La “memoria” di oggi risale al
mercoledì 7 di dicembre dell’anno 2011. Ci aveva pensato l’Europa a
disarcionare l’indomito “cavaliere d’Arcore”, ché la “brava gente” degli
italiani se lo sarebbe coccolato per un altro quindicennio ancora.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
giovedì 31 ottobre 2019
mercoledì 30 ottobre 2019
Strettamentepersonale. 23 «Le galline pensierose».
Quadro primo. “Una gallina un po’ incerta”. Una gallina un po’ incerta andava in giro per l’aia brontolando: - Chi
sono io? Chi sono io?- Le compagne si preoccuparono perché pensavano che fosse
diventata matta, finché un giorno una le rispose: - Una cogliona -. La gallina
un po’ incerta da quel giorno smise di vaneggiare. “
Quadro secondo. “Una gallina sapiente”. Una gallina sapiente voleva insegnare alle compagne a contare e a fare
le addizioni. Su un muro del pollaio scrisse i numeri da 1 a 9 e spiegò che mettendoli
insieme se ne potevano ricavare altri più grandi. Per insegnare le addizioni
scrisse su un altro muro: 1 + 1=11; 2 + 2=22; 3 + 3=33 e così via fino a 9 +
9=99. Le galline impararono le addizioni e le trovarono molto convenienti.
martedì 29 ottobre 2019
Cosedaleggere. 12 «Il nostro nido è il mondo e vi domina una nidiata di imbrattatori».
Tratto da “Giovani
Chisciotte crescono” di Erri De Luca, pubblicato sul settimanale “Robinson”
del quotidiano la Repubblica del 26 di ottobre 2019: (…). La legalità può stabilire
con una maggioranza parlamentare di incriminare per favoreggiamento
all’immigrazione clandestina il pescatore che tira a bordo e salva
dall’annegamento un naufrago nel Mediterraneo. È esistita questa legge, con il
pieno sigillo della legalità. Resta però contraria al sentimento di giustizia.
Salvare una persona in pericolo di vita non è solo un diritto naturale ma è
anche un obbligo. Altrimenti si omette soccorso, reato imperdonabile dalla
propria coscienza. (…). Sento arrivare un’epoca di nuova gioventù che ha
urgenza di trovare un nuovo equilibrio (…). Un verso del poeta latino Virgilio
dichiara questo paradosso: ”La sola salvezza per i vinti è non sperare in
nessuna salvezza”. Strano pensiero affidare la salvezza alla disperazione. Sono
stato a bordo di una nave di Medici Senza Frontiere che nel Mediterraneo
scippava dal naufragio persone in pericolo di vita. Traversavano il mare
dall’Africa all’Italia su canotti sovraccarichi e scadenti. In quelle settimane
ho visto salire a bordo più di ottocento persone, tra queste delle madri con
figli in braccio. L’istinto di protezione materna è il più forte impulso
naturale. Allora cosa era più potente per spingere una madre a mettere in
pericolo grave la vita di suo figlio? La risposta appartiene al verso di
Virgilio: non sperare in alcuna salvezza. La disperazione è la più potente
forza motrice delle emigrazioni, perciò affronta qualunque rischio e non si fa
respingere da nessun ostacolo. A bordo di una nave soccorso nel Mediterraneo ho
conosciuto la verità sulle ragioni di chi si stacca, come l’eroe di Virgilio,
dalla sua città in fiamme. L’Europa dopo l’ultima guerra, la più catastrofica
della sua storia, ha fatto la scelta di scongiurare il ritorno di altri scontri
tra nazionalismi. Ha costituito una unione di stati e di popoli rimuovendo le
frontiere interne. Oggi esiste una generazione nata e cresciuta dentro
quest’area geografica comune. I suoi titoli di studio valgono in ogni paese
membro, le sue monete anche. I giovani di Europa sono liberi di andare a
cercare ovunque nel suo spazio la migliore occasione per farsi valere. Questa
gioventù si manifesta senza simboli religiosi perché li contiene tutti. Non si
lascia dividere in schieramenti. Si occupa di mondo per fondare una nuova
alleanza col pianeta. Le sue ragioni e urgenze di riparare torti e guasti a
danno della terra non possono essere smentite. Possono essere ignorate da
poteri attuali ma sono ragioni e urgenze insuperabili. Un personaggio della letteratura
spagnola, Chisciotte, si batte da solo contro le ingiustizie e viene
continuamente sconfitto. La sua grandezza consiste nel rimettersi in piedi ogni
volta per affrontare una nuova impresa, sempre in inferiorità numerica. Così è
alla lettera invincibile, non può essere vinto una volta per tutte.
lunedì 28 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 63 «Fascista è chi il fascista fa».
Questa “letturadeigiornipassati” ha anticipato di
un anno giusto quella che sarebbe stata ed è stata la vittoria delle destre in
Umbria. Poiché è fuor di ogni ragionevole dubbio che gli italiani “brava gente”
aspirino ad avere un conductor che risolva loro tutti i problemi, senza
sfacchinar troppo. Lo si diceva per l’appunto anche nel post del 26 ultimo – “Il pericolo siamo noi” – come dato
sociologico ed antropologico di questa “deriva” che è propria del sentire degli
italiani “brava gente”. Sarà un florilegio da domani in poi ascoltare i soloni della televisione per
cercare di capire il come ed il perché, quando è proprio la Storia che ce lo
spiattella quel tratto di ricercata inconsapevolezza propria dei popoli adusi a
cercare l’uomo della bacchetta magica. Sappiam bene come vanno a finire simile
(dis)avventure. Oggi non ci rimane che sia il corso delle cose a darci la cifra
e la giusta chiave di lettura delle vicende odierne. Ha scritto Sergio Luzzatto in
“Paura odio vanità: Mussolini fa rima con Salvini”, pubblicato sul
settimanale L’Espresso del 28 di ottobre dell’anno 2018: «Fascista è chi il fascista fa»,
dice un anonimo maschio - «come direbbe Forrest Gump», spiega l’autrice - dal
disegno di copertina di “Istruzioni per
diventare fascisti” . Ed è il primo dei due messaggi importanti lanciati da
Michela Murgia in questo libriccino prezioso, preziosissimo: più ancora che un
contenuto, il fascismo è un metodo. Lo è sempre stato, fin da quando Benito
Mussolini lo inventò, proprio cento anni fa, nell’Italia del primo dopoguerra.
