"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 3 luglio 2020

Cosedaleggere. 52 «Il virus è imparziale, ma noi siamo disuguali».


Tratto da “La seconda infezione” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 23 di aprile 2020:
(…). …la prima spinta della crisi pandemica fa precipitare un pezzo di Paese dalla precarietà alla povertà. Anzi, le due condizioni sono più che mai intrecciate. Avevamo accettato per forza di cose il precariato come nuova forma del proletariato, cambiando la morfologia del lavoro, con i padri che uscivano giovani dalla produzione attiva, i ragazzi che vi entravano tardi, una fetta di lavoratori occupati ridotta, una generazione o quasi espulsa in alto, un’altra in basso che si preparava a un domani in cui non avrebbe mai conosciuto la pensione. Oggi il blocco della produzione allarga l’incertezza e l’incognita sul domani a una parte di popolazione che fino a ieri si considerava ceto produttivo, perché aveva un mestiere in mano e un impiego. L’insicurezza dell’occupazione per i dipendenti, il calcolo del lavoro perduto per le piccole attività in proprio, le incognite sulla ripartenza per tutte le aziende restringono l’orizzonte delle famiglie. Riducendosi il reddito, che diviene anch’esso precario, si restringeranno i consumi, e la spirale di impoverimento minaccia di avvitarsi sul Paese. Tre cifre danno una prima dimensione del fenomeno. Nei primi sei mesi dell’anno il Pil segna una riduzione del 15 per cento, un livello da economia di guerra, che potrebbe portare a fine 2020 a un calo tra il 7 e il 9 per cento del reddito nazionale. Allo Stato nei conti di fine anno mancheranno 26 miliardi di gettito fiscale, mentre i Comuni nel solo mese di marzo hanno perso 600 milioni in tributi ed entrate tariffarie. Le domande per la cassa integrazione ordinaria sono arrivate a quota 2,9 milioni, mentre un milione e settecentomila lavoratori hanno chiesto l’assegno previsto per questa emergenza per i dipendenti di aziende non ammesse alla Cassa. È una situazione comune a tutte le economie sviluppate, con l’ultimo rapporto Oxfam che prevede mezzo miliardo di poveri in più nel mondo, e un salto indietro di trent’anni nella lotta contro l’indigenza assoluta. In Italia le stime parlano di 10 milioni di possibili nuovi poveri, che dal lockdown non hanno più ricevuto lo stipendio e non sanno se lo riceveranno alla riapertura, e sono in coda davanti alla burocrazia per gli ammortizzatori sociali, che dovrebbero servire per l’immediato. Ma fuori dai calcoli, parlano chiaro le code senza distanziamento davanti all’insegna del Monte dei Pegni, il boom delle chiamate alle organizzazioni caritatevoli per i pacchi alimentari, le file alle mense dei poveri, le risposte rivelatrici degli italiani all’ultimo sondaggio Demos-Unipolis: il 91 per cento è pronto a barattare quote di libertà in cambio di quote di sicurezza davanti a una pandemia che per la grande maggioranza durerà mesi, il 47 per cento ha sospeso la sua attività di lavoro o lavora a casa,il 96 per cento evita di uscire. Ma poi le paure prendono corpo, e tutte riguardano lo spettro dell’impoverimento. Il 53 per cento infatti è preoccupato per il futuro dei figli, il 44 per la perdita del lavoro, il 42 per il rischio di non avere la pensione, il 38 per il timore di perdere i risparmi, mentre il 39 per cento confessa apertamente l’angoscia «di non avere abbastanza soldi per vivere». È la nuova infezione della povertà, la soglia sotto la quale si sta inabissando proprio in questi giorni una parte d’Italia. Ma oltre al reddito c’è un altro indicatore dell’impoverimento sociale, ed è il livello delle disuguaglianze. La ri-proletarizzazione in corso di una parte del ceto produttivo e l’impatto della pandemia agiscono sulle differenze sociali tramutandole in sperequazioni, e tutto questo preme sulle disparità esistenti, precipitandole in uno scompenso generale. Se va in crisi il lavoro “bianco”, regolare, chiediamoci cosa succede ai 4,2 milioni di persone che al Sud campano arrangiandosi con il lavoro nero. Se l’emergenza sanitaria va in tilt per l’assalto del coronavirus, pensiamo ai malati con altre patologie, al ritmo alterato delle chemioterapie e delle visite di controllo, alle liste d’attesa che da ordinarie diventano straordinarie. Riflettiamo sulla paura del virus nelle carceri italiane, affollate al punto da contare 121,75 detenuti ogni 100 posti regolari, e con già 94 contagiati in cella, più 204 agenti. Ragioniamo sui migranti irregolari, cavie-fantasma nelle baraccopoli illegali che li espongono all’infezione. Non dimentichiamo i 50 mila senzatetto, nelle mani dei medici volontari che vanno a cercarli negli ingressi delle banche dove dormono, per misurare la febbre di notte. E infine, riemergendo oltre la soglia di povertà, buchiamo l’illusione della scuola telematica uguale per tutti, con un terzo delle famiglie che non ha il computer a casa, e il Sud che sta peggio. Il virus è imparziale, ma noi siamo disuguali: e la pandemia accentua i nostri ritardi. È questo squilibrio che interpella la politica, perché fa parte dell’emergenza. Con un solo punto all’attivo del nostro Paese, oltre alla generosità di chi lavora per salvare gli altri: il welfare, strumento di civiltà, che andrà sottratto alla logica di mercato.

1 commento:

  1. "In natura tutto tende all'equilibrio, in società tutto si muove per accentuare le differenze" (Toras Mithrandir).

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