"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 13 novembre 2021

Paginedaleggere. 65 «"A Ca', grazie pe' avemme dato er soriso a 'n'adolescenza de mmerda!"».

 

Tratto da “Le mie corde segrete”, intervista di Marco Cicala a Carlo Verdone pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 13 di novembre dell’anno 2020: (...). Ho letto che pratica una singolare forma di preghiera: fotografare le nuvole. "Una quarantina di quelle foto sono state esposte al Museo Madre di Napoli. Ma non erano nate per essere mostrate. Non volevo che la gente pensasse: "Adesso Verdone s'è messo pure a fa' il fotografo". A convincermi è stata Elisabetta Sgarbi. Qualcuno le aveva parlato di quelle immagini. Lei ha voluto vederle e le sono piaciute. Le foto, ormai circa cinquecento, sono un mio momento intimo, mistico: una preghiera senza parole. Le conoscevano solo i miei figli e qualche amico. Rappresentano una parte di me. Non sono un depresso, ma ho un lato malinconico, crepuscolare, leopardiano. E non l'ho mai nascosto. Non sopporto quegli attori comici che si fanno vedere sempre sorridenti, con la battuta pronta, e poi magari nel privato sono tutto il contrario. Penso che a un certo punto devi mostrarti per quello che sei davvero. Vede, io non sono un misantropo, ma so bastare a me stesso. Entro certi limiti, non sto male da solo. Coltivo le mie passioni: la scrittura, il giardinaggio, la musica o, appunto, la fotografia. Quegli scatti ai cieli costituiscono una specie di compensazione spirituale al mio lavoro".

In che senso? "Nei film sono sempre affiancato da una o un coprotagonista oppure da un gruppo di attori, insomma: sto sempre rinchiuso dentro un "autobus di facce". Le commedie sono un diluvio di parole e di interni. Solo raramente puoi concederti di filmare uno sfondo, un paesaggio. Nelle mie foto invece non c'è mai un essere umano: solo eventi atmosferici. Per me il cielo è "l'umore di Dio", mi stupiscono sempre i suoi cambiamenti. Le foto le faccio qui in terrazza, nella mia casa di campagna in Sabina o nei dintorni. Potrebbero essere state scattate ovunque. Ma ogni volta che le guardo mi rassicurano. Perché sento che il cielo è vita, che nel cielo c'è sempre vita".

Ha conosciuto bene l'ultimo Alberto Sordi. Un uomo che nel privato aveva rituali quotidiani rigorosissimi. Anche lei ha i suoi rituali? "Tutti ne abbiamo. Di più o meno nevrotici. Il suo giardiniere mi raccontò che, quando si ritirava a scrivere sull'isolotto norvegese, Ingmar Bergman lo pregava di non usare le cesoie. Perché sull'isola voleva il silenzio assoluto. Girava per casa in pantofole perché odiava perfino il rumore dei propri passi. Anche io scrivo nel silenzio. Tutt'al più con un sottofondo di musica minimalista a bassissimo volume. Quando sono in viaggio non posso spostarmi senza il mio iPod: contiene una compilation di musiche indispensabili per farmi prendere sonno. I brani sono: L'Inno dei Cherubini di Cajkovskij, Steel Cathedrals di David Sylvian e Sakamoto, più alcuni pezzi ambient di Brian Eno. Sto a letto con la cuffietta e gli occhi che mi si chiudono: "Adesso spengo" mi ripeto. Ma finisce sempre che verso le sei di mattina mi sveglio con la compilation che mi gira ancora nelle orecchie. Oltre a queste, ho le fissazioni rituali di chiunque. Prima di andare a dormire ricontrollo cinque o sei volte che la porta di casa sia chiusa bene e la chiavetta del gas stia in posizione orizzontale".

Ho letto anche che, mentre nel cinema infuriavano le denunce di molestie sessuali, lei ha deciso di proteggersi piazzando una videocamera sul pianerottolo. "È sempre in funzione. L'ho messa perché, soprattutto la domenica pomeriggio, iniziava a ripetersi troppo spesso una stessa scena. Qualcuno mi suona alla porta. Dato che non ha citofonato, io apro pensando che si tratti di un vicino del palazzo. Invece mi piombano in casa gruppi di ragazzi che vogliono filmarsi insieme a me. Magari in videochiamata con la sorella, la fidanzata, la madre: "Guarda ma', sto a casa de Verdoneee!". In qualche caso però si sono presentate anche delle ragazze da sole. Imploravano: non mi cacciare via, non mi denunciare! Voglio solo lasciarti un cd per farti ascoltare le mie imitazioni... E poi puntualmente svenivano o si facevano prendere da un attacco di panico. Me toccava andà a cercà un calmante. Siccome questi episodi avvenivano nell'ingresso di casa, con la porta aperta, ho pensato che sarebbe stato prudente filmarli. Casomai a una di quelle fosse venuta l'idea di graffiarsi in faccia e poi andare a dire in commissariato che j'ero zompato addosso. Da questo punto di vista la mia vita privata è una tragedia. Prima di uscire devo chiamare il portiere e chiedere: via libera? C'è sempre qualcuno appostato fuori con un copione in mano...".