Il fascismo è il metodo di chi fa lotta politica non già combattendo un
anniversario, ma costruendo un nemico. È il metodo
di chi
sa mascherare una realtà verticale in illusione orizzontale, di chi sa
travestire il comando dall’alto in investitura dal basso, e la distanza del
potere in comunione dei corpi. È il metodo di chi parla come mangia, e mangia
con le mani come picchia con la lingua, perché sa che la politica resta, in
ogni caso, potere dell’uomo sull’uomo (ancora di più, potere dell’uomo sulla
donna).
domenica 27 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 62 «Insegnanti efficaci».
Faccio
precedere - straordinariamente - “La
personalità dei professori” di Umberto Galimberti, pubblicato sul
settimanale “D” del quotidiano la Repubblica del 27 di ottobre dell’anno 2012, da
una bella “paginetta”
proposta oggi in lettura ed alla giusta riflessione tratta dal volume “Insegnanti efficaci” di Thomas Gordon.
La “paginetta” pone al centro di ogni discorso educativo l’incontestabile
primato che nella dolce e faticosa “arte dell’educare” spetta all’attenzione che porrà l’educatore
più motivato nell’intrecciare e sviluppare i suoi rapporti personali con i
giovani affidatigli. È dalla natura corretta e spesso non lineare di questo
rapporto che l’Autore ne fa discendere anche il conseguimento dei migliori risultati
nell’impegno scolastico: (…). … insegnare può essere anche molto
frustrante e deludente (…). Cos’è allora che rende diverso l’insegnamento che
funziona da quello che fallisce e l’insegnamento che procura soddisfazioni da
quello che invece provoca solo stress? C’è un fattore che influisce in
maniera rilevante sul risultato finale ed è il grado di capacità
dell’insegnante nello stabilire un determinato rapporto con gli studenti.
È proprio
la qualità di questo rapporto che è importante; ancor più di ciò che si sta
insegnando, è determinante il modo in cui l’insegnamento viene impartito.
Nei
rapporti interpersonali il dialogo può essere sia costruttivo che distruttivo, esso
può distaccare l’insegnante dagli studenti oppure creare uno stretto legame tra
loro.
sabato 26 ottobre 2019
Memoriae. 13 «Il pericolo siamo noi».
La “memoria” di seguito riportata
risale al 24 di settembre dell’anno 2008. Non si erano materializzati ancora sulla
scena politica del bel paese né il governo della “rottamazione” né tantomeno il
governo del “cambiamento”. La “memoria” principia con un brevissimo “incipit”
tratto dal quotidiano l’Unità del 12 di agosto di quell’anno, poiché il
glorioso quotidiano che fu creatura di Antonio Gramsci era solito riportare in
bella evidenza gli “incipit” interessanti – come per tantissime altre citazioni
– nella cosiddetta “striscia rossa”: Neri
Marcorè sulla “caccia al nero” nelle spiagge di Pedaso e Porto San Giorgio:
«È
come se l’intolleranza si fosse istituzionalizzata, chiunque si sente superiore
al senegalese, al somalo, al pakistano, e persino all’italiano che si ribella a
tutto ciò. Certi gesti indefinibili compiuti da ministri della Repubblica, che
non vengono deprecati, puniti, autorizzano i cittadini a comportarsi allo
stesso modo. Quando i comportamenti sono negativi i risultati sono
l’innalzamento della brutalità, della barbarie». A distanza di dieci
anni abbiamo rivissuto quanto l’attore denunciava in quel settembre 2008. Cosa concluderne?
Che in fondo quella “brava gente” degli italiani quel “vizietto” lì lo possiede
e ne fa uso e consumo nelle epoche storico-politiche più impensabili. In fondo
quel “capitano” lì conosce sin troppo bene l’indole di quella “brava gente”. Che
a tutt’oggi gli riconosce, con sonanti consensi, d’essere da quel “capitano”
ben rappresentati. Trascrivo il resto della “memoria”: Riporto di seguito l’intervista che Maria Serena Palieri ha raccolto
dal sociologo inglese Anthony Giddens e che è stata pubblicata sul quotidiano
l’Unità. L’intervista ha per titolo “Il pericolo siamo noi” e rappresenta una
riflessione a tutto campo da parte dell’illustre studioso. Con essa si
sottolinea come il ricorso alla paura collettiva sia stato uno strumento valido
in tutte le epoche per calamitare il consenso popolare, ed in pari tempo essa
ha rappresentato sempre e rappresenta tuttora uno specchietto per le allodole
al fine di deviare l’attenzione e la consapevolezza sociale da problemi molto
più pressanti e gravidi di tragiche conseguenze. Lo studioso inglese punta la
sua attenzione soprattutto sui drammatici problemi ecologici che sono giunti
oramai ad un punto di non ritorno, almeno per quanto riguarda lo sfruttamento
estremo delle risorse energetiche fossili. La sua onestà intellettuale lo
spinge ad accennare alle contrapposte scuole di pensiero nell’ambito delle infinite
discussioni sulle prospettive del pianeta Terra; e sembra non voler a spada
tratta schierarsi con uno dei due campi contrapposti, ricordando quanto sia
difficile definire e classificare la pericolosità o meno di quelle paure che
opportunisticamente vengono agitate dai potenti del mondo.
venerdì 25 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 61 «Poi solo tre euro all'ora».
Tratto da “Diploma,
laurea e poi solo tre euro all'ora” di Umberto Galimberti, pubblicato sul
settimanale “D” del quotidiano la Repubblica del 25 di ottobre dell’anno 2014: Bel
messaggio, per i giovani, che studiare non serve a nulla. Eppure in troppi casi
è tragicamente vero. Dov'è e cosa fa la politica, che dovrebbe trovare il
rimedio? (…). …in questo periodo, in cui tanto si discute dell'articolo 18
dello Statuto dei lavoratori, mi chiedo:
giovedì 24 ottobre 2019
Ifattinprima. 15 «Giovanna d’Arco non l’avrebbe mai fatto».
In una intervista rilasciata a commento del ritiro
del cardinale Joseph Ratzinger dal seggio papale il teologo Hans Küng ebbe a
sostenere: Professor Küng, per lei che ha sempre contestato l’infallibilità
papale, che valore ha il ritiro del Papa? «È una smitizzazione solo per tutti
coloro i quali vedono nel Papa un vice-Dio in Terra, e non prendono in
considerazione il fatto che anche il Papa è solo un uomo, e quindi per forza di
cose il suo magistero è limitato dal Tempo ».
