Hanno scritto una “lettera aperta” sui
quotidiani italiani i Medici di Firenze, lettera riportata su “il Fatto Quotidiano”
- “Qui dentro si muore, fuori si ride e
si beve. E noi non sappiamo più che cosa dire” – del 27 di aprile 2021: È quasi notte ma le tapparelle della
finestra rimangono a mezza altezza. Stiamo cercando di salvare una donna di 50
anni, ha avuto una crisi. Non riesce più a respirare. Le infiliamo il tubo
lungo la trachea per farle arrivare l’ossigeno. Dopo ore la visiera è appannata
per il sudore, ma non possiamo sbagliare nessuna manovra. Ha il petto scoperto,
le rimettiamo gli elettrodi. Osserviamo le luci verdi dell’elettrocardiogramma.
Il Covid e la polmonite le stanno togliendo la vita. Passa mezz’ora e ci chiama
sua figlia da casa, vuole sapere come sta». «Non possiamo mentire, ma non
abbiamo una risposta, lei continua a chiedere. Rimane in attesa ed è un lungo
silenzio che fa male al cuore. Nel corridoio ci sono poche luci accese, si
sentono le sirene di un’ambulanza mentre si sta fermando davanti al pronto
soccorso. Ci guardiamo attorno, le stanze sono tutte piene. Dovrà restare in
attesa. C’è un’altra crisi cardiaca nella camera 3, due infermieri avvolti
nella plastica blu corrono a dare una mano. In fondo al corridoio qualcuno ha
acceso il televisore. Vediamo le piazze stracolme di ragazzi e manifestanti,
mascherine abbassate, bottiglie in mano, resse. Grandi risate. Arriva un’altra
ambulanza. Questa volta si è liberato un posto letto, un decesso nella stanza
11. Si ricomincia». «Diteci voi cosa dobbiamo fare. Qualcuno ci indichi la
strada, perché come medici abbiamo sempre lavorato per curare una società che
non vuole ammalarsi, che si rivolge ai professionisti perché ha paura di
soffrire, di perdere i propri cari. È chiaro che ora le priorità sono cambiate
o non si spiegherebbero le folle per le strade. La tutela della salute è uno
dei pilastri della nostra Costituzione, ma quel principio sembra essere
confinato solo nei reparti ospedalieri. Diteci cosa rispondere alle famiglie
che ci chiamano, agli anziani rimasti soli che guardano fuori dalla finestra.
Noi le parole le abbiamo finite. Ha scritto oggi, lunedì 3 di maggio
2021, Ezio Mauro in “La libertà è
garanzia di non essere esclusi”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”,
che “adesso
ogni pezzo di società presenta i suoi conti particolari, il dare e l'avere, e
fa un confronto naturale con gli altri gruppi concorrenti. Nel Paese delle
corporazioni, ogni interesse organizzato misura ciò che ha perso in assoluto
con la pandemia, e ciò che ha ceduto rispetto agli altri. Il sentimento
nazionale, com'era prevedibile, si frantuma in una serie di risentimenti
privati”. È quel “punto di rottura” che inevitabilmente si percepisce
anche dalla lettera dei Medici di Firenze. È quel “borborigma” intuito – del quale
ho già scritto - proveniente dalla “pancia” del bel paese e del quale mi pervengono
ancor più rafforzati sinistri segnali. Ha scritto Ezio Mauro: Siamo
entrati nella pandemia tutti uguali davanti alla minaccia, rischiamo di uscirne
profondamente divisi. Improvvisamente, ci accorgiamo che è finita la fase in
cui ci sentivamo affratellati dall'unico assedio universale del virus, esposti
allo stesso male, disarmati dalla medesima fragilità inedita di fronte al
contagio. Tutti esposti, senza distinzioni e senza riserve: tutti candidati. La
coscienza comune di condividere con gli altri la stessa condizione è stata per
lunghi mesi alla base della coesione sociale del Paese e dell'assoggettamento
volontario dei cittadini alle misure di necessità decise dai governi, anche se
comportavano una limitazione dell'autonomia individuale, degli spazi, dei
movimenti e delle relazioni. (…). Questo insieme si è spezzato. In parte era
prevedibile, perché la tensione dell'emergenza regge per la fase più acuta, poi
si allenta. Non si può vivere psicologicamente in uno stato d'eccezione
permanente. E materialmente, non si può sopravvivere in eterno nell'auto-ricatto
della necessità. Il tempo dunque ha fatto il suo lavoro, convincendoci che il
virus può durare più a lungo della nostra subordinazione alla paura. L'arrivo
dei vaccini, il contenimento relativo del contagio e dei decessi hanno riaperto
una prospettiva concreta. L'avvicinarsi dell'estate ha fatto il resto. Ma
appena un'intera comunità nazionale sotto scacco rialza la testa e torna a
ipotecare il domani, rinascono inevitabilmente le differenze e si fa il calcolo
delle disuguaglianze. Il virus ci ha abituati a cercare ogni sera nei numeri
dell'infezione un saldo complessivo, totale, della sfida in atto. Adesso ogni
pezzo di società presenta i suoi conti particolari, il dare e l'avere, e fa un
confronto naturale con gli altri gruppi concorrenti. Nel Paese delle
corporazioni, ogni interesse organizzato misura ciò che ha perso in assoluto
con la pandemia, e ciò che ha ceduto rispetto agli altri. Il sentimento
nazionale, com'era prevedibile, si frantuma in una serie di risentimenti
privati. Il punto di rottura naturalmente è il lavoro, perché è la condizione
umana più scoperta e vulnerabile subito dopo la salute. Da un lato si è esposto
nella fase più acuta dell'infezione, per garantire materialmente la
sopravvivenza del sistema, con la schiera dei lavoratori
"strumentali" che rischiavano il contagio per consentire al resto
della cittadinanza di proteggersi dal male: quindi il lavoro come bene
indispensabile e addirittura come strumento solidale. Dall'altro lato la
contrazione inevitabile del mercato ha penalizzato la produzione e l'impresa
cancellando posti di lavoro, le misure di difesa hanno fermato l'universo
diffuso del piccolo commercio, delle aziende familiari, della ristorazione,
degli alberghi. È soprattutto questo mondo che si è sentito soffocare e che
oggi reagisce cercando di sottrarsi alla regola comune di precauzione. Il
fenomeno nasce da un disagio di categoria, ma chiama in causa questioni più
generali. La prima è il rapporto tra salute e lavoro, che va affrontato anche
in termini di principio, perché è un tema antico che la modernità torna a
riproporre con urgenza, a cominciare dall'Ilva. Poi c'è la necessità di capire
che nel profondo della crisi il lavoro sta ancora una volta reinventando se
stesso, a partire dallo smart working, e cambia sotto i nostri occhi la sua
morfologia e la sua organizzazione. Infine bisogna considerare che se dalla
pandemia uscirà una nuova interpretazione del progresso, questa riguarderà
inevitabilmente anche una diversa relazione tra capitale e lavoro: siamo quindi
sulla soglia di una reinvenzione virale del lavoro, che per forza di cose
comporterà una riconsiderazione del rapporto tra lavoro e diritti, e quindi una
reinvenzione della democrazia. La protesta di piazza per le riaperture e contro
il coprifuoco, infatti, non può essere letta soltanto in chiave corporativa. In
realtà è lo smottamento di un pezzo rilevante del ceto medio instabile che si
sente penalizzato nelle strette della pandemia rispetto al reddito fisso del
dipendente statale, chiede tutela ma soprattutto riconoscimento sociale, nel
timore di perdere con il lavoro anche un ruolo collettivo e una proiezione di
futuro. Dopo la Grande guerra, di fronte alla massa dei reduci sbandati,
spostati, trascurati e senza lavoro, l'ordinovista Angelo Tasca usò il termine
di "fuori classe". Ecco, oggi si sta formando
una classe di "fuori classe", che si sentono dimenticati, esclusi,
tagliati fuori, ribelli a tutto: proprio nel momento in cui la
stratificazione sociale del Paese si scompone, si aprono i cancelli dei ceti
sociali, saltano le appartenenze culturali e le identificazioni tradizionali. Da
tempo il sovranismo nazional-populista è alla ricerca di una classe di
riferimento e di sostegno. Può trovarla in questo pezzo di piccola borghesia in
cerca di rivincita sociale, in questo mondo del lavoro che misura
quotidianamente la sua crisi ed è già un soggetto politico anonimo soffocato
nel misconoscimento, mentre si sta inabissando tra gli sconfitti, ribellandosi.
La trasposizione politica e ideologica, da parte della destra estrema, del mix
di interessi risentiti e propositi frustrati di questa massa in movimento è in
corso, all'insegna del concetto di "libertà". (…). Per un'ora di
coprifuoco in più, a termine, il governo viene così schiacciato sul dogma della
regola, vissuta come un'imposizione, presentata come un abuso, denunciata come
un vincolo di soggezione invece che una misura di tutela. È presentandosi come
il nemico di tutto questo che il sovranismo chiama ad una battaglia "di
libertà" - come se ci fosse qualcuno contrario alla libertà e al ritorno
alla normalità - scaricando l'onere scomodo della sicurezza sulle spalle
altrui, e proponendosi come vendicatore del ceto medio minuto e abbandonato,
trasformato nel nuovo Dio sconosciuto d'Italia. Governo e sinistra dovrebbero
rispondere con un'operazione politica, sociale e culturale, intercettando
concretamente lo sbandamento dei ceti disarcionati dalla crisi, e dimostrando
che il lavoro e non solo i fondi europei sono la leva del piano di
ricostruzione dell'Italia. Per spiegare, poi, che la vera libertà è garanzia,
costruzione della sicurezza, emancipazione dal risentimento e dalla paura, ma
anche dall'egoismo: è la responsabilità di agire individualmente ma in un
sistema sociale, dove si decide in autonomia ma secondo la legge, scritta
guardando all'interesse generale e al bene comune. Le false libertà, le libertà
sterili, sono le altre: quelle che non puntano a un cittadino che dispiega
autonomamente le sue facoltà e i suoi diritti, ma a un individuo che si sente
libero perché liberato da ogni vincolo nei confronti degli altri e della
società. Libero di pensare soltanto a se stesso, rinunciando ad agire come un
animale sociale.
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