Tratto da “Il
realismo amorale delle nostre democrazie” di Nadia Urbinati, pubblicato sul
quotidiano “Domani” del 13 di aprile
2021: Una delle differenze tra chi amministra organismi non politici e chi
governa un paese democratico è la forma della comunicazione, una differenza che
dipende da un’altra: la natura del committente. Draghi presidente della Banca
centrale europea e Draghi presidente del Consiglio italiano presumono
“pubblici” diversi che richiedono forme diverse di comunicazione. A chi rende
conto il primo Draghi e a chi rende conto il secondo Draghi, la differenza è
tutta qui. Lo stile e la forma della comunicazione seguono a ruota. Il secondo
Draghi, quello che vediamo nelle conferenze stampa, deve informare la
cittadinanza tutta e rispondere a domande (a volte interessanti) che non sono
sempre e solo tecniche. Quella che offre non è un’informazione asettica, ma una
che si presta a essere interpretata secondo sia criteri tecnici (riferimento ai
dati e agli esperti), sia giudizi di valore (riferimento alle opinioni e alle
valutazioni morali o politiche). Nell’ultima conferenza stampa, Draghi ha
abbondato nei giudizi di valore. Il terreno scivoloso. Nel campo genericamente
detto politico, in parte tecnico in parte discorsivo, può succedere che la
comunicazione trascini l’attore su un terreno scivoloso, condito di espressioni
e concetti accattivanti perché attento all’eco che avrà nell’audience. Stefano
Feltri ha per questo paragonato la retorica di Draghi nell’ultima conferenza
stampa a quella di un influencer. Draghi come Chiara Ferragni. Ma meno bravo di
Chiara Ferragni, certamente perché meno esperto di lei nelle dinamiche dei
social. E così ha fatto due scivoloni che rivelano quanto sottile sia la linea
che separa il tecnico dal populista nella democrazia del pubblico. Il primo
scivolone (da rottura dell’osso del collo) è stato quello della
colpevolizzazione dei furbi del vaccino: lo psicologo 35enne e coloro che,
sotto i sessant’ anni, “saltano la fila”. La reprimenda paternalistica di
Draghi ha tradito una stupefacente disattenzione a come funziona il sistema di
vaccinazione, che il suo governo regola e monitora. Non si può saltare la fila,
infatti, a meno di non violare le regole o per raccomandazione o per amicizia o
per nepotismo. Diversamente, sono i sistemi di classificazione dei vaccinanti –
per gruppi sociali, professionali e per età – a stabilire chi si vaccina e
quando. L’appello alla “coscienza” è fuori luogo in entrambi i casi: nel primo,
perché lì si tratta di violazione di una norma; nel secondo, perché in quel
caso si è dentro la norma. Dal che si evince che a essere oggetto di reprimenda
non devono essere i non sessantenni che si vaccinano, ma chi prevede che questo
possa succedere. L’Italia ha molti decessi perché chi la governa ha predisposto
pessime regole. Draghi, insomma, dovrebbe volgere il suo giudizio critico verso
le strategie e le regole che il suo governo e quello delle regioni (che lui
stesso ha giustamente ricordato essere parte del governo) hanno adottato. Gli
errori, le cattive decisioni, le confusioni, le ingiustizie sono di chi fa le
regole, non di chi le usa. Non scomodi dunque la coscienza di chi si vaccina
potendolo. Draghi faccia un esame critico alle decisioni del suo governo e
della filiera che da esse si dirama: sembra infatti che questo stia facendo, a
giudicare dalle recentissime decisioni di metter in sicurezza vulnerabili e
anziani. Il secondo scivolone riguarda l’infelicissima affermazione sulla
necessità che i buoni (i paesi democratici europei) hanno di far affari con i
cattivi (i «dittatori» come Recep Tayyip Erdogan). Dice Draghi che non possiamo
fare diversamente se vogliamo difendere il nostro interesse nazionale e
continentale. Lasciamo stare qui la disquisizione su quale sia la forma di
governo che meglio si addice alla Turchia, benché la scienza politica avrebbe
dubbi nell’etichettarla come “dittatura”. Quel che preme mettere in luce è
altro: il realismo amorale sul quale si regge il senso dell’interesse nazionale
e continentale delle nostre democrazie. Per le quali risulta assai conveniente
essere circondate da regimi illiberali se vogliono intrattenere con loro questo
tipo di affari: retribuirli affinché tengano i migranti fuori dalle nostre
frontiere. Se Libia e Turchia fossero democrazie liberali questo nostro
“interesse nazionale” o continentale non potrebbe essere perseguito per queste
vie. È quindi nell’interesse nostro che la Turchia o la Libia siano e restino
“dittature”, poiché ciò le rende efficaci nella negazione dei diritti umani e
quindi competenti a fare quel business che se fossero democrazie non potrebbero
fare. E dichiarandole “dittature” mettiamo la nostra coscienza in pace con sé
stessa. Loro sono il male, non noi.
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