Tratto
da «Burattinaio, Buddha e volpone: le tre vite del “megadirettore”»
di Pino Corrias, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 4 di novembre 2021: Bisogna
saperle recitare certe cose. Quando alle 11 di quel lunedì 7 settembre 1992,
Paolo Mieli entrò nella sala riunioni del quotidiano La Stampa che dirigeva da
838 giorni, aveva la faccia per metà buia, per l’altra metà compassionevole.
Buia per l’indiscrezione che girava da giorni alle sue spalle. Compassionevole
per gli interlocutori che lo guardavano in un silenzio da acquario. Si
accomodò. Sospirò. Scandì: “So che qualcuno, in questa redazione, dice che io
stia per andare a dirigere il Corriere. È una notizia falsa. Vi proibisco di
dirla. Vi proibisco persino di pensarla. Perché qui sto benissimo. E voi
dovreste essere i primi a saperlo”. Due giorni dopo, come niente fosse, Paolo
Mieli si accomodava sulla bella poltrona in cuoio del Corriere della Sera, bye
bye Torino, con la benedizione di Giovanni Agnelli, il padrone dei padroni, e
di tutto il regno sottostante, compresi i traditi: impossibile portargli
rancore perché l’uomo non ha spine visibili, non ha spigoli, ma specchi rotondi
che tiene sulla punta delle dita, sorrisi che accolgono, gentilezze che a
malincuore congedano. E una sua frase standard: “Guardi, lei mi ha davvero
convinto”, che sembra sempre verosimile e che disarma i quattro quinti degli
interlocutori. Come dice Carlo Rossella: “Paolo non è un uomo, ma una visione
del mondo”. I rudimenti del mestiere (e del potere) li ha respirati presto, a
18 anni, quando si ritrova tra i banchi del leggendario Espresso. Lo ha assunto
Eugenio Scalfari, buon amico di Renato Mieli, il padre, esule in Egitto durante
il fascismo, amico di Togliatti, tra i fondatori dell’agenzia Ansa, poi
direttore dell’Unità, sempre in buoni rapporti con gli inglesi che lo fecero
rientrare in Italia con una falsa identità e una sicura carriera di
anticomunista vaccinato. Scalfari non ama il discepolo, sempre ricambiato.
Tanto più che Paolo, alla vigilia del 1968 si è infilato tra le iraconde
bandiere di Potere Operaio. Rinnegherà tutto di quella brevissima stagione (“fu
una delle sue cento incarnazioni”, dirà Giampiero Mughini, compresa quella di
firmatario del manifesto contro il commissario Luigi Calabresi, anno 1971) tranne
gli amici incontrati allora e per sempre, da Giuliano Ferrara a Ernesto Galli
della Loggia e soprattutto le amiche, persuaso, come scriverà anni dopo, “che
il 68 lo hanno fatto le donne”, rendendoglielo ancora più accogliente. Non per
nulla avrà due mogli, tre figli, una schiera pressoché infinita di fidanzate,
sempre presunte. A spronarlo verso gli enigmi dell’uomo e delle sue miserie
terrene conterà molto di più quell’altro paradigma universale che si chiama
Storia, appresa alla fonte sorgiva di Renzo De Felice, il re degli storici del
fascismo, che cancellò l’idea rassicurante di un Ventennio capitato per caso
tra i piedi della Nazione, per sostituirla con quella di una sua
consequenzialità biografica al carattere degli italiani. Di quell’insegnamento
Mieli farà tesoro per tutti i decenni a seguire, navigando in rotta verso il
moderatismo. E interpretando i fasti e i nefasti italici con la più sottile
delle sue intuizioni professionali: “Il giornalismo è relativo”. Che è poi la
fonte del “mielismo”, quel mescolare l’alto e il basso del racconto – il
cantante e l’attrice intervistati sul prossimo inquilino del Quirinale – che
diventa retroscena sociologico e insieme rotocalco pettegolo. Formula capace di
narrare l’intera stagione berlusconiana, quando politica e spettacolo, al netto
dei suoi risvolti tragici e della sua deriva grottesca, divennero la stessa
cosa. Quella stagione il suo Corriere – diretto in due riprese, dal ’92 al ’97
e poi dal 2004 al 2009 – la raccontò da corsaro, illuminando prima Tangentopoli,
poi pentendosene, persuaso dal crescente tam tam del garantismo ex post che
vorrebbe riscriverla al contrario, sostenendo che furono i magistrati a
distruggere la Prima Repubblica, non il bottino dei politici corrotti. E che
gli valse l’ira di Scalfari riassunta nell’accusa di “cerchiobottismo” (il
conio è di Giovanni Valentini) cioè del furbo che sempre oscilla tra l’alto e
il basso, tra destra e sinistra: prima giocando con il cerchio di Mani pulite,
per poi bersi la botte dei partiti che rivendicano le mani libere. Mieli
replica dichiarandosi terzista, cioè equidistante, perché usare due pesi e due
misure (alla maniera di Repubblica, dixit) una per gli amici e una per i
nemici, è contrario alla “regola base di ogni buon giornale”. È il suo Corriere
che pubblica lo scoop del primo avviso di garanzia a Berlusconi, che a notte
fonda gli confermerà Agnelli al telefono, sua fonte definitiva. Che schiera il
giornale con l’Ulivo di Prodi. Senza disdegnare attenzioni e consigli a una
folta schiera di navigatori minori, da Casini a Fini, da Bertinotti all’ultimo
Pannella. Per poi imbarcarsi negli elogi dei molti moderati a seguire, da
Monti, a Gentiloni, a Letta. Tutti complementari al disprezzo per i grillini
crescenti e per l’ignoto Giuseppe Conte che accuserà di ogni svalvolata
nequizia, compresa quella di avere acquistato mascherine per 763 settimane
(fino al 2035!) all’insaputa degli italiani. Al netto di qualche altro
strafalcione (“Internet passerà di moda, come il
borsello”) il suo maestro professionale è stato Livio Zanetti che trasformò
L’Espresso in una lanciamissili con vista sugli Anni 70 e 80. Da lì Mieli
imparò a maneggiare le rotte del potere, compreso quello del giornalismo, che
felicemente coniugava con l’eterna primavera romana, mentre deflagravano le
lotte operaie e quelle per i diritti civili, insieme con gli scandali
democristiani, il sangue delle stragi nere, il nero del terrorismo rosso, il
grigio della strategia berlingueriana, le stelle filanti della pirateria
craxiana. Che assecondò per amore della politica spregiudicata, da quando i
flash della cronaca immortalarono quella Renault rossa spalancata sul cadavere
di Aldo Moro e su quello del compromesso storico. Da tre decenni è il più
celebre e il più celebrato dei direttori. Lo hanno battezzato “burattinaio”,
“Buddha”, “volpone”. Ha diretto case editrici, festival, trasmissioni tv.
Insegna Storia in Rai e qualche volta in università. Pubblica un paio di libri
l’anno, l’ultimo è Il tribunale della Storia. Elogia massimamente Draghi. Si
diverte a seminare zizzania e insieme a placare polemiche. Passa il suo tempo
libero in tv. L’altro giorno ha aperto il suo editoriale scrivendo:
“Attenzione, la Cina è vicina”, proprio come quando aveva 20 anni. Ma a onore
del secolo e della sua storia, con opposte intenzioni.
Nessun commento:
Posta un commento