Tutti i suoi film sono il frutto del lavoro di Verdone "pedinatore" degli italiani. Ma da quando la sua faccia è diventata conosciuta come fa a studiarli, a spiarli senza farsene accorgere? "Continuo a indagare sulla gente, ma a volto scoperto. Mi alzo sempre abbastanza presto e faccio il mio giretto mattutino. La chiacchiera col giornalaio, col barista, col fioraio egiziano o con la tintora egiziana... Le farmacie restano un ottimo punto di osservazione. Ci ho trascorso ore. Ma adesso col Covid sono off limits".

Negli anni 80 lei diagnosticò con largo anticipo una piaga sociale che si andava diffondendo tra gli italiani: la mitomania. Ora sui social ha raggiunto l'apoteosi. In che rapporti è Verdone con Facebook e compagnia postante? "All'inizio mi ero detto: non ci metterò mai piede. Ma sono subito cominciati i problemi. Perché presero a fioccare dei falsi Carlo Verdone che mettevano in rete immagini e commenti spacciandosi per me. Dopo una serie di denunce, siamo riusciti a fermarli. A quel punto però dalla Polizia postale mi hanno detto: lo vuole un consiglio? Per finirla con 'sta storia si apra un profilo suo e buonanotte. Il risultato? Una foto che mi mostra mentre torno a camminare dopo l'operazione ha fatto 112 mila like, 4 milioni con le condivisioni. Ma nella mia pagina non voglio essere narcisista, esibizionista. A chi mi segue cerco sempre di dare qualche piccola cosa originale: una vecchia foto di Roma, di qualche grande artista che ho conosciuto... Oppure un aneddoto, un racconto. Insomma, non mi metto lì a postare un selfie di me al ristorante davanti all'aragosta".

Si considera un uomo mite? "Sì".

Ma il Vecchio Testamento insegna che quando un tipo mite s'incazza sono dolori. A lei cosa la fa imbestialire, cosa la ferisce di più? "Il tradimento di un amico. In vita mia ne ho sofferti tre o quattro di quelli brutti. In casi simili non reagisco né a gesti né a parole. Chiudo e basta. Le cose che mi fanno più male sono i voltafaccia e l'invidia. Non sono un santo. Ho i miei tre o quattro bei difettacci, ma tra questi l'invidia non c'è. Mi ricordo di quando Massimo Troisi esordì con Ricomincio da tre. Era lo stesso anno di Bianco, rosso e Verdone, ma il suo film incassò trenta volte più del mio. Dopo averlo visto mi dissi che era nato un attore dai tempi comici straordinari. E volli incontrare Massimo. Ma non per chiedergli: facciamo un film insieme? No, solo per conoscerlo. Oltre a essere un grande attore era un uomo intelligente, sensibile, acuto. Ho imparato molto da lui".

Le battute dei suoi personaggi sono entrate nell'immaginario collettivo come quelle dei primi film del suo quasi coetaneo Nanni Moretti. Fate un cinema molto diverso, ma siete vicini di casa. Che rapporti avete? "Non ci frequentiamo. Lui è una persona molto riservata e io lo rispetto. Se ci incrociamo al ristorante facciamo due chiacchiere su quello che stiamo facendo o stanno facendo i nostri figli. Tempo pochi minuti e arrivederci".

Verdone, i suoi primi film ci fecero scoprire una gioventù scombinata, ma candida, solitaria. E sparita. "Erano figure poetiche che prendevo dalla realtà di quegli anni. Ragazzi che a forza di star soli diventavano quasi personaggi fiabeschi. Oggi nessuno è più in grado di stare da solo. I giovani vogliono rimanere connessi, vedersi. Guarda che casino ti alzano se gli togli l'aperitivo...".

Insieme a quegli stralunati è scomparsa pure la Roma in cui si aggiravano. Ora prevale la rappresentazione della metropoli-Suburra. Ma non ha già stufato? "Quella rappresentazione è uno specchio della realtà, perché Roma si è effettivamente incattivita. Forse però è arrivato il momento di superare Gomorre e Suburre. Senza sdolcinatezze, ma bisognerebbe raccontare Roma anche con altri sentimenti. Alla fine l'eccitazione della violenza, delle bande e dei traffici criminali che cosa ha prodotto nei ragazzi? Anni fa, un mio amico che insegnava in una scuola di periferia mi raccontò che agli studenti aveva assegnato un tema dal titolo: Qual è il primo desiderio che vorresti si realizzasse appena diventerai maggiorenne? Uno rispose: "Vorrei comannà tutto er Prenestino". Un altro: "Vorrei fondà 'na banda più cattiva de quella daa Majana". Un altro ancora: "Vorrei da' 'na lezione a mi' padre che m'ha rovinato 'a vita". Tutte risposte arrabbiate. Comprese quelle delle ragazze, che erano le più violente. Da qui la domanda: che cosa abbiamo fatto negli ultimi decenni per le periferie? Niente. La politica ha improvvisato. Le ha abbandonate. E i ragazzi che si sono detti? Si sono detti: "Famo da soli. Prennemose Roma, Ostia, le periferie...".

Alla soglia dei 70 anni soffre di nostalgia o la affronta con romanissimo fatalismo? "Il tempo va avanti e non possiamo farci niente. Però se mi chiedessero: "Pagheresti per essere nato qualche anno più tardi e poter vivere di più?", risponderei: "No. Al limite pagherei per essere nato qualche anno prima". I 50, i 60, e malgrado tutto anche i 70, furono anni strepitosi. Quando li racconto ai miei figli sgranano gli occhi come se non ci credessero. Provo rimpianto? Sì. Ma non bisogna mai guardarsi troppo indietro. Sarebbe una forma di codardia".

Maturando, il senso di condivisione delle amicizie giovanili tramonta? "Col tempo le vecchie amicizie tendono a indebolirsi. Perché ci si mette in mezzo il lavoro tuo e quello dell'altro. La tua famiglia e la sua. Anche se dovrei farlo di più, cerco di coltivare amicizie soprattutto fuori dal mondo del cinema. Frequentare la gente dello spettacolo è di una noia mortale. Si parla solo di soldi. Tra i miei amici ci sono medici, avvocati, direttori di banca... Anche il mio sceneggiatore Pasquale Plastino e il regista Giovanni Veronesi, ma con loro non parliamo mai di cinema".

Il complimento più bello ricevuto in 40 anni di carriera? "Diversi anni fa, all'una di notte, sul ponte di Regina Coeli, un energumeno in motocicletta mi urlò: "A Ca', grazie pe' avemme dato er soriso a 'n'adolescenza de mmerda!". Sulle prime rimasi spaventato. Ma poi mi dissi che quella frase valeva più di un Oscar. Però la gratificazione più grande è quella delle persone che prima di morire chiedono di vedermi. Vogliono ringraziarmi per i miei film. Che in dvd gli hanno fatto compagnia durante la terapia del dolore".

Oggi soffre di ansia da Covid? "No. Sono molto preoccupato, ma cerco di prenderla con filosofia. Penso alle famiglie che vivono in 50 metri quadrati. Ho già fatto 7 tamponi. Esco solo se necessario: 'ndo devo annà? All'inizio, oltre alla mascherina, usavo i guanti. Poi hanno consigliato di toglierli perché era meglio il gel igienizzante. Di questo virus continuiamo a sapere poco. Quest'estate ci hanno detto che sarebbe praticamente sparito. E la gente se n'è andata in Sardegna, in Corsica, in Croazia... Alla faccia dell'Oms - tanto bistrattata da Trump - che invece aveva avvertito di una seconda ondata in arrivo. La gestione politica dell'emergenza è una cosa molto difficile. Io non mi fido della politica. Perché il politico ha sempre paura che le decisioni impopolari lo mettano contro quelli della sua compagine e gli facciano perdere voti. E così tende a lasciar correre. Mentre bisognerebbe essere molto decisi".

Cinema e teatri andavano chiusi o tenuti aperti? "Certo, i cinema sono luoghi a rischio molto basso. Su 200 posti se ne possono occupare solo 60. Gli spettatori sono distanziati, con mascherina e non parlano tra loro. Però quando 100 scienziati hanno scritto al presidente Mattarella parlando di un momento molto pericoloso e chiedendo un nuovo lockdown, credo che non avessero preso di mira cinema e teatri in quanto tali, ma ciò che comportano in termini di mobilità delle persone. Penso che la preoccupazione fosse quella di ridurre gli spostamenti della gente in generale. Che dirle? Forse si tratta di misure eccessive, anche perché i grandi contenitori del virus sono piuttosto i trasporti pubblici. Ma se la scienza ci dice che adesso il Covid puoi beccartelo anche solo facendo capolino in un negozio, allora dobbiamo dar retta alla scienza e starcene zitti".

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