Nell’empireo dell’”Italietta” in “orbace” c’è stata
anche la “donna”. Non tanto la “donna” portatrice di diritti e di doveri - così
almeno nelle classi sociali meno abbienti e meno acculturate, ché sono state in
definitiva quell’architrave sul quale quell’”Italietta” ha provato a sopravvivere
- quanto la “donna” ridotta a “fattrice” per la gloria dell’impero, a sostenere
ovvero, con la sua fecondità, il mito del “numero” che genera potenza. E così
ci sono state la “donna” Rachele e la “donna” Claretta accomunate, nelle ore
vite, all’ombra del “maschio” dominante. Or giunge una “donna” nuova a nome di
Giorgia. Ne ha scritto Michela Murgia in “La
doppia ipocrisia del caso Meloni”, pubblicato sul settimanale “L’Espresso”
del 28 di febbraio 2021: Vacca e scrofa. Grazie a questi due epiteti
dedicatale pubblicamente da un professore universitario, Giorgia Meloni
nell’ultima settimana ha sperimentato cosa significa vivere la contraddizione
tra due impianti culturali opposti. Il maschilismo di cui quelle parole sono
portatrici è infatti l’eredità di una cultura patriarcale che agisce sì in
tutte le ideologie, ma che solo in una rappresenta un sistema di valori;
quell’ideologia è il fascismo e, nella sua versione democraticamente
sostenibile, anche la destra conservatrice di cui Meloni è la voce più
radicale. La solidarietà contro il maschilismo e la capacità stessa di
riconoscerlo tale sono invece frutto della cultura femminista e democratica e
la leader di Fratelli d’Italia ha misurato sulla sua pelle quanto quella
cultura funzioni per te anche se appartieni a un altro ordine simbolico. È
giusto così. Il rispetto è un diritto e i diritti non vanno meritati, anzi sono
tali proprio perché vengono applicati a chi per virtù propria non li otterrebbe
mai. Per questo lo stato di diritto serve anzitutto al peggiore dei criminali;
sempre per questo la donna Giorgia, la madre che chiedeva con ferocia di
affondare la Seawatch e la cristiana che restava seduta col suo partito mentre
il parlamento approvava l’istituzione della commissione Segre contro l’odio, ha
ottenuto solidarietà anche da donne alle quali non l’ha mai mostrata, nemmeno
quando a usare epiteti misogini sono stati e continuano a essere gli uomini di
cui è fiera leader. Il femminismo però non è un’indignazione a intermittenza,
né un rigurgito di cortesia cavalleresca che fa correre in soccorso della
donzella maltrattata. È un processo di liberazione complesso e duro, in forza
del quale chiedo a Giorgia Meloni per quanto tempo vorrà ipocritamente mangiare
dai due sacchi, facendo la vittima del pensiero patriarcale quando la tocca in
prima persona, ma facendo vittime col pensiero patriarcale in regioni come
l’Umbria e le Marche, dove FdI insieme alla Lega sta promuovendo leggi a
detrimento della vita e della libertà di donne comuni che non potranno mai
difendersi con i suoi stessi strumenti di potere. In attesa della risposta, si
spera che Meloni non sia stata però l’unica a imparare qualcosa da questa
circostanza. Qualche anima bella ha forse capito quanto sia fantasiosa la
teoria secondo la quale a sinistra sarebbero tutti femministi e a destra tutti
misogini. La verità è che non esistono parti politiche amiche delle donne e
ogni provvedimento in favore della libertà femminile esiste solo grazie alla
pressione delle loro stesse lotte. Nessuno stupore quindi per la disinvoltura
sessista di Giovanni Gozzini, né per l’abbozzare maldestro di Giorgio Van
Straten, esponenti di un’accademia dominata da un muro di cravatte quasi tutte
sedicenti progressiste, ma dove la sottovalutazione intellettuale delle donne è
gridata dai numeri: 77 rettorati su 83 sono occupati da maschi. Arrivare
all’apice per le donne è difficilissimo e a denunciarlo fu tre anni fa persino
il rettore della Normale di Pisa, rivelando che ogni volta che proponeva una
collega per una promozione le insinuazioni sessuali degli uomini concorrenti
erano così violente (vacca? Scrofa?) che la candidata si sentiva costretta a
scegliere tra la carriera e la reputazione. La voce del rettore della Normale
resta un unicum: a rendere ancora così forte il sessismo è soprattutto il
silenzioso catenaccio degli uomini tra di loro. Nel collegamento video su
Meloni abbiamo osservato la stessa dinamica vista in tv poche settimane prima,
quando Alan Friedman chiamò Melania Trump con l’epiteto di escort nel silenzio
completo degli altri uomini in studio. Tra chi tace, chi ammicca e chi cerca
l’ipocrisia di un insulto meno becero, non si è ancora visto il miracolo civile
di un uomo che si assumesse la responsabilità del conflitto, spezzando il ritmo
delle gomitate tra commilitoni. Fino a quel momento, Meloni avrà la solidarietà
del presidente della Repubblica e pure la mia, ma le donne comuni continueranno
a vivere in un paese in cui la violenza delle parole è sistemica quanto quella
dei fatti. Ha scritto Gad Lerner in “Giorgia Meloni, la rimozione del buco nero” – in occasione della
pubblicazione dell’opera prima di “donna” Giorgia, “Io sono Giorgia Le mie radici, le mie idee”, Rizzoli editore –
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 22 di maggio 2021: Giorgia Meloni ha ripulito il suo