Il ritiro è stato l’atto più importante del
suo pontificato? «Presumo che il pontificato di Joseph Ratzinger resterà nella
Storia della Chiesa perché egli è stato il primo Papa del tempo moderno che ha
deciso di ritirarsi. Per questo resterà negli Annali».
Il ritiro e le parole (…) del Papa aprono
nuove speranze? «Apre la speranza che finalmente ora la crisi della Chiesa
cattolica e del ruolo del Pontefice siano riconosciute anche in Vaticano. (…).
(…). Auspica che i futuri Papi si preparino
a non restare Papi fino alla morte? «La regola dell’anzianità dei vescovi
dovrebbe valere anche per il vescovo di Roma. A partire dal 75mo anno i vescovi
devono offrire il proprio ritiro. Fu introdotta dal Cardinale Suenens. Gli
chiesi perché avesse escluso il Vescovo di Roma, il Pontefice. Mi rispose che
altrimenti non avrebbe raccolto una maggioranza. Adesso constatiamo quanto sia
negativo che un Papa resti in carica troppo a lungo, o fino a un’età troppo
avanzata».
Il suo bilancio di questo pontificato è
negativo? «Temo che resterà nella Storia piuttosto con un bilancio negativo,
con deficienze e limiti, e occasioni perdute. Il caso del vescovo antisemita
Williamson, o il mancato accordo su una maggiore comprensione con le chiese
ortodosse e protestanti».
Crisi delle vocazioni, esodo dei fedeli: la
crisi della Chiesa è drammatica. (…). «(…). La Curia romana era contro il
Concilio Vaticano II prima che si tenesse, durante il Concilio ha impedito ciò
che voleva, e dopo ha guidato la restaurazione con i devastanti effetti di
crisi. Se questa Curia non verrà riformata e trasformata in centro efficiente,
ogni riforma sarà impossibile. La Curia è l’ostacolo principale al rinnovo
della Chiesa, a un dialogo ecumenico e a un’apertura al mondo moderno». (…). È
in quel contesto di sempiterne lotte intestine all’interno del mondo vaticano che
si troverebbe oggi una spiegazione plausibile ed accettabile di quel grave
episodio di cui ha scritto Alessandro Robecchi ieri su “il Fatto Quotidiano”
con il titolo “Il furto degli idoli: la
saga della chiesa meglio di Dan Brown”:
mercoledì 23 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 60 «I salari arrancano ecco chi paga il conto della crisi».
Tratto da “Crescita,
ma i salari arrancano ecco chi paga il conto della crisi” di Marco Ruffolo,
pubblicato sul settimanale “A&F” del quotidiano la Repubblica del 23 di
ottobre dell’anno 2017: La ripresa gonfia i portafogli delle
famiglie? O li lascia malinconicamente leggeri? In che misura tutti quei “più”
che leggiamo davanti a grandezze come Pil, produzione, fatturato, occupazione,
si stanno effettivamente traducendo in buste paga più pesanti, in redditi meno
magri? Insomma, quando la famiglia italiana media si fa i conti in tasca, può
dire di essersi lasciata alle spalle la più grave recessione che abbia mai
conosciuto dal dopoguerra ad oggi? Se lasciarsela alle spalle significa tornare
ai livelli pre-crisi, a quelli di dieci anni fa, la risposta è certamente
negativa. Il potere d’acquisto delle famiglie, dice l’Istat, si è ridotto
dell’8 per cento. Dietro questo calo, tuttavia, scopriamo andamenti molto
diversi tra loro: un vero e proprio tonfo per il reddito da lavoro autonomo
(meno 15%), e una risicata tenuta per salari e stipendi (meno 1,1). Ma anche
quest’ultimo dato, come vedremo, nasconde tragitti assai differenti, persino
opposti. Al netto dell’inflazione, ci dice l’Istat, la retribuzione media dei
dipendenti è scesa dai 29.738 euro del 2007 ai 29.419 del 2016. E le cose non
sono cambiate un gran che quest’anno. In sostanza, rispetto a dieci anni fa, il
dipendente medio italiano con la sua paga si trova a dover rinunciare a beni e
servizi per 319 euro. Dunque, prima conclusione: nei tre anni di crescita del
Pil non siamo stati capaci di riprendere la corsa interrotta un decennio fa. Come
dieci anni fa. Nel migliore dei casi, siamo tornati ai blocchi di partenza. E
non è poco, visto il crollo subito da tutte le grandezze economiche durante la
crisi. Ora però ci si chiede se vi siano margini per far ripartire la corsa
delle retribuzioni. Ad auspicarlo questa volta sono le stesse autorità
monetarie che in passato predicavano la moderazione salariale: la Banca
d’Italia di Ignazio Visco, e soprattutto la Bce di Mario Draghi. Visco e Draghi
sanno che il fenomeno dei bassi salari non è solo italiano. “In molte economie
avanzate, a cominciare dall’Europa – si legge nel nuovo World Economic Outlook del
Fondo monetario internazionale – la crescita dei salari nominali resta
marcatamente sotto i livelli precedenti la grande recessione del 2008-2009”. E
questo frena sia l’inflazione (che nell’eurozona non riesce ad avvicinarsi
all’obiettivo del 2%) sia la ripresa, a causa dell’evidente debolezza dei
consumi. Ma quali ostacoli si frappongono in Italia a una crescita dei redditi
familiari? Per capirlo bisogna fare un salto indietro. Tra i segni più evidenti
lasciati dalla lunga crisi economica, c’è una frattura profonda che ha diviso
il mondo del lavoro dipendente. Da una parte il ciclone della crisi si è
abbattuto sull’industria manifatturiera, che ha conosciuto una delle più
massicce perdite di manodopera. Dall’altra è cresciuto un terziario poco produttivo
e di bassa qualità, che ha assorbito una parte di quella manodopera e che
continua tuttora a creare nuovi posti, anche se poveri. I
"sopravvissuti". Anni terribili quelli tra il 2008 e il 2014 per i
lavoratori dell’industria e delle costruzioni: 900 mila occupati in meno, dice
l’Istat, con una perdita del 13%, che arriva al 20% se il calcolo si fa sui
dipendenti tra il 2007 e il 2016. Eppure qui, nonostante la crisi, salari e
stipendi reggono e anzi aumentano. La contrattazione nazionale continua a funzionare.
E così nell’ultimo decennio le retribuzioni nominali nell’industria salgono del
24%, e quelle reali (al netto dell’inflazione) dell’8,5, in controtendenza
rispetto all’andamento nazionale. Insomma, chi è riuscito a restare a bordo,
chi ha conservato a fatica il posto in fabbrica e nei cantieri ha visto il
proprio potere di acquisto aumentare, e non di poco. A partire dal 2014,
tuttavia, le industrie sopravvissute, e alleggerite dalla grande emorragia di
posti, hanno cominciato a contenere l’aumento dei salari per reggere alla
concorrenza estera. Certo, teoricamente avrebbero potuto puntare sulla
produttività invece che tenere bassi gli stipendi, ma uscivano da una
recessione che aveva impedito loro di investire, di sostituire macchinari
obsoleti. E la moderazione salariale ai loro occhi rappresentava l’unica via
d’uscita per restare sull’unico mercato che tirava: quello estero. La povertà
del terziario. Alberghi e ristoranti, servizi alle famiglie e alle imprese: è
stato soprattutto questo terziario a fare in qualche misura da ammortizzatore
della grande emorragia di lavoratori. Fino al 2014, almeno una piccola parte di
quei 900 mila occupati rimasti senza lavoro nell’industria e nelle costruzioni,
lo ritrova proprio in quei servizi: poco più di 100 mila. Poi, negli anni
successivi, con la ripresa economica, le assunzioni nel terziario accelerano a
un ritmo del tutto imprevisto: un altro mezzo milione entro il 2016. Il
risultato è che da qualche mese, soprattutto grazie ai servizi, gli occupati
complessivi in Italia sono tornati per la prima volta ai livelli pre-crisi,
ossia sopra i 23 milioni. In questo forte recupero, giocano un ruolo
fondamentale gli sgravi contributivi alle assunzioni stabili, utilizzati dalle
imprese nel 2015 e 2016. È proprio grazie ad essi se dalla fine della crisi ad
oggi più della metà delle assunzioni è stata a tempo indeterminato. C’è però un
rovescio della medaglia in questa ondata di ritorno del lavoro: la maggior
parte dei nuovi impieghi è di bassa qualità e mal pagata. Tra il 2007 e il
2016, ci dice l’ultimo rapporto annuale dell’Istat, il già basso stipendio
reale dei dipendenti di alberghi e ristoranti (25.046 euro lordi) si è ridotto
a 24.402 euro: il 2,6% in meno. E cali anche maggiori hanno riguardano il
potere di acquisto di chi lavora nella sanità e nell’assistenza (meno 8%),
nell’istruzione (meno 10,4), nel pubblico impiego (meno 7,9%), nelle attività
finanziarie e assicurative (meno 9,5), tra facchini, imballatori e addetti alle
consegne (meno 4,5). Si tratta proprio di quei mestieri che hanno visto
crescere i posti di lavoro. Insomma, più occupazione povera in cambio di minori
salari. Come testimonia anche una recente relazione della Commissione Lavoro
del Senato. Gli effetti finali Il risultato di questa sconvolgente
ricomposizione del lavoro, ce lo dà di nuovo l’Istat: durante gli anni della
crisi, fino al 2014, l’occupazione a basso reddito è cresciuta dell’8%, quella
di media retribuzione è crollata del 12%, mentre quella a reddito elevato
(dirigenti, imprenditori e professionisti) è rimasta stabile.
martedì 22 ottobre 2019
Cosedaleggere. 11 «La sinistra è ciò che lascia il libero gioco al divenire».
A lato: 1913. Il sindacalista Alceste de Ambris festeggia la vittoria socialista alle elezioni a Parma.
Tratto da “La
sinistra è un desiderio” di Giuseppe Genna, pubblicato sul settimanale L’Espresso
del 13 di ottobre 2019:
lunedì 21 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 59 «Scopo della scuola è addestrare al senso critico».
Una rappresentazione delle
condizioni della scuola pubblica – per come la ricordo ancora, dopo tanti
lustri che ne sono uscito - ce la rende Manara Valgimigli in “La mia scuola”, testo pubblicato nel
lontano 15 di gennaio dell’anno 1920:
domenica 20 ottobre 2019
Cosedaleggere. 10 Lussemburgo: «Ricchi con le tasse altrui, mentre l’Europa affonda».
Tratto da “Juncker
killer d’Europa” di Paolo Biondani e Leo Sisti, pubblicato sul settimanale
L’Espresso del 28 di ottobre dell’anno 2018: Una voragine nei conti dei 28
Paesi dell’Unione europea: mille miliardi di euro all’anno, tra elusione ed
evasione fiscale. Multinazionali che non pagano le imposte e smistano decine di
miliardi di dollari dei loro profitti, accantonati grazie a operazioni
finanziarie privilegiate in Lussemburgo, verso altri paradisi rigorosamente
“tax free”. Stati membri dell’Unione che si fanno concorrenza sleale sulle
tasse.
sabato 19 ottobre 2019
Ifattinprima. 14 Quel “trilione” sottratto al benessere comune.
Avete idea di cosa sia un “trilione”? Siamo nel
campo delle misure non facilmente intuibili. Ci chiarisce Wikipedia che un “trilione”
è un numero naturale – enorme scoperta - che equivale a un miliardo di
miliardi, ossia ad un milione alla terza potenza (1 000 000 000 000 000 000) o,
ancor meglio - secondo sempre Wikipedia – al banalissimo 10 di diffusa
conoscenza elevato però alla diciottesima potenza. Insomma, il “trilione”
equivale anche a un milionesimo di quadrilione. Ed il “quadrilione”? Avendo a
cuore la nostra salute mentale è il caso di chiudere immediatamente la pagina
di Wikipedia. Un “trilione” di cosa? Non certo di ricchezza distribuita per il
benessere collettivo. Nulla di tutto ciò al tempo del rampante capitalismo finanziario.
È quanto si sottrae al benessere comune per depositarli nei cosiddetti “paradisi
fiscali” per quell’un per cento di umani che vive a sbafo con la
finanza creativa (copyright l’allora ministro Giulio Tremonti). Ma la cosa che
sorprende è che tra quei “paradisi fiscali” si annoverano
financo il Lussemburgo, che ha espresso l’ultimo presidente - uscente - della Commissione
europea ed il paese – virtuoso quanto? - dei tulipani. Il danaro non “olet”, a
tutte le latitudini. E pensare che la denuncia arriva dal “Fondo monetario
internazionale” presieduto sino a qualche mese addietro dall’ineffabile signora
Christine Lagarde che, vedi un po’, è stata imbarcata di recente nella Banca
centrale europea in qualità di presidente. Ne ha scritto in “La bolla dei fondi fantasma” Eugenio
Occorsio sul settimanale A&F del 14 di ottobre 2019:
venerdì 18 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 58 «Che cos’è l’umanità? È la maniera di fare esperienza della morte nella vita».
Superata la politica detta della
“rottamazione” ne è seguita la politica del “rinnovamento”, con il suo
imprevisto, patetico fallimento. E come ad ogni stormir di fronde, si riprende
oggigiorno a parlare di “fine vita” e di quant’altro attiene
a questa esperienza ultima degli umani. Se ne riparla alla luce della sentenza
della Cassazione che non ha intravisto reato alcuno nel gesto tutto umano di
alleviare tormenti e sofferenze ad un fratello in umanità. C’è stata, in anni
lontani oramai, e che a nulla ha portato sul piano della legislazione, la
tragedia di Eluana Englaro, tragedia della quale Massimo Adinolfi, sul quotidiano l’Unità del
9 di settembre dell’anno 2012 – “Eluana, dibattito senza umanità” –, ebbe a scrivere: (…). Nel Parlamento, il decreto
legge presentato il 7 febbraio 2009 dall’allora ministro Sacconi per stabilire
con urgenza che «l’alimentazione e l’idratazione, in quanto forme di sostegno
vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono
in alcun caso essere sospese» doveva contenere la soluzione: fermare il padre
di Eluana, impedire che Eluana fosse ammazzata, come gridò il senatore
Quagliariello in aula, in una sequenza agghiacciante e memorabile che il film
ripropone. (…). Che cos’è l’umanità? Io non saprei dire altrimenti: è la
maniera di fare esperienza della morte nella vita, della vita nella morte. La
vita e la morte non sono infatti come le due facce di un foglio, l’una in ogni
punto opposta all’altra, e dunque destinate a non incontrarsi mai. Per questo
non è mai bastato ripetere con Epicuro che quando c’è la morte non ci siamo
noi, mentre quando ci siamo noi non c’è la morte, per cui non abbiamo da
preoccuparci, dal momento che non la incontriamo mai. Invece la incontriamo. La
vita incontra la morte, proprio in quanto è vita umana, (…)
giovedì 17 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 57 «Dio, il dolore, l'amore».
Tratto da “Dio,
il dolore, l'amore: tre modi per parlare di noi” di Umberto Galimberti,
pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica del 17 di ottobre
dell’anno 2015: Scriveva Heidegger: «Non sempre una domanda chiede una risposta.
La risposta, infatti, è solo l'ultimissimo passo del domandare». Se dovessi
stilare una classifica degli argomenti più gettonati (…), al primo posto c'è
Dio, al secondo il dolore, al terzo l'amore. Fanno eccezione le lettere dei
giovani che parlano con angoscia del loro futuro, raramente d'amore, quasi mai
di Dio. E le lettere delle persone anziane che parlano del loro passato
tendenzialmente per deplorare il presente, senza nessun accenno al futuro. I
primi tre argomenti, i più gettonati, a me paiono tra loro molto connessi
perché unico è il tema: la fatica di vivere, sia che si parli di Dio, di dolore
o d'amore. Ma incominciamo dalla tematica religiosa. Gli atei che, (…), non si
danno pace per il fatto che esistono persone che credono in Dio e che
naturalmente considerano inferiori perché ancora non sono approdati all'uso
della ragione, a mio parere sono religiosi quanto i credenti, perché comunque
insistono sulla tematica di Dio, e rivendicano la loro identità nella semplice
negazione della sua esistenza. Nietzsche questo lo aveva capito perfettamente e
perciò fa annunciare la morte di Dio non dall'ateo, ma dal folle. Con quella
morte, annuncia la fine della cultura occidentale che, senza Dio, ha perso il
suo punto di riferimento e la gerarchia dei valori che ne discendono. Una
lezione che non abbiamo ancora imparato. Poi ci sono gli agnostici che si
limitano a non prendere posizione e, avvolti nella loro aria di superiorità,
perché non vogliono confondersi né con gli uni né con gli altri, non hanno il
coraggio di staccarsi da Dio nè di aderire alla sua rivelazione. Dante li
avrebbe collocati nell'inferno tra gli ignavi. La loro ignavia sta nel fatto
che non vogliono impegnarsi in nessun pensiero. Per loro è troppo faticoso
pensare. Infine ci sono i credenti, e lo sono per mille ragioni. Alcuni per
educazione, perché se fossero nati in un ambiente musulmano crederebbero in
Allah; altri, dall'identità debole, perché hanno un gran bisogno di
appartenenza e preferiscono la Chiesa Cattolica alla massoneria, al Rotary,
alla bocciofila del paese; altri ancora perché non trovano un senso della vita
se non affidandosi alla fede cristiana che lenisce il dolore e invita
all'amore; altri infine perché rispondono all'esigenza incondizionata propria
della natura umana che, non accontentandosi dell'esistente, vuole trascenderlo.
Molte altre sono le motivazioni che spingono a credere, a mio parere tutte
giustificabili, purché non intervenga l'intolleranza, la peggiore prerogativa
delle religioni monoteiste quando si propongono come verità assolute. In questo
caso, come opportunamente avverte Karl Jasper, non abbiamo più a che fare con
un credente (Glaubende), ma con un militante della fede (Glaubenskämpfer), non
dissimile dagli atei che, (…), «non si danno pace». Alla fede in Dio è connesso
anche il secondo tema più gettonato: il dolore. E la ragione è che la religione
sottrae il dolore alla sua insensatezza iscrivendolo in un senso, perché lo
legge come espiazione della colpa e caparra per la vita futura.
mercoledì 16 ottobre 2019
Cosedaleggere. 09 Orwell: «"Se i fatti lo negano, bisogna cambiare i fatti"».
Tratto da “Dizionario
della lingua di Trump” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 15 di ottobre 2019: (…). Capita (…) che l'oggetto da tradurre
sia il "Newspeak", la lingua artificiale che il potere usa per
sostituire la vecchia visione del mondo con un'altra realtà più vera del reale,
al punto da dominare il discorso pubblico, mettendo fuorigioco ogni altra forma
di pensiero. Non c'è un codice, per questo linguaggio, non c'è neppure un
vocabolario, tantomeno una grammatica e una sintassi: bisogna navigare a vista.
Nello stesso tempo, saltano tutti i vecchi codici, quel patto non scritto tra
il leader che parla, il traduttore che trasforma il linguaggio nel passaggio
dalle cuffie al microfono, i giornalisti che stanno prendendo appunti: per cui
il tono sarà controllato, il contesto resterà civile, la retorica risulterà
istituzionale. E invece no. Quando irrompe la neolingua, non si sa come
tradurla e come interpretarla, perché in ogni istante non si capisce cosa sta
per accadere, non essendoci più alcuna regola. Cosa vuol dire Donald Trump
quando si rivolge a Brigitte Macron, appena la incontra il 14 luglio del 2017 a
Parigi? "You're in such good shape": molti giornali francesi, nel
fare la cronaca, hanno usato la formula letterale "Lei è in splendida
forma".
martedì 15 ottobre 2019
Ifattinprima. 13 «In Italia il 38% degli adulti ha competenze numeriche e linguistiche decisamente basse».
Tratto da “Italia
2019, il lavoro sparito” di Marco Ruffolo, pubblicato sul settimanale
A&F del 7 di ottobre 2019: (…). Ogni volta che si incrociano i dati
Istat sulla disoccupazione con i risultati delle indagini Excelsior-Unioncamere
sui posti che restano scoperti, si viene catapultati in una specie di teatro dell’assurdo,
in un paradosso a dir poco sconcertante. Questo accade soprattutto al Nord dove
ogni cento disoccupati restano scoperti 84 posti di lavoro. Cifra che si
dimezza al Centro (43 su 100) e si riduce a 18 su 100 nelle regioni del
Mezzogiorno, nelle quali il problema principale non è tanto quello
dell’incrocio tra domanda e offerta quanto la mancanza stessa di lavoro. Diciamo
subito che non si tratta di un confronto tra grandezze del tutto omogenee,
perché da una parte abbiamo persone (i disoccupati Istat), e dall’altra
contratti di lavoro, quelli che le aziende hanno previsto di fare ma che non
vanno in porto per indisponibilità o inadeguata preparazione dei candidati. I
risultati, tuttavia, sono talmente eclatanti da dare un’idea sicuramente realistica
(anche se non precisa) del paradosso che attanaglia il mercato del lavoro in
Italia. La spiegazione La spiegazione di questo paradosso può essere riassunta
così: mancanza di competenze. Che a sua volta è il frutto avvelenato di una
formazione professionale più finta che vera e di un orientamento
post-scolastico del tutto assente.
lunedì 14 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 56 Baricco: «La nostra generazione può tentare di interpretare il Game».
Tratto da “Forza
intellettuali, buttatevi nel web”, dialogo a più voci di Simonetta Fiori con
lo scrittore Ian McEwan ed Alessandro Baricco, pubblicato sul settimanale
Robinson del quotidiano la Repubblica del 14 di ottobre dell’anno 2018: (…). Cominciamo
dal principio. Più che una rivoluzione, sostiene Baricco, si è trattato di una
insurrezione digitale. Alessandro Baricco: "Sì, "insurrezione" è
una parola che in italiano usiamo poco. Evoca una reazione forte, violenta, con
un cuore di rabbia. All'origine della nuova civiltà digitale c'è la ribellione
negli anni Settanta della controcultura californiana. Quei pionieri, tra cui
Stewart Brand, volevano rovesciare il tavolo. E anche se non avevano un'idea di
mondo da inseguire, avevano un'idea di mondo da cui fuggire".
domenica 13 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 55 «La vita dei forzati del talk show».
Chissà se da lassù l’indimenticato Alberto Statera,
dando uno sguardo a quanto avviene nel bel paese in fatto di televisioni, internet
e quant’altro attiene ed avvinghia la politica, tornerebbe a scrivere, o ne
disconoscerebbe la paternità, quel “pezzo che ha per titolo “Talk show e guru apocalittici un’era sul
viale del tramonto”, “pezzo” pubblicato sul settimanale A&F del 13 di
ottobre dell’anno 2014, “pezzo” che all’epoca fece rumore assai:
sabato 12 ottobre 2019
Ifattinprima. 12 «Fine mafia mai» vs «fine pena mai».
Tratto da “Fine
pena vediamo” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” dell’11
di ottobre 2019: Facciamo così. Siccome il cosiddetto “ergastolo ostativo” – cioè vero,
senza sconti né scappatoie – l’hanno inventato Falcone e Borsellino e l’hanno
ottenuto soltanto nell’agosto del 1992, da morti ammazzati per mano della
mafia, chi non è d’accordo la smette di tirare in ballo Falcone e Borsellino
quando parla di lotta alla mafia.
venerdì 11 ottobre 2019
Ifattinprima. 11 Gustave Le Bon e il «politico così modesto e pedestre».
Si pone la “questione” sul disarcionato “capitano
di breve corso”, avendone di già rintracciata la dotta spiegazione, Daniela
Ranieri - con un pizzico di riposta retorica che non guasta mai - in “I talk show sono gli steroidi di Salvini”
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, ovvero come la “questione” di «un politico così modesto e pedestre riesca ancora a incanalare i sentimenti
collettivi lo spiega la psicologia delle folle di Gustave Le Bon:
“L’autoritarismo e l’intolleranza sono per le folle sentimenti che esse
sostengono e praticano con estrema facilità. Le folle rispettano la forza e
sono mediocremente impressionate dalla bontà, che al più è valutata come una
forma di debolezza. Se le masse volentieri calpestano il despota detronizzato,
è perché, avendo quegli perduto la sua forza, rientra nella categoria dei
deboli che, non temuti, meritano disprezzo”». Al di là e senza
scomodare tanto l’illustre Gustave Le Bon la risposta più immediata è che il
becerume della vita politica ed associata degli italiani ha toccato il massimo
della sua parabola. Poiché quel becerume non poteva non nutrirsi di quella
categoria dello spirito che oggi è di gran moda, ovvero il vanto della propria “ignoranza”.
Ignoranza portata come marchio delle nuove plebi che in virtù di essa non
anelano a nessun riscatto e progresso. Ne ha scritto come sempre argutamente Michele
Serra – dal quale mi sono sentito quasi tradito avendo Egli mantenuto l’impegno
Suo in quel partito nonostante l’uomo di Rignano sull’Arno – sul settimanale “il
Venerdì” del 4 di ottobre laddove ha scritto - in “La schiavitù dell’ignoranza” - che «(…). …gli ottimisti sostengono
che l’ignoranza c’è sempre stata (anzi, ce n’era molta di più in passato) e la
sola differenza è che i social l’hanno portata alla luce. L’hanno messa in
chiaro. I pessimisti dicono invece che i social non si sono limitati a renderla
visibile ma l’hanno sdoganata e moltiplicata, come un contagio. Ne sono stati
il potentissimo vettore. E la cattiva politica, ruffiana, spudorata, ci ha
sguazzato, trovando la maniera di promuovere l’ignoranza come “valore popolare”
e ricevendone in cambio la gratitudine e i voti degli ignoranti. Con il tragico
risultato che l’ignorante, un tempo infelice di esserlo, ora rivendica il
proprio status orgogliosamente, come una liberazione. Io, a seconda del mio
umore del giorno, oscillo tra le due lettura; con una lieve predilezione,
ahimè, per quella infausta, la seconda. Ma con irriducibile fiducia nei nostri
anticorpi (individuali e sociali). L’ignoranza non produce felicità e nemmeno
dignità. Abbrutisce e impedisce la soddisfazione di sentirsi, passo dopo passo,
migliori di come si era in partenza. Rende subalterni e meno liberi. E dunque
non diamole troppa fiducia; l’ignoranza tornerà ad essere, prima o poi, quello
che è sempre stata: una forma di minorità e soggezione dalla quale
emanciparsi…». È la speranza che ci piace coltivare. Ha scritto Daniela
Ranieri che “a un certo punto della sera di martedì, mentre traeva fomento dalla
terza ovazione del pubblico dell’omonima trasmissione, Salvini è sembrato
entrare in un evidente stato di alterazione psico-fisica – Salvini che, è bene
ricordarlo, esiste e gode di tanto consenso perché per anni è stato insufflato
di steroidi proprio dai talk show, felicissimi di ridursi a suoi casini da
caccia.
giovedì 10 ottobre 2019
Cosedaleggere. 08 Elias Canetti: «Non ricordarsi di nulla, ricordare qualcosa, ricordare tutto».
Tratto da “Amnesia,
oblio e altri disastri” di Elvira Seminara, pubblicato sul settimanale L’Espresso
del 16 di dicembre dell’anno 2018: «Io abito al civico 75. Quando aspetto amici
a cena so che ogni volta, alle 20 e 40, arriverà la telefonata: «Sono alla Baia
verde, mi ricordi il tuo numero?».
mercoledì 9 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 54 «Siamo diventati delle pure e semplici risposte agli altri».
Sembra, ad una prima lettura, che
questo testo di Umberto Galimberti - “Impara
a essere come gli altri ti vogliono” - pubblicato sul settimanale “D” del
quotidiano la Repubblica del 9 di ottobre dell’anno 2010 voglia sconfessare
quanto da me sostenuto in uno dei post precedenti – il 12 di settembre 2019 in “letturedeigiornipassati”
n° 43 - laddove scrivevo che “siamo come
gli altri ci aiutano a divenire”, come se l’illustre volesse quasi negare
una possibilità che sia di “autodeterminazione” di ciascuno di noi. In verità
il senso dello scrivere di Umberto Galimberti è in perfetta sintonia con il
vissuto collettivo di questi perigliosissimi tempi:
martedì 8 ottobre 2019
Ifattinprima. 10 «Facebook che fa di tutto per attivare il cervello rettile».
Si conclude così il “pezzo” di Roberto Saviano – che
ha per titolo “Viaggio nel web oscuro”
– scelto, proposto e pubblicato sul quotidiano la Repubblica di ieri 7 di
ottobre: «Come ricorda il formatore Andrew Lewis, "se non state pagando
qualcosa non siete un cliente: siete il prodotto che stanno vendendo"».
lunedì 7 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 53 «La finanza non è economia reale».
Tratto da “Nuovo
capitalismo cercasi”, colloquio con
Richard Sennett – sociologo - di Wlodek Goldkorn pubblicato sul settimanale L’Espresso
del 7 di ottobre dell’anno 2018: (…). Nei decenni dominati dal pensiero e da
politiche socialdemocratiche abbiamo creduto che il capitalismo fosse legato al
progresso, al benessere, alle regole condivise anche tra gli avversari. Oggi,
il benessere viene meno, idem il progresso e le regole non sono condivise. Cosa
è successo al capitalismo? «Sono questioni diverse. Alcune riguardano la
redistribuzione del reddito. Ma a me interessa il tema strutturale:
l’automazione e le sue conseguenze sulla forza lavoro. Parto da una
constatazione elementare: la sostituzione dell’uomo con le macchine, una volta,
era un processo parziale. E sa perché? Perché spesso il lavoro umano costava
meno dell’acquisto di una macchina. Oggi, costruire una macchina che funziona a
base di un algoritmo costa meno che impiegare un uomo o una donna. Abbiamo a
che fare con macchine che non sono più replicanti delle nostre funzioni ma sono
molto più potenti della nostra mente. È un cambiamento radicale che non
riguarda più solo il lavoro manuale, ma pure quello dei colletti bianchi. La
loro percentuale scenderà del venti per cento. Ci sono politici che parlano
della minaccia che gli immigrati rappresentano per chi ha un lavoro, ma quella
presunta minaccia è poco o niente rispetto alla minaccia costituita dalle
“macchine immigrate” ».
domenica 6 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 52 «Il paradigma dominante contro cui Keynes combatteva».
Tratto da “A
sinistra vive un finto Keynes” di Marco Ruffolo, pubblicato sul quotidiano
la Repubblica del 6 di ottobre dell’anno 2018: (…). Quel guanto di sfida del
2,4% lanciato in faccia ai tecnocrati di Bruxelles non può infatti non
rievocare il coraggio della rivoluzione keynesiana contro l'ortodossia
neoclassica.
sabato 5 ottobre 2019
Cosedaleggere. 07 «Sono state le pre-existing conditions a determinare il voto americano».
Tratto da “In
viaggio con Steinbeck nell'America di Trump” di Enrico Deaglio, pubblicato
sul settimanale "il Venerdì" del quotidiano la Repubblica del 16 di novembre dell’anno 2018: L’idea
era quella di vedere che cosa restava di quel grande libro, The Grapes of
Wrath, tradotto in Italia con Furore; di verificare se quel capolavoro della
letteratura di denuncia sociale era ancora attuale, nell’America buia di Trump
come nella California ricca e democratica. Vedere che traccia hanno lasciato
quel mezzo milione di pezzenti bianchi che negli anni Trenta, scacciati
dall’Oklahoma a causa di una spaventosa nuvola di polvere – un mutamento
climatico provocato dall’uomo – che aveva reso sterile la terra, e sfrattati
dalle banche che requisirono le loro case e poi le rasero al suolo perché non
pagavano il mutuo, migrarono fino alla terra promessa della California per
scoprire la fame, la violenza, il razzismo.
giovedì 3 ottobre 2019
Letturedeigiornipassati. 51 «Per non diventare "analfabeti emotivi"».
Tratto da “Non
ci sono scuse all'indifferenza” di Umberto Galimberti, pubblicato sul
settimanale D del 3 di ottobre dell’anno 2015: Diventare insensibili di fronte
alle tragedie che si susseguono è un rischio vero. Ma sta a noi resistere,
mantenendo alta la nostra sensibilità. Penso che Herman Melville, l'autore di
Moby Dick, abbia ragione nella sua diagnosi, ma io preferisco seguire l'invito
di Günther Anders che, ponendosi lo stesso problema a proposito della tragedia
dell'olocausto, non chiede alla nostra sensibilità di "sbarazzarsi"
delle tragedie le cui dimensioni ci fanno assaporare la nostra impotenza, ma di
educare il nostro sentimento a portarsi all'altezza della tragedia, per non
diventare "analfabeti emotivi" del tutto insensibili a quanto di
tragico sta davanti ai nostri occhi.
mercoledì 2 ottobre 2019
Cosedaleggere. 06 «Fanatici? Sì, ma fanatici che sapevano fare politica».
«Qualcuno
era comunista» di Giorgio Gaber:
Qualcuno era comunista perché era nato in
Emilia
Qualcuno era comunista perché il nonno, lo
zio, il papà
La mamma no
Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia
come una promessa
La Cina come una poesia, il comunismo come
il paradiso terrestre
Qualcuno era comunista perché si sentiva
solo
Qualcuno era comunista perché aveva avuto
un'educazione troppo cattolica
Qualcuno era comunista perché il cinema lo
esigeva, il teatro lo esigeva
La pittura lo esigeva, la letteratura anche:
lo esigevano tutti
Qualcuno era comunista perché glielo avevano
detto
Qualcuno era comunista perché non gli
avevano detto tutto
Qualcuno era comunista perché prima, prima,
prima, era fascista
Qualcuno era…
Quel “Qualcuno era comunista” di Siegmund Ginzberg è stato pubblicato sul quotidiano la Repubblica di oggi 2 di ottobre 2019: Ma esisteva davvero una “diversità antropologica” dei militanti, dei leader, degli intellettuali comunisti? Nella seconda metà del Novecento l’idea si protrasse a lungo. E continuò ad essere un mito fondante, e al tempo stesso pietra al collo, anche per il Pci. Ciò non toglie che ce ne fossero, eccome, di personalità di tempra particolare. (…). Alcuni li ho conosciuti. E pure da vicino. Sereni mi aveva chiamato da Milano a lavorare con lui alle Botteghe oscure che non avevo neanche vent’anni. Ero affascinato dalla sua cultura sterminata ed enciclopedica. Dalla sua figura di dirigente del Pci e del Comitato di Liberazione dell’Alta Italia. Avevo letto la biografia scritta dalla sua compagna, Marina. Andai a trovarlo a casa sua a Roma, a Monteverde nuovo. Mi impressionò quanto fosse stracolma di libri, e di cassette su cui registrava musica classica, nella stessa maniera ossessiva e sistematica con cui faceva ritagli e compilava milioni di schede di lettura, su sottilissimi rettangolini di carta velina. Ma più ancora rimasi colpito dal tenerissimo affetto verso una delle figliolette, che giocava in una stanza anch’essa piena di libri, tutti sulla Cina. Aveva anche molto humour. Mi attraeva, e al tempo stesso però mi allarmava la sicurezza, un po’ eccessiva, in tutto quel che faceva e diceva. Ho conosciuto anche Vidali. Anche lui amava definirsi, come Sereni, un «rivoluzionario di professione». Anzi era stato un professionista dell’azione, prima ancora che della politica, un agente operativo al servizio di Stalin. Nella guerra civile spagnola, da commissario politico del Quinto reggimento, il “comandante Carlos” era stato spietato con la cosiddetta Quinta colonna, i “nemici interni” della Repubblica, gli anarchici e i trotskisti, accusati di fare il gioco di Francisco Franco. Si diceva che gli era venuto un callo tra pollice e indice a forza di giustiziare i “traditori”. Paolo Franchi, autore de Il tramonto dell’avvenire (Marsilio), un giorno gli chiese se fosse stato lui a organizzare in Messico il primo attentato fallito contro Trotski. Lui si alzò di scatto e batté il pugno sul tavolo: «Se quell’attentato lo avesse organizzato il compagno Vidali, non sarebbe fallito!».
martedì 1 ottobre 2019
Cosedaleggere. 05 «Il mondo globalizzato e saturo vive tra stasi e guerra, in ogni caso mortifero».
Tratto da “Non
cancelliamo il diritto ai diritti” di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 14 di settembre 2019: Un'espressione particolarmente
densa di significato, usata per la prima volta da Hannah Arendt con riguardo
alla condizione in cui si trovò il suo popolo, il popolo ebraico, nell'Europa
nazi-fascista e nazionalista, nei venti anni dei decenni 1930-1940, è
"diritto di avere diritti" ed è entrata nel nostro lessico politico e
giuridico soprattutto a opera di Stefano Rodotà che ne ha fatto titolo di un
suo importante libro del 2013.
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