"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 28 maggio 2021

Notiziedalbelpaese. 13 «Le donne comuni continueranno a vivere in un paese in cui la violenza delle parole è sistemica quanto quella dei fatti».

 

Nell’empireo dell’”Italietta” in “orbace” c’è stata anche la “donna”. Non tanto la “donna” portatrice di diritti e di doveri - così almeno nelle classi sociali meno abbienti e meno acculturate, ché sono state in definitiva quell’architrave sul quale quell’”Italietta” ha provato a sopravvivere - quanto la “donna” ridotta a “fattrice” per la gloria dell’impero, a sostenere ovvero, con la sua fecondità, il mito del “numero” che genera potenza. E così ci sono state la “donna” Rachele e la “donna” Claretta accomunate, nelle ore vite, all’ombra del “maschio” dominante. Or giunge una “donna” nuova a nome di Giorgia. Ne ha scritto Michela Murgia in “La doppia ipocrisia del caso Meloni”, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 28 di febbraio 2021: Vacca e scrofa. Grazie a questi due epiteti dedicatale pubblicamente da un professore universitario, Giorgia Meloni nell’ultima settimana ha sperimentato cosa significa vivere la contraddizione tra due impianti culturali opposti. Il maschilismo di cui quelle parole sono portatrici è infatti l’eredità di una cultura patriarcale che agisce sì in tutte le ideologie, ma che solo in una rappresenta un sistema di valori; quell’ideologia è il fascismo e, nella sua versione democraticamente sostenibile, anche la destra conservatrice di cui Meloni è la voce più radicale. La solidarietà contro il maschilismo e la capacità stessa di riconoscerlo tale sono invece frutto della cultura femminista e democratica e la leader di Fratelli d’Italia ha misurato sulla sua pelle quanto quella cultura funzioni per te anche se appartieni a un altro ordine simbolico. È giusto così. Il rispetto è un diritto e i diritti non vanno meritati, anzi sono tali proprio perché vengono applicati a chi per virtù propria non li otterrebbe mai. Per questo lo stato di diritto serve anzitutto al peggiore dei criminali; sempre per questo la donna Giorgia, la madre che chiedeva con ferocia di affondare la Seawatch e la cristiana che restava seduta col suo partito mentre il parlamento approvava l’istituzione della commissione Segre contro l’odio, ha ottenuto solidarietà anche da donne alle quali non l’ha mai mostrata, nemmeno quando a usare epiteti misogini sono stati e continuano a essere gli uomini di cui è fiera leader. Il femminismo però non è un’indignazione a intermittenza, né un rigurgito di cortesia cavalleresca che fa correre in soccorso della donzella maltrattata. È un processo di liberazione complesso e duro, in forza del quale chiedo a Giorgia Meloni per quanto tempo vorrà ipocritamente mangiare dai due sacchi, facendo la vittima del pensiero patriarcale quando la tocca in prima persona, ma facendo vittime col pensiero patriarcale in regioni come l’Umbria e le Marche, dove FdI insieme alla Lega sta promuovendo leggi a detrimento della vita e della libertà di donne comuni che non potranno mai difendersi con i suoi stessi strumenti di potere. In attesa della risposta, si spera che Meloni non sia stata però l’unica a imparare qualcosa da questa circostanza. Qualche anima bella ha forse capito quanto sia fantasiosa la teoria secondo la quale a sinistra sarebbero tutti femministi e a destra tutti misogini. La verità è che non esistono parti politiche amiche delle donne e ogni provvedimento in favore della libertà femminile esiste solo grazie alla pressione delle loro stesse lotte. Nessuno stupore quindi per la disinvoltura sessista di Giovanni Gozzini, né per l’abbozzare maldestro di Giorgio Van Straten, esponenti di un’accademia dominata da un muro di cravatte quasi tutte sedicenti progressiste, ma dove la sottovalutazione intellettuale delle donne è gridata dai numeri: 77 rettorati su 83 sono occupati da maschi. Arrivare all’apice per le donne è difficilissimo e a denunciarlo fu tre anni fa persino il rettore della Normale di Pisa, rivelando che ogni volta che proponeva una collega per una promozione le insinuazioni sessuali degli uomini concorrenti erano così violente (vacca? Scrofa?) che la candidata si sentiva costretta a scegliere tra la carriera e la reputazione. La voce del rettore della Normale resta un unicum: a rendere ancora così forte il sessismo è soprattutto il silenzioso catenaccio degli uomini tra di loro. Nel collegamento video su Meloni abbiamo osservato la stessa dinamica vista in tv poche settimane prima, quando Alan Friedman chiamò Melania Trump con l’epiteto di escort nel silenzio completo degli altri uomini in studio. Tra chi tace, chi ammicca e chi cerca l’ipocrisia di un insulto meno becero, non si è ancora visto il miracolo civile di un uomo che si assumesse la responsabilità del conflitto, spezzando il ritmo delle gomitate tra commilitoni. Fino a quel momento, Meloni avrà la solidarietà del presidente della Repubblica e pure la mia, ma le donne comuni continueranno a vivere in un paese in cui la violenza delle parole è sistemica quanto quella dei fatti. Ha scritto Gad Lerner in “Giorgia Meloni, la rimozione del buco nero” – in occasione della pubblicazione dell’opera prima di “donna” Giorgia, “Io sono Giorgia Le mie radici, le mie idee”, Rizzoli editore – pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 22 di maggio 2021: Giorgia Meloni ha ripulito il suo linguaggio, e non possiamo che rallegrarcene leggendo le trecento pagine della sua autobiografia balzata in cima alle classifiche di vendita. Nella speranza che si tratti di un cambiamento definitivo. (…). Cominciamo dal prendere sul serio il disegno politico con cui contende alla Lega la supremazia del suo schieramento. Ecco lo schema di gioco: “Semplificando, da una parte il Pd, partito ‘collaborazionista’ delle ingerenze straniere, dall’altra Fratelli d’Italia, il movimento dei patrioti. Sarà il bipolarismo dei prossimi anni in Italia”. Chiaro, no? Lo schieramento avverso descritto in guisa di quinta colonna dei nemici della nazione, come nei più classici schemi del populismo di destra. Non a caso fra le espressioni più usate nel libro figura la generica evocazione di “consorterie europee”. Ero in prima fila sotto il palco di piazza San Giovanni, il 19 ottobre 2019, quando Giorgia Meloni sfoderò il comizio formidabile con cui s’impose al popolo di destra, surclassando Salvini e Berlusconi. L’ormai celebre autoritratto che ora dà il titolo al libro, “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana”, divenuto perfino un remix musicale, ha la pretesa di trasformarsi in manifesto politico-culturale. Quando segnalai a Repubblica, per cui allora scrivevo, il clamoroso successo conseguito dalla Meloni, il giornale affidò a Francesco Merlo il compito di analizzarlo. Lui la snobbò ironizzando sulla sua natura “coatta”. Beccandosi in replica del “trinariciuto radical chic”. L’aveva evidentemente sottovalutata, come stanno incaricandosi di dimostrare anche i sondaggi. Incontriamola dunque nella sua veste di precocissima leader politica (a 29 anni era già ministro di Berlusconi) – dopo l’infanzia resa complicata dall’assenza di un pessimo padre – quando varca la soglia di via della Scrofa per assumere “la responsabilità di una storia lunga 70 anni, ereditata da Almirante, Rauti e Fini”. Ci aspetteremmo non trascurasse il trentennio precedente, che aveva avuto inizio nel 1919 in piazza San Sepolcro a Milano con la fondazione dei Fasci di combattimento. Davvero vuol farci credere che non c’entri per nulla col suo popolo? Più vai avanti a leggere e, a parte un cenno al “torcicollismo” da evitare, più ti rendi conto della rimozione studiata e consapevole. La parola “fascismo” viene citata di passaggio quattro o cinque volte nelle trecento pagine del libro. Non certo perché vi manchino i riferimenti storici. Anzi. Giorgia Meloni, compiaciuta di festeggiare il compleanno lo stesso giorno di Giovanna d’Arco, si dilunga su Leonida alle Termopili, Carlo Martello a Poitiers, l’ultimo imperatore cristiano di Costantinopoli, gli eroi veneziani della battaglia di Lepanto, e subito dopo, d’un balzo, Jan Palach che s’immola a Praga contro l’invasione sovietica. Lasciando però quel gran buco nero nel mezzo del Novecento. Come se non la riguardasse. Bisognerà arrivare a pagina 248, nel capitolo sul razzismo, dopo che se l’è presa con Rula Jebreal “scarsa, bellissima, ben inserita nell’élite finanziaria”, per trovar citate “le camicie brune hitleriane, successivamente imitate da quelle nere mussoliniane, poi entrambe sconfitte dai buoni (scritto in corsivo, per concessione ironica) del mondo che fecero la guerra contro i cattivi (idem) per combattere razzismo e totalitarismo”. Tralasciamo pure che le camicie nere mussoliniane vennero prima, e semmai a imitarle furono i nazisti tedeschi. Una tale descrizione della seconda guerra mondiale, in cui non si distinguono buoni e cattivi, è propedeutica alla stoccata a Gianfranco Fini, messa lì subito dopo senza citarlo: “Il mondo sarebbe molto più semplice se veramente esistesse il ‘male assoluto’ rappresentato dalla parentesi storica dell’ideologia nazifascista”. Nient’altro che una parentesi, ecco cosa sarebbe il momento fondativo, non ripudiato, del suo movimento. Dovendosi addentrare nel campo minato della storia, se la cava così: “Non ho alcuna paura a ribadire per l’ennesima volta di non avere il culto del fascismo”. Semmai rivendica "una ferma ribellione nei confronti dell’antifascismo politico. Ma qui finisce il mio rapporto col fascismo”. Ben diversa, naturalmente, è l’attenzione dedicata alla storia del comunismo. Per giungere a sostenere che “i liberal globalisti ne sono gli eredi”. A tal punto che “le politiche immigrazioniste hanno sostituito le deportazioni di massa dell’epoca sovietica”. Testuale. Così l’operazione simpatia di Giorgia Meloni aggira gli ostacoli, si dilunga nella dimensione frugale e laboriosa della sua vita privata e della sua fede religiosa (anche se, da cattolica “non sempre ho compreso papa Francesco”), si concede perfino il lusso ecumenico di un paio di citazioni di Gramsci. Donna libera e moderna, pronta a diventare il volto nuovo di Palazzo Chigi contro la sinistra “braccio politico delle grandi concentrazioni e delle grandi multinazionali”. Facendola finita con il linguaggio politically correct, “vangelo dell’élite apolide”. Un sovranismo che sa d’antico, rivestito di gentilezza forzata. Purché non torni a sbracare.

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