linguaggio, e non possiamo che rallegrarcene leggendo le trecento pagine della
sua autobiografia balzata in cima alle classifiche di vendita. Nella speranza
che si tratti di un cambiamento definitivo. (…). Cominciamo dal prendere sul
serio il disegno politico con cui contende alla Lega la supremazia del suo
schieramento. Ecco lo schema di gioco: “Semplificando, da una parte il Pd,
partito ‘collaborazionista’ delle ingerenze straniere, dall’altra Fratelli
d’Italia, il movimento dei patrioti. Sarà il bipolarismo dei prossimi anni in
Italia”. Chiaro, no? Lo schieramento avverso descritto in guisa di quinta
colonna dei nemici della nazione, come nei più classici schemi del populismo di
destra. Non a caso fra le espressioni più usate nel libro figura la generica
evocazione di “consorterie europee”. Ero in prima fila sotto il palco di piazza
San Giovanni, il 19 ottobre 2019, quando Giorgia Meloni sfoderò il comizio
formidabile con cui s’impose al popolo di destra, surclassando Salvini e
Berlusconi. L’ormai celebre autoritratto che ora dà il titolo al libro, “Io
sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana”, divenuto perfino
un remix musicale, ha la pretesa di trasformarsi in manifesto
politico-culturale. Quando segnalai a Repubblica, per cui allora scrivevo, il
clamoroso successo conseguito dalla Meloni, il giornale affidò a Francesco
Merlo il compito di analizzarlo. Lui la snobbò ironizzando sulla sua natura
“coatta”. Beccandosi in replica del “trinariciuto radical chic”. L’aveva
evidentemente sottovalutata, come stanno incaricandosi di dimostrare anche i
sondaggi. Incontriamola dunque nella sua veste di precocissima leader politica
(a 29 anni era già ministro di Berlusconi) – dopo l’infanzia resa complicata
dall’assenza di un pessimo padre – quando varca la soglia di via della Scrofa
per assumere “la responsabilità di una storia lunga 70 anni, ereditata da
Almirante, Rauti e Fini”. Ci aspetteremmo non trascurasse il trentennio
precedente, che aveva avuto inizio nel 1919 in piazza San Sepolcro a Milano con
la fondazione dei Fasci di combattimento. Davvero vuol farci credere che non
c’entri per nulla col suo popolo? Più vai avanti a leggere e, a parte un cenno
al “torcicollismo” da evitare, più ti rendi conto della rimozione studiata e
consapevole. La parola “fascismo” viene citata di passaggio quattro o cinque
volte nelle trecento pagine del libro. Non certo perché vi manchino i
riferimenti storici. Anzi. Giorgia Meloni, compiaciuta di festeggiare il
compleanno lo stesso giorno di Giovanna d’Arco, si dilunga su Leonida alle
Termopili, Carlo Martello a Poitiers, l’ultimo imperatore cristiano di
Costantinopoli, gli eroi veneziani della battaglia di Lepanto, e subito dopo, d’un
balzo, Jan Palach che s’immola a Praga contro l’invasione sovietica. Lasciando
però quel gran buco nero nel mezzo del Novecento. Come se non la riguardasse. Bisognerà
arrivare a pagina 248, nel capitolo sul razzismo, dopo che se l’è presa con
Rula Jebreal “scarsa, bellissima, ben inserita nell’élite finanziaria”, per
trovar citate “le camicie brune hitleriane, successivamente imitate da quelle
nere mussoliniane, poi entrambe sconfitte dai buoni (scritto in corsivo, per
concessione ironica) del mondo che fecero la guerra contro i cattivi (idem) per
combattere razzismo e totalitarismo”. Tralasciamo pure che le camicie nere
mussoliniane vennero prima, e semmai a imitarle furono i nazisti tedeschi. Una
tale descrizione della seconda guerra mondiale, in cui non si distinguono buoni
e cattivi, è propedeutica alla stoccata a Gianfranco Fini, messa lì subito dopo
senza citarlo: “Il mondo sarebbe molto più semplice se veramente esistesse il
‘male assoluto’ rappresentato dalla parentesi storica dell’ideologia nazifascista”.
Nient’altro che una parentesi, ecco cosa sarebbe il momento fondativo, non
ripudiato, del suo movimento. Dovendosi addentrare nel campo minato della
storia, se la cava così: “Non ho alcuna paura a ribadire per l’ennesima volta
di non avere il culto del fascismo”. Semmai rivendica "una ferma
ribellione nei confronti dell’antifascismo politico. Ma qui finisce il mio
rapporto col fascismo”. Ben diversa, naturalmente, è l’attenzione dedicata alla
storia del comunismo. Per giungere a sostenere che “i liberal globalisti ne
sono gli eredi”. A tal punto che “le politiche immigrazioniste hanno sostituito
le deportazioni di massa dell’epoca sovietica”. Testuale. Così l’operazione
simpatia di Giorgia Meloni aggira gli ostacoli, si dilunga nella dimensione frugale
e laboriosa della sua vita privata e della sua fede religiosa (anche se, da
cattolica “non sempre ho compreso papa Francesco”), si concede perfino il lusso
ecumenico di un paio di citazioni di Gramsci. Donna libera e moderna, pronta a
diventare il volto nuovo di Palazzo Chigi contro la sinistra “braccio politico
delle grandi concentrazioni e delle grandi multinazionali”. Facendola finita
con il linguaggio politically correct, “vangelo dell’élite apolide”. Un
sovranismo che sa d’antico, rivestito di gentilezza forzata. Purché non torni a
sbracare.
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