Ieri ci ha lasciato Franco Battiato. Ha scritto Marco
Travaglio in “Un essere speciale”
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi mercoledì 19 di maggio 2021: “il
suo spirito se n’era già andato da qualche altra parte, nomade in cerca degli
angoli della tranquillità. L’altra notte li ha trovati tutti. Ora è finalmente
libero”. E lo ricorda, per tutti noi, così: (…). Estate 2009. Francuzzo mi
chiama per sapere come vanno i preparativi: “Caromarco (lo diceva tutto
attaccato con quella voce di seta, nda), ti devo fare un regalo. Una canzone
che ho scritto con Sgalambro e anche con te, ma a tua insaputa. Dammi una
mail”. Gliela do. Poco dopo, dalla sua – col nome storpiato di Joe Patti, un
suo zio emigrato in America – mi arriva la traccia ancora provvisoria di
Inneres Auge (l’occhio interiore o il terzo occhio, in tedesco). La ascolto e
capisco: “Uno dice: che male c’è / a organizzare feste private / con delle
belle ragazze / per allietare primari e servitori dello Stato? / Non ci siamo
capiti./ E perché mai dovremmo pagare / anche gli extra a dei rincoglioniti? /
Che cosa possono le leggi / dove regna soltanto il denaro? / La giustizia non è
altro che una pubblica merce…”. Parlava di B., anzi di quelli che con argomenti
fallaci giustificavano i suoi scandali. Poi dal basso più infimo – come sempre
faceva lui, dissimulando la sua sterminata cultura e la sua sconfinata
spiritualità – si elevava improvvisamente verso l’alto: “La linea orizzontale
ci spinge verso la materia, / quella verticale verso lo spirito /… Inneres
auge, das innere auge. / Ma quando ritorno in me, / sulla mia via, a leggere e
studiare, / ascoltando i grandi del passato, / mi basta una sonata di Corelli,
/ perché mi meravigli del creato”. Francuzzo era così: leggero, soave, delicato,
spiritoso, sorprendente, puro, naïf. Come il bambino che urla “il re è nudo!”.
Ricordo il suo sincero, candido stupore per la ridicola canea che si era levata
quando, al Parlamento europeo, s’era permesso un giudizio sugli abitanti di
quello italiano: “Queste troie che stanno in Parlamento farebbero qualsiasi
cosa. È una cosa inaccettabile. Aprissero un casino”. Apriti cielo. Le solite
voci del padrone lo accusarono – pensate un po’ – di sessismo e di
antipolitica. Salvini gli diede del “piccolo uomo”. La Boldrini del
“disdicevole”. E lui: “Ma io parlavo dei politici, più uomini che donne, che si
vendono al miglior offerente. Come li chiami tu, se non troie? Cazzo c’entra il
sessismo?”. Per quello, dopo soli cinque mesi, fu cacciato da assessore alla
Cultura della sua Sicilia, per ordini superiori dai palazzi e dai colli di
Roma: “Ecco, vedi? Sono proprio delle troie, ahah!”. Nel 2012 gli proponemmo di
tenere un blog sul nostro sito. Gli scrisse la nostra Paola Porciello. Lui
rispose così: “Cara Paola ecco la mia proposta: 4 brevi pensieri di mistici,
splittati in 4 settimane e sempre lo stesso giorno (della settimana). È una
scelta ‘contro’, e so bene che vi potrà creare un qualche problema. Mi faccia
sapere. f.”. Ne scrisse sette in tutto, dedicati ai grandi del misticismo e
dell’eresia di ogni religione. E nello spazio autobiografico si descrisse così:
“Nato parecchi anni fa a Jonia (CT), compositore-cantante e regista. Negli anni
70 con la sua musica di ricerca ha attraversato le avanguardie europee. Alla
fine degli anni Settanta passa alla musica di larga comunicazione alternandola
a opere classiche”. Solo lui poteva vendere milioni di dischi con le canzonette
(Un’estate al mare per Giuni Russo) e con le “correnti gravitazionali”, le
gurdjieffiane “èra del cinghiale bianco” e “alba dentro l’imbrunire”, con “lo
shivaismo tantrico di stile dionisiaco e“il senso del possesso che fu
prealessandrino”. A proposito. Nei concerti non voleva mai cantare Il
sentimiento nuevo: “È una cosetta da nulla, lo riempitivo della Voce del
padrone, non mi va”. Ma una volta, sapendo che ero tra il pubblico, la infilò
nei bis: “Questa è per un mio amico che s’è fissato. Giudicate voi!”. E solo
lui, captando visioni da mondi lontanissimi, poteva predire con un anno
d’anticipo (Povera Patria, ’91) l’Italia delle stragi e di Tangentopoli,
“schiacciata dagli abusi del potere / di gente infame che non sa cos’è il
pudore… / Tra i governanti / quanti perfetti e inutili buffoni… / Ma non vi
danno un po’ di dispiacere / quei corpi in terra senza più calore? / Ma come
scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali? / Nel fango affonda lo
stivale dei maiali”. Da qualche anno, dopo la caduta al Petruzzelli di Bari
causata dalla stretta di mano troppo prolungata di un fan sotto il palco, la
frattura del femore e l’operazione in anestesia totale, era andato via via
svanendo. Il destino l’aveva colpito proprio alla testa. Malattia mai
diagnosticata, perché non voleva medici fra i piedi. Nei concerti aveva
iniziato a scordarsi i testi e a sbagliare gli attacchi. Un po’ ne rideva e un
po’ ne soffriva. Nel 2015 eravamo insieme a Ottoemezzo: rispondeva a Lilli
Gruber a monosillabi, beffardo e tranchant nella sua strepitosa essenzialità. “Berlusconi?
Non è il mio tipo”, “Salvini? Cambio canale”. L’ultima volta che salì su un
palco era quello di Renato Zero, ad Acireale, nel 2017: attaccò La cura in
ritardo e ne uscì una versione rara tutta speciale, una specie di Gronchi rosa
in musica. Due anni fa, per il suo 74° compleanno, il fratello Michele e
l’agente Franz Cattini riunirono parenti e amici nella sua casa di Milo, alle
pendici dell’Etna. Carlo Guaitoli si mise al piano e cantammo un po’ di
repertorio. Lui ci guardava felice. E ogni tanto usciva con una battuta, l’aria
del bambino che ha fatto una marachella. Ma il suo spirito se n’era già andato
da qualche altra parte, nomade in cerca degli angoli della tranquillità.
L’altra notte li ha trovati tutti. Ora è finalmente libero.
Nessun commento:
Posta un commento