fatta rubando quel
che mi pareva, saccheggiando i dizionari e confondendo, manipolando, imparando
e prendendo a prestito dagli altri eversori, dai mille infinitamente migliori
di me, e splendenti e meravigliosi, e restituendo infine il dovuto. So bene
dunque che la lingua è potere e lotta, oppressione e liberazione; e allora è
per questo che non tollero l’imposizione, neppure quella grammaticale quando ne
sento il falsosuono; men che meno tollero l’imposizione a fin di bene, perché
non vedo alcun bene nell’imporre, nessuna bellezza, ma ancora il palesarsi di
un’intenzione di potere, la vostra lingua che si fa canone e il canone legge. La
mia lingua a cui tengo così tanto, è l’unico mio bene, l’unica mia arma, non
chiede di essere né canone né legge. Sottostà invece alle leggi, alla legge del
mercato quando si fa scritta, alle leggi dell’affetto e delle relazioni quando
la parlo; mi sottopongo quotidianamente all’assenso e al rifiuto, non lotto per
il potere, lotto per la libertà. Così mi sento a posto se rifiuto un invito
indirizzato a *, se trovo illeggibile la ø, se mi fa fatica pensare che Alberto
sia tutto nel + di una stringa alfanumerica. Se ad Alberto invece gli bastasse
il suo posto nella stringa, mi sentirei di invitarlo a cercare nella lingua che
parla qualcosa di più vivido, e nel caso non lo trovasse, provare a inventare
una lingua per sé stesso, una lingua da offrire all’universo delle relazioni,
degli affetti, dei ruoli, alla rivoluzione se gli piacerà. Naturalmente creare
una parola non significa costruire una verità, ma una realtà sì, una realtà
destinata a consolidarsi o dissolversi nel confronto con le multiformi e
cangianti realtà individuali e collettive. Il liocorno, ad esempio, è stato una
realtà per un certo tempo assai condivisa, ora non più, se non per un certo
numero di appassionati del genere fantasy. Certo, Alberto potrebbe andare con
la sua nuova lingua, o anche solo con il suo +, alla conquista del potere, e
allora la sua realtà si farebbe verità e legge, ma non avrei più tanta voglia
di passeggiare e parlare con lui. Resta il fatto che l’asterisco, la ø, il +
non comunicano niente delle vite, dei problemi, dei drammi, delle allegrie,
della grandezza di una vita. E resta il fatto che la Gilda, che ha venticinque anni,
è lesbica e fa la commessa per settecento euro al mese, per la cronaca tanto
quanto il suo vicino di banco maschio etero, perché qui da noi la parità dei
sessi laggiù in basso è ormai conquistata, ecco, al momento la Gilda si
sentirebbe assai più appagata nel vincere la lotta per un salario dignitoso che
stravincere quella per la sovversione dell’alfabeto. Resta il fatto che la
vittoria per l’alfabeto si fa sempre più vicina e quella per il salario sempre
più lontana. Ragion per cui mi chiedo se i valorosi combattenti del + e del * e
del ø stiano intanto lavorando con pari alacrità per la Gilda oltreché per sé
stessi, per il potere sui segni o per la libertà dal bisogno, da ogni bisogno.
Nessun commento:
Posta un commento