Professore, lei scrive che per i ragazzi la rete costituisce “un mondo che li codifica a loro insaputa, modificando il loro modo di pensare e di sentire”. Ci spieghi. “Innanzitutto la digitalizzazione ha influito sulla socializzazione dei giovani, ben prima della pandemia. Le persone sono ormai abituate a parlare attraverso lo schermo dei computer e dei cellulari invece che vis-à-vis. I rischi che i ragazzi corrono sono effetti di ‘de-realizzazione’, per cui non sempre è facile distinguere tra reale e virtuale, e di ‘de-socializzazione’, dovuta alla solitudine tipica di chi vive e comunica esclusivamente attraverso la rete. Internet è in grado di metterci in comunicazione con una persona che abita dall’altra parte del mondo ma, allo stesso tempo, ci ha disabituati a conoscere il compagno di banco o il vicino di casa”.
E la scuola digitale? “Anche l’eccessiva digitalizzazione della scuola può generare una variazione nella capacità di pensare dei più giovani. Sappiamo che il computer insegna a ragionare con il codice binario 0/1: forse è per questo che i ragazzi, posti davanti a un interrogativo, sanno dire solo ‘sì’, ‘no’ o al massimo ‘non so’. O, se vengono invitati a esprimere il loro parere su questioni importanti, si dichiarano spesso semplicemente ‘favorevoli’ o ‘contrari’, senza mostrare sforzo di articolazione o problematizzazione. Le loro sono risposte dicotomiche, da codice binario”.
Le ultime cronache lo raccontano: le persone sembrano assumere sempre più posizioni tout court. Come si può iniziare a problematizzare? “Per fare in modo che la gente inizi a problematizzare c’è bisogno che assuma un atteggiamento filosofico, che presuppone la messa in discussione delle proprie idee. Soltanto così può nascere un dialogo. Prendiamo, per esempio, i No Vax: si tratta di persone che non sono disposte in alcun modo a mettere in questione le proprie convinzioni. Ma soltanto il confronto con l’altro permette di ricevere informazioni che possono modificare la propria visione del mondo. E, si badi bene, ‘dialogo’ non vuol dire ‘accordo’: ‘dia-’ è il prefisso di molte parole composte, derivate dal greco, che indica separazione e distanza. È proprio attraverso quella distanza che ci si arricchisce, coltivando la propria tolleranza”.
Anche per insegnare il dialogo la scuola dovrebbe essere ripensata? “Se la scuola avesse funzionato, da trent’anni a questa parte non saremmo arrivati al populismo. Oggi i problemi del sistema scolastico sono principalmente due. Il primo è oggettivo: le classi non possono essere composte da trenta alunni, ma al massimo dodici-quindici, altrimenti è impossibile riconoscere le differenti intelligenze (si privilegia sempre quella logico-matematica, ma esistono quella artistica, quella musicale, perfino quella corporea) e tanto meno i diversi percorsi emotivi. Il secondo problema è soggettivo: c’è bisogno di insegnanti dotati di un’adeguata preparazione di psicologia dell’età evolutiva ma anche di empatia, che è una qualità naturale e non può essere imparata. Chi non la possiede, per il suo bene e per quello degli studenti che vivono la delicata fase dell’adolescenza, non dovrebbe stare in cattedra”.
Nel suo ultimo libro scrive che la scuola si limita a “istruire” perché, per le suddette ragioni oggettive e soggettive, non è in grado di “educare”. Cosa significa? “Educare significa seguire un ragazzo nel suo passaggio dallo stato pulsionale allo stato emozionale, in modo che abbia una risonanza emotiva nei suoi comportamenti. Ne sono un esempio i cosiddetti ‘bulli’: nel loro caso il ‘sentire’ è deficitario, perché non hanno mai vissuto momenti educativi che gli hanno consentito di avvertire quell’immediata risonanza emotiva che di solito accompagna i nostri comportamenti. Ma cosa fa la nostra scuola nei loro confronti? Li sospende dalla frequenza scolastica e gli toglie un’ulteriore possibilità di passare dal livello pulsionale al livello emotivo, di acquisire consapevolezza delle loro azioni sbagliate. Kant diceva che ‘la differenza tra il bene e il male potremmo anche non definirla perché ciascuno la ‘sente’ naturalmente da sé’, ma oggi questo non è più vero. I ragazzi vanno educati in modo che possano capire e percepire la differenza che esiste tra corteggiare una ragazza e stuprarla, tra insultare un professore e prenderlo a calci. Educare, poi, vuol dire anche portare al sentimento”.
Ovvero? “I sentimenti sono fenomeni culturali, non naturali, quindi si imparano. Basta pensare agli Antichi Greci, che avevano rappresentato nell’Olimpo tutti i sentimenti, le passioni e le virtù umane attraverso gli dei. Oggi non usiamo più i miti però, per esempio, abbiamo la letteratura che ci racconta cos’è l’amore in tutte le sue declinazioni, che cosa sono il dolore, la gioia, l’angoscia, la noia, lo spleen… Così, grazie alle pagine letterarie, semmai il dolore dovesse giungere sapremmo come affrontarlo, avremmo in mente la nostra via d’uscita. Ma la scuola tutto questo ancora non riesce ad insegnarlo…”.
Cosa produce nella società una scuola che non sa educare? “Teppisti, bulli, persone senza risonanza emotiva. E, come dicevamo, anche per questo il populismo ha trovato spazio nel nostro Paese: quando una persona non ha strumenti per decodificare la realtà in cui vive, basta una semplice frase che lo colpisce emotivamente per farlo parteggiare”.
Professore, in questo momento la nostra società è provata dalla pandemia. I contagi sono in rialzo, le tensioni sono molte. Cosa dobbiamo aspettarci? “Le pandemie dei secoli precedenti, con cui si fanno tanto i confronti, erano perlopiù ‘regionali’. Dobbiamo renderci conto che il Covid, invece, è la prima pandemia dell’era iperconnessa e globalizzata: questo vuol dire che il virus ci accompagnerà ancora per molto tempo, la sfida per l’uomo sarà adattarsi. Noi siamo abituati a essere assicurati contro qualsiasi imprevisto, ma la vita non è assicurata contro nulla: dovremmo consegnarci alla precarietà dell’esistenza, accettando che oggi siamo ancora più precari che nel passato”.
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