C’era stata la “Diciotti”. Con furibonde polemiche.
Con proclami tonitruanti del Capitano di “breve corso” (politico, speriamo, sta
a noi tutti che lo sia). E c’era poi “mia sorella faceva il liceo classico” che
è l’incipit del testo “C’è qualcuno a
casa mia che li aiuta a casa loro” di Valeria Parrella - scrittrice -,
pubblicato sul settimanale L’Espresso del 26 di agosto dell’anno 2018: (…). Mia
sorella faceva il liceo classico, quando, durante il terzo anno, cominciò a
manifestare un disagio crescente. Andava abbastanza bene a scuola, così non
posso dire che fosse per colpa del greco antico: più che altro lei avvertiva
una discrepanza troppo evidente tra ciò che sentiva nell’anima e ciò che
metteva in atto nella vita, tra ciò che studiava (la filosofia, i tragici) e
ciò che accadeva intorno a lei. Credo, eh (sulle mie interpretazioni non mi
parlerà per sei mesi buoni). Fatto sta che in maniera un po’ rocambolesca,
visto che si era agli albori di internet, scoprì che avrebbe potuto finire
l’ultimo biennio in un college della Croce rossa (Red Cross Nordic si chiamava,
o giù di lì. (…). Così a poco più di quindici anni se ne andò per due anni a
studiare (con una borsa di studio: i nostri genitori non si sarebbero mai
potuti permettere una retta) in un posto dove c’erano 200 ragazzi che venivano
da 80 paesi del mondo diversi. Al ritorno si iscrisse all’Università Orientale
di Napoli, ma anche qui, dopo qualche anno, cominciò a manifestarsi in lei un
disagio crescente. Poiché aveva voti altissimi che prendeva con la facilità di
chi scorre nel grande fiume della vita, non posso dire che l’insofferenza fosse
dovuta all’ateneo. Piuttosto: avvertiva una discrepanza troppo evidente tra ciò
che sentiva nell’anima e ciò che metteva in atto nella vita, tra ciò che
studiava (l’Europa dei popoli, le lingue) e ciò che accadeva intorno a lei. (…).
E allora, siccome ormai sapeva l’inglese meglio dell’italiano (e almeno altre
sei lingue tra cui lo swahili), se ne partì di nuovo. Andò a Dharamsala, sul
confine tra India e Cina, dove, appena sotto l’Himalaya, ha insegnato inglese
ai piccoli rifugiati tibetani. Minori non accompagnati, si direbbero. Mangiava
latte non pastorizzato, e riso e radici, e ha visto il Dalai Lama risalire su
da una vallata. Quando è tornata ha dato una tesi di laurea sul conflitto
sinotibetano: con orgoglio di sorella posso dire che… No, non posso, ma avete
capito da soli che ne sapeva più della commissione. Infatti vinse subito uno
stage a Roma presso la sede di un ministero. Eppure prestissimo sviluppò una
insofferenza verso la vita che menava, e siccome il ruolo che occupava era
molto ambito, potrei pensarne che avvertiva una discrepanza troppo evidente tra
ciò che sentiva nell’anima e ciò che metteva in atto nella vita, tra ciò che
agiva (correggere l’inglese dei fax, protocollare i fax, mandare i fax) e ciò
che accadeva intorno a lei. Credo, eh. E così andò a lavorare per una
Organizzazione non governativa in Spagna, e noi tutti ne fummo rasserenati
perché la sentivamo finalmente in pace. E invece da lì cominciarono le nostre
tribolazioni famigliari: quella scellerata se ne partì con Medici senza
Frontiere (e anche senza WhatsApp, che non esisteva ancora). Ci lasciò il
recapito della Farnesina e si sottopose a certe vaccinazioni che, a elencarle
qui, i no-vax incanutirebbero all’istante. Le dissero che questa bomba
vaccinale avrebbe potuto avere due conseguenze (oltre a salvarle la vita):
febbre alta o ilarità. Passò la notte a rotolarsi sul pavimento per le risate e
dopo partì. Elenco in ordine sparso quello che ci porta fino a oggi: è stata ad
Haiti dopo il terremoto (e durante la notte dice che in una chiesa lì vicino
facevano un processo di zombificazione). È stata nella Repubblica Centroafricana
un paio di volte (una era per l’ebola: ha viaggiato su una jeep che stava
poggiata su una zattera, come la controfigura di Harrison Ford). Ha dormito in
posti dove alle 18 si chiudevano i generatori e bisognava essere molto zen per
far spuntare giorno (e avere radio a pile, pile buone); è stata avvolta come
una mummia in un lenzuolo bagnato per 24 ore, per ambientarsi a un clima di 50
gradi diurni, prima di prendere servizio. È stata in Nigeria, ha viaggiato con
una guardia armata e con una busta di dollari addosso da scambiare in caso
volessero rapirla. Quando la tecnologia si è evoluta per noi non è stato
meglio: ne abbiamo saputo di più, come quella volta alla festa della donna che
ci mandò una foto sorridente con le mimose in mano e dietro c’erano delle
tapparelle abbassate in pieno giorno: c’erano i bombardamenti, a Damasco. Fu la
stessa volta che, rientrata in Libano, nostro padre chiosò: «Viviamo il
paradosso di dirci felici perché è arrivata a Beirut». Ha spianato pezzi di
savana per farci atterrare i Piper, ha convinto capivillaggio, in swahili (lei:
bianca, femmina e che parla un napoletano ridicolo) che era meglio che quelle
signore di cui era capo partorissero nell’ospedale da campo. Adesso dirò una
cosa che ha dell’incredibile: ha fatto campagne di vaccinazione dal morbillo e
per settimane le donne si sono messe in fila sotto il sole con i bambini in
braccio per ricevere quella vaccinazione. Di quello che ha visto e fatto, in
quindici anni, non ci ha mai raccontato molto, dettagli pochissimi, credo che
sia una questione di rispetto. Qui bisogna fare un inciso. I cooperanti delle
Ong se ne stavano per i fatti loro a lavorare, senza tanto raccontarla in giro:
perché quella è la loro vita, e solo degli scrittori fanatici possono pensare
che la propria vita sia l’oggetto di una narrazione. Ma poi è cominciato un
contro racconto, un racconto diverso su quello che fanno le Ong. A un certo
punto andavo in un taxi e il tassista diceva che le Ong erano d’accordo con gli
scafisti nella tratta del Mediterraneo. Andavo dal fruttivendolo e una signora
diceva che era colpa delle Ong se morivano i bambini in mare, andavo su Twitter
e certi ministri si vantavano di aver chiuso i porti alle Ong. Si vede che
ciascuno di loro aveva una sorella che lavora in una Ong, e quindi anch’io
rischierò qualcosa della mia pace famigliare raccontando quello che so: un
giorno hanno mandato un ragazzo dell’età di mio figlio a mettersi una protesi
alla gamba saltata su una mina, e lui era felice di salire sull’elicottero,
come un ragazzo della sua età. Due sue colleghe sono state rapite. Ad Abuja ha
tenuto tra le braccia una bambina di quattro anni abusata. Tanti suoi colleghi
sono morti sotto i bombardamenti negli ospedali.
Una ragazza di sedici anni è morta invece a pochi metri dall’ospedale: aveva il colera, stava cercando di salvarsi. Una volta mia sorella mi ha detto: «È peggio morire di sete che morire di fame», e io ho sofferto per lei perché ho capito che sapeva di cosa parlava. Ma quello che volevo dire io, rischiando di essere cancellata dalle foto di famiglia natalizie, è che le Ong sono fatte di persone così. Quando si chiudono i porti alle Ong è a donne come mia sorella che si sta rendendo difficile il lavoro e si sta chiedendo di giustificarne il senso, non ai torturatori, ai caporali, ai mafiosi. Non a quelli che fabbricano le mine antiuomo e a chi ordina di seppellirle sulla strada che percorrerà il bambino. Non all’uomo che ha stuprato una bambina di quattro anni (e certo, alla sorella del tassista, della signora che compra la frutta e di quelli che scrivono su Twitter). Ogni volta che si interrompe una rotta che dalla fame e dalla guerra porta verso l’Europa, dal mare o dai Balcani, ogni volta che si nega un corridoio umanitario, e ci si vanta di averlo fatto è quella ragazza di sedici anni che si fa cadere a pochi passi dall’ospedale, che sta scappando dal colera e voleva salvarsi. Quando si temono gli extracomunitari, si fanno le ronde contro gli stranieri, si fanno i migranti di serie A (profughi di guerra) e quelli di serie B (economici) non si sta davvero scendendo nel cuore del problema, perché lì dentro c’è scritta solo una frase: «È peggio morire di sete che morire di fame». E quello che volevo anche dire è che ognuno di questi posti che vi ho elencato è stato la casa di mia sorella. Li ha aiutati tutti a casa sua. La casa di mia sorella è la Nigeria, Haiti e Damasco e il Tibet, la Repubblica Centroafricana e di certo anche l’Italia, dove ci sono irrazionali scrittori meridionali con cui giustamente da domani potrà prendersela.
Una ragazza di sedici anni è morta invece a pochi metri dall’ospedale: aveva il colera, stava cercando di salvarsi. Una volta mia sorella mi ha detto: «È peggio morire di sete che morire di fame», e io ho sofferto per lei perché ho capito che sapeva di cosa parlava. Ma quello che volevo dire io, rischiando di essere cancellata dalle foto di famiglia natalizie, è che le Ong sono fatte di persone così. Quando si chiudono i porti alle Ong è a donne come mia sorella che si sta rendendo difficile il lavoro e si sta chiedendo di giustificarne il senso, non ai torturatori, ai caporali, ai mafiosi. Non a quelli che fabbricano le mine antiuomo e a chi ordina di seppellirle sulla strada che percorrerà il bambino. Non all’uomo che ha stuprato una bambina di quattro anni (e certo, alla sorella del tassista, della signora che compra la frutta e di quelli che scrivono su Twitter). Ogni volta che si interrompe una rotta che dalla fame e dalla guerra porta verso l’Europa, dal mare o dai Balcani, ogni volta che si nega un corridoio umanitario, e ci si vanta di averlo fatto è quella ragazza di sedici anni che si fa cadere a pochi passi dall’ospedale, che sta scappando dal colera e voleva salvarsi. Quando si temono gli extracomunitari, si fanno le ronde contro gli stranieri, si fanno i migranti di serie A (profughi di guerra) e quelli di serie B (economici) non si sta davvero scendendo nel cuore del problema, perché lì dentro c’è scritta solo una frase: «È peggio morire di sete che morire di fame». E quello che volevo anche dire è che ognuno di questi posti che vi ho elencato è stato la casa di mia sorella. Li ha aiutati tutti a casa sua. La casa di mia sorella è la Nigeria, Haiti e Damasco e il Tibet, la Repubblica Centroafricana e di certo anche l’Italia, dove ci sono irrazionali scrittori meridionali con cui giustamente da domani potrà prendersela.
Carissimo Aldo, far conoscere la verità, in questo nostro tempo, significa andare controcorrente... È per questo che ritengo significativo e prezioso questo post, così coinvolgente, che spero riesca a far vibrare l'anima di quanti lo leggeranno, soprattutto di coloro che, chiusi nel proprio ego, si fanno trascinare da ideologie sovraniste e razziste. Costoro, per non essere turbati, chiudono volontariamente gli occhi davanti ