Tratto da “I
dilemmi della Realpolitik. Una sovranità sovranazionale che coniughi ideale e
reale” di Roberta De Monticelli, pubblicato sul quotidiano “Domani” del 17
di aprile 2021: (…). In una riflessione (…) incisiva, sempre su questo giornale
(13.04.21), Nadia Urbinati riprende lo spunto, aggiungendo al pronunciamento di
Draghi sulla dittatura turca il suo rimbrotto tutto domestico ai salta-fila
delle vaccinazioni. Qui però l’indicazione sembra andare nella direzione
inversa: qui l’ideale, dunque la coscienza che ne è smossa, non c’entrano
nulla, sostiene l’autrice. Quello che è in questione qui sono le norme. Violare
le norme non è un affare di coscienza, ma un affare di legge. E seguirle pure.
Se sono sbagliate, è con le norme e chi le ha fatte, non con le coscienze che
bisogna prendersela. Questo getta una luce inquietante anche sulla «franchezza»
con cui il premer ritiene giusto «esprimere la propria diversità di vedute»
rispetto alla «dittatura» turca. Così – conclude Urbinati – non si fa che
mettere «la nostra coscienza in pace con sé stessa. Loro sono il male, non
noi». Insomma, (…). …il linguaggio degli ideali ci fa una brutta figura: (…) perché
è un linguaggio comunque fuori posto: o copre le manchevolezze del legislatore,
o pacifica la “nostra” cattiva coscienza, esportando su altri la colpa. Le
parole alimentano non una fede ma la malafede. L’idealità è ridotta all’ideologia.
La lingua dell’idealità. Vorrei spezzare una lancia in favore del linguaggio
dell’idealità (che non è quello dell’ideologia), soprattutto quando, anche a
costo di far storcere il naso ai politologi, dice pane al pane: e forse il pane
non è soltanto l’autocrate turco, ma anche chi non vede l’ora di approfittare
dei varchi interpretativi che sempre e per definizione anche la migliore
normativa lascia aperti alla furbizia, come sa chiunque conosca il regresso
all’infinito cui conduce il tentativo di chiuderli. Senza voler difendere
l’indifendibile, cioè il caos delle normative italiane e non solo quelle sulla
vaccinazione, vorrei far notare che a causarlo è precisamente il disprezzo
dello “spirito delle leggi”, cioè dell’idea stessa che esista per le norme un
fondamento di valore o di senso indipendente dalla volontà (politica) del
legislatore, che questi può assecondare o snaturare. In altre parole, è un
difetto e non un eccesso di attenzione alla giurisdizione della coscienza e
alla luce dell’ideale, quello che produce malafede e ideologia: anche da parte
del legislatore (politico), e del suo tecnico (il giurista). Realpolitik e
positivismo giuridico hanno causato troppi disastri nella storia moderna per
non tenerne conto. È vero: il «primato di alcune verità» va affermato non solo
in teoria ma anche in pratica (Cuperlo). La questione è come: è qui che un
piccolo supplemento di filosofia può forse non essere inutile a illuminare la
via, quella di aumentare la forza del diritto e quindi delle istituzioni
sovranazionali (compresa l’Unione europea), diminuendo in proporzione il potere
di ricatto degli autocrati sugli interessi nazionali. Da sempre, o almeno
dall’Atene di Pericle, il governo arbitrario “dell’uomo” si distingue dal
governo “della legge”, come la sovranità politica, qualunque sia la sua fonte,
si distingue dalla tirannia. Da sempre l’esercizio del potere politico cerca la
giustificazione e il fondamento del diritto per distinguersi come potere
legittimo dal potere nudo, che coincide al limite con il bruto esercizio della
forza. In questo senso, però, diritto e potere politico sono due facce della
stessa medaglia, come limpidamente chiarì Norberto Bobbio nel suo Diritto e
potere (1992). Diciamo che dal punto di vista ideale viene prima il diritto e
poi il potere, perché il diritto è ciò che distingue il potere legittimo dal
potere nudo, la sovranità “valida” dal dominio di fatto e l’ordine civile dalla
guerra, esterna o interna. Ma dal punto di vista reale e “realista” viene prima
il potere e poi il diritto, perché un ordinamento giuridico esiste soltanto se
esiste a suo fondamento un potere capace di tenerlo in vita e di conferirgli
efficacia. Però: la verità che noi cogliamo nei momenti (rari) di speranza o
addirittura entusiasmo civile è che qualunque sia l’ordinamento giuridico in
questione, chi esercita il potere legittimo in qualunque delle sue forme va
veramente nella direzione di un esercizio del potere a nome del diritto solo se
questo potere lo esercita nel senso dello “spirito” delle leggi e non soltanto
della loro lettera. Il passaggio è: dalla norma al valore che la fonda. Se cioè
sa cogliere, approfondire e anche attuare, se necessario suscitando
l’istituzione di leggi migliori, il valore per realizzare almeno in parte il
quale le leggi e gli ordinamenti giuridici umani accampano di esistere. E qui è
sempre una questione di scoprire cose nuove rispetto alla lettera della legge,
perché è nella natura dei valori di avere contenuti inesauribili, che volta a
volta l’esperienza umana rende visibili, o di cui fa sentire il grido. Un
apologo. Un apologo concluderà questo ragionamento. “Mai più guerra” è il grido
che risuona alla fine della Prima guerra mondiale, con una forza mai percepita
prima. Teoricamente la possibilità era stata evocata un secolo e mezzo prima
(Kant, Sulla pace perpetua). Ma solo “ora” sembra alla portata del potere
umano. Una nuova configurazione della sovranità, senza cui l’esercizio del
potere è arbitrario: nuovi vincoli normativi. Una federazione mondiale di
repubbliche, una nuova configurazione della civiltà. Eppure Woodrow Wilson, che
aveva suscitato un’onda di entusiasmo mai vista prima, non riesce a imporre una
pace “a nome del diritto”: il mondo soggiace alla catastrofica pace di
Versailles, prodromo di nuove tragedie. Non certo perché Wilson non parlasse il
linguaggio dell’ideale! Ma perché nessuno allora seppe puntare la sua luce sul
reale, abbastanza da scoprire come salire un passo nella “via all’insù” che in
politica è legata a filo doppio con la “via all’ingiù”, come l’anima alla carne
che la sorregge. Forse questa «ambiguità che pesa come un macigno» (Cuperlo)
non riguarda solo l’occidente. È l’antinomia pratica: bisogna mangiare per
salvare gli affamati, disporre di un potere sufficiente per agire bene. In politica,
occorre individuare l’elemento normativo che corrisponde al “nuovo grido”.
Draghi ben lo conosce ormai, (…): una vera sovranità sovranazionale, una nuova
configurazione di civiltà, basata su una nuova configurazione del potere. Una
opportunità mai vista prima si presenta oggi di instradare la politica reale
sulla “via all’insù”. Perché ancora non accade? Se non ora, quando?
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