Tratto da “La
giustizia e la vita” di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di ieri venerdì 14 di maggio 2021: (…). La giustizia è un sistema
complesso di forze e di interessi diversi e spesso antagonisti; ogni legge
nuova è soltanto un impulso, un fattore di rimescolamento e sarebbe
un'ingenuità considerarla coincidente col risultato finale. Ridurre i tempi
della giustizia, s'intende, è ciò su cui tutti, sono d'accordo. L'ovvia via
maestra dovrebbe essere l'efficienza dei processi. Oggi, pare che si battano strade diverse.
Ragionando in astratto e per assurdo si può pensare che i processi non si
facciano, così durano niente; oppure, sempre per assurdo, che i processi siano
sommari, senza tante complicazioni, così durano poco. (…). I reati, ma non
quelli più gravi, dopo un determinato periodo di tempo "si
prescrivono", "si estinguono" e, di conseguenza, non si procede
nei confronti dei loro autori. I giuristi dicono che la prescrizione ha natura
sostanziale, oggettiva: l'interesse pubblico a celebrare processi dopo molto
tempo dai fatti viene meno e lo Stato, attraverso il suo apparato giudiziario,
rinuncia a perseguirne gli autori. Di fatto - ecco un caso di eterogenesi dei
fini - , anche se lascia un'ombra di possibile colpevolezza, la prescrizione ha
cambiato natura ed è diventata uno strumento processuale per scampare alla
giustizia: un'assoluzione per prescrizione per l'imputato, soprattutto se ha
qualcosa da rimproverarsi, è meglio di un'eventuale condanna. Ma è anche una
frustrazione della giustizia: dei magistrati che vedono andare in fumo i
processi che hanno istruito; dei giudici che si sono pronunciati invano in
gradi precedenti del giudizio, delle vittime dei reati che si sentono beffati e
giustificatamente alzano i pugni al cielo. Non nascondiamoci la realtà:
soprattutto nei grandi processi dove sono all'opera i grandi avvocati, maestri
nell'usare tutte le risorse della procedura che sono tante (rinvii, eccezioni
del più vario genere, rinuncia alla difesa e sostituzione del difensore,
ricusazioni, "termini a difesa", ricorsi, ecc.) spesso si punta più
sulla prescrizione del reato che sull'innocenza dell'imputato. Così quella che
è una sconfitta d'una giustizia che a parole si vorrebbe rigorosa, certa,
uguale per tutti e indipendente dalle circostanze, si trasforma in efficace
incentivo della sconfitta medesima. Sappiamo però anche che la prescrizione dei
reati è un fatto di civiltà, purché non diventi un salvacondotto dei criminali.
È un fatto di civiltà perché non si può vivere in eterno restando sotto la
minaccia del processo. Il processo è di per sé una pena. Se ha da esserci, lo
si apra e lo si chiuda nei tempi più brevi possibili e non lo si lasci pendere
come una minaccia sulla testa delle persone. La prescrizione del reato, che -
ripeto - è pur sempre un fallimento della giustizia, serve a porre fine alla
minaccia e ad assicurare la tranquillità d'animo che è condizione di libertà.
Dunque, i reati devono essere prescrittibili, ma i tempi della prescrizione
devono essere compatibili con quelli dell'ordinaria celebrazione dei processi.
La brevità dei tempi di prescrizione deve essere in rapporto diretto con la
rapidità della celebrazione dei processi. Se si vuole che la prescrizione
avvenga in breve tempo, si accelerino i processi con semplificazioni delle
procedure, eliminazione dei pretesti su cui prosperano i causidici,
investimenti, riorganizzazioni. Per accelerare i processi non c'entrano nulla i
termini di prescrizione, cioè i tempi oltre i quali lo stato rinuncia a esercitare
la funzione giudiziaria. A meno che si dica ridurre i tempi ma si miri ad
altro, all'impunità. Si evoca a tutto spiano l'Unione Europea che vuole
processi brevi, ma la Corte di Giustizia si è già pronunciata con chiarezza,
ponendo un principio: la prescrizione che vanifica i processi è contro lo stato
di diritto e non è, dunque, una via percorribile (è la decisione sul "caso
Taricco" del 2015: si trattava della responsabilità degli evasori
fiscali). Un altro tema affatica i riformatori: l'appellabilità delle sentenze.
A quanto si dice, ora si penserebbe di reintrodurre l'abolizione dell'appello
del pubblico ministero contro il proscioglimento in primo grado. L'argomento è
suggestivo: se uno è stato prosciolto una volta, come potrebbe il giudice d'appello
ritenere fondato "oltre ogni ragionevole dubbio" il ricorso del
pubblico ministero che chiede di rivedere la sentenza di assoluzione? Argomento
suggestivo, sì, ma anche fondato? Il sol fatto che un giudice si sia espresso è
di per sé garanzia che non vi possano "ragionevoli dubbi"
sull'assoluzione? Precisamente, ragionando di "ragionevolezza",
proprio in casi come questi non dovrebbero essere ammesse le riconsiderazioni?
Le decisioni di primo grado possono essere arbitrarie, irragionevoli, sbagliate
e, proprio per correggerle, esiste l'appello. Pensando di abolirlo in base a
quell'argomento, si farebbe cosa assai strana: l'appello serve a correggere i
possibili errori, allora basta dire che il giudizio di chi li ha commessi è
dotato d'un plus-valore di verità? Non c'è qui qualcosa come un ingolfo logico?
Il doppio grado del giudizio non è prescritto dalla Costituzione. Ma la
cosiddetta "parità delle armi" tra accusa e difesa è necessaria in
vista del processo "giusto". Giusto non sarebbe se l'accusa avesse
più poteri della difesa, ma anche al contrario, se ne avesse meno: così disse
la Corte costituzionale. Come si fa superare lo scoglio? Stando a quel che si
legge, si vorrebbe limitare in qualche modo anche l'appello dell'imputato
contro le sentenze di condanna in primo grado. Non abolendolo, ma ammettendolo
solo in casi "rigorosi" stabiliti dalla legge? Quali? Non è già così?
Chi, poi, decide se si rientra nei casi ammessi, se non un giudice d'appello?
Quale groviglio dovrebbe essere sciolto dal legislatore; quante complicazioni e
quante controversie ne nascerebbero? Altro che semplificazione, accelerazione.
In ogni caso, non si risolverebbe affatto la questione del diritto
all'uguaglianza perché questa è questione che non riguarda l'astratta architettura
legislativa, ma la concreta posizione delle parti in quel singolo processo e
nulla interessa loro se, in altri processi, ci sia una diversa ponderazione dei
poteri, questa volta a sfavore della parte accusatrice. (…). Una domanda: si
parla nei termini anzidetti di riforma della giustizia per la giustizia.
Davvero? Non sarà, invece, che la posta in gioco sia tutt'altra, politica, la
tenuta del governo, di cui la giustizia rischia di fare le spese. E non sarà
che la da tutti denunciata malattia della giustizia abbia bisogno di medicine
d'altra natura?
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