Voce prima: “Tutti noi vogliamo vivere, ma anche vivere la propria morte”. Tratta da “Una scelta da rispettare” di Enzo Bianchi, fondatore della Comunità monastica di Bose, pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, 29 di novembre 2021:
(…). Ho sempre cercato di introiettare il senso del limite che mi porta a riconoscere la mia precarietà e mi libera da ogni sentimento di onnipotenza sulla vita e sulla morte. Per questo spero di poter vivere la mia propria morte dicendo un “Amen” nella pace, ma confesso anche la paura per la possibilità di una morte tra sofferenze fisiche e psicologiche. Di fronte alle situazioni che oggi riguardano molti altri, situazioni nelle quali il fine vita può conoscere accanimenti terapeutici, cure palliative o azioni di eutanasia, il mio primo sentimento è quello di una grande compassione che non mi permette di giudicare, ma mi induce a rispettare le scelte operate dalla coscienza del malato e di quelli che il malato ha voluto coinvolgere nella sua decisione. Non solo provo rispetto, ma vorrei anche offrire l’accompagnamento con gli strumenti umani e cristiani che ho e che il malato richiede e accetta. Ogni esistenza è diversa e non possiamo in astratto indicare soluzioni. L’eutanasia, intesa in senso stretto come il procurare la morte a una persona che la richiede, è un’azione contro la vita perché il diritto ad esistere è il diritto fondamentale della persona, fondamento di tutti gli altri diritti. Tra cure palliative assolutamente necessarie (per ora però ancora poco diffuse in Italia) e che possono avere come effetto secondario l’accelerazione della morte, e l’eutanasia come astensione dalle cure e, a volte, dalla nutrizione c’è una zona grigia non leggibile in modo manicheo. Ognuno ha il diritto di essere riconosciuto come soggetto della propria vita, fino alla fine. Ognuno è una persona con relazioni, affetti, non è soltanto una vita determinata da parametri biologici. E la qualità della vita non è riducibile alla quantità dei giorni! Cristiani e non cristiani siamo fratelli e sorelle soprattutto in questo esito della nostra vita, la morte, che dobbiamo vivere il più possibile nella pace e nella relazione con chi amiamo, non sfigurati dalla malattia. Non contrapponiamoci sempre con toni perentori che non lasciano posto all’ascolto, alla riflessione, alla pietà. Lo sappiamo: tutti noi vogliamo vivere, ma anche vivere la propria morte.Voce seconda: “La morte, dunque, può essere un dono d'amore?”. Tratta da “Donare la morte in omaggio alla vita” di Massimo Recalcati – psicoterapeuta di scuola “lacaniana” -, pubblicata sullo stesso quotidiano “la Repubblica”: È possibile concepire l'interruzione volontaria della vita - eutanasia o suicidio assistito - non solamente come ciò che può evitare lo strazio di sofferenze senza alcuna speranza di guarigione, ma come un vero e proprio dono? La morte può essere in certe circostanze drammatiche un dono che non oltraggia affatto la sacralità della vita ma la onora immensamente? Non esiste morte naturale, scriveva Simone De Beauvoir. Ogni morte umana accade, infatti, sempre prematuramente. Non siamo fatti per morire ma per vivere: la morte è il nostro destino insuperabile ma è anche ciò che contraddice atrocemente il nostro attaccamento alla vita. Dobbiamo morire ma non siamo fatti per morire. In questo senso la morte accade sempre in anticipo, sempre troppo presto, sempre, appunto prematuramente. È la ragione dell'estremo scandalo che suscita la morte di un bambino: la morte avviene in questi casi là dove non è attesa, dove non dovrebbe mai avvenire, non alla fine ma all'inizio della vita. Ma se la morte è un evento che vorremmo sempre evitare, come può assumere il significato di un dono? Si può davvero donare la morte? In uno straordinario film titolato Milion Dollar Baby, Clint Eastwood ha messo scabrosamente in scena questi interrogativi. Una giovane donna si trova paralizzata a letto per una terribile lesione contratta in un combattimento di pugilato. Ha costruito con fatica la sua vita resistendo a innumerevoli difficoltà. Grazie al suo desiderio deciso e la dedizione del suo allenatore trova finalmente la sua affermazione sul ring. Poi il trauma della lesione. La sua vita si trova improvvisamente amputata, alimentata dalle macchine della scienza medica, senza nemmeno più la possibilità di parlare, sommersa da sofferenze inaudite provocate dalla cancrena. Prova prima a suicidarsi mangiandosi la lingua. Successivamente comunica al suo vecchio e amato allenatore il desiderio di non continuare più a vivere così. Lui la chiamava Mo chiusle che nella lingua galeica significa "mio tesoro" e di fronte al dolore senza speranza di questo "tesoro", Frankie, il vecchio allenatore, decide di staccare la spina mettendo fine alle sue atroci sofferenze. La morte, dunque, può essere un dono d'amore? O forse Frankie si è sostituito impunemente a Dio decidendo sulla vita e sulla morte di un altro essere umano? Quando la vita è sommersa dalla sofferenza e da un male che non lascia speranze, quando il suo orizzonte si è ristretto a quello angusto di un letto in una terapia intensiva permanente, quando la vita ha già perduto il senso della vita, allora donare la morte non sarebbe un atto di amore che salvaguarda il rispetto della vita e la sua immensa sacralità? Quale materialismo grossolano può confondere la vita umana con un respiro alimentato artificiosamente da delle macchine? Ma, soprattutto, quale concezione spietata della vita bisogna avere per escludere la possibilità della resa? Un celebre libro del teologo Dietrich Bonhoeffer si intitola proprio Resistenza e resa. Sono i due movimenti che scandiscono la vita umana. Il primo è quello della resistenza della vita di fronte agli ostacoli, alle prove, alla sofferenza, alla tentazione della morte. Ma fino a quando? Per quanto tempo il dolore e l'assenza di speranza possono essere sopportati? Sino a quale punto una vita può resistere al dolore? Il secondo movimento è quello della resa. Qui la vita si rivela pienamente umana. Infatti se la resa senza la prova della resistenza può essere una fuga dalla vita, la resistenza senza la possibilità della resa può diventare un supplizio o un martirio inutile. Ma chi può misurare il giusto rapporto tra la resistenza e la resa? Alla luce della pietas umana la forza della resistenza dovrebbe avere la stessa dignità della dichiarazione di resa. Quando la vita si arrende alla sofferenza dopo aver resistito sino al proprio limite è giusto che il dono della morte diventi possibile, che la resa non sia impedita, ma, al contrario, onorata. La Legge non può imporre la resistenza senza resa - sarebbe questo il cuore folle della filosofia dell'hitlerismo - ma deve servire a consentire il dono della morte di fronte a una esistenza che può dichiarare, dopo il tempo della resistenza, la sua resa. In questo caso la morte rende ancora più sacra la vita perché la riconosce profondamente vulnerabile, fragile, umana. Non è qui in gioco la morte come semplice soppressione della vita o, peggio, come selezione della vita, ma come dono di chi riconosce che morire quando la vita è al muro, senza speranze, sommersa dalla sofferenza, è una liberazione che salvaguarda la stessa dignità umana della vita. Se il dono della vita è il dono di una avventura possibile, quello della morte può essere il dono che riconosce la resa della vita di fronte all'impossibile.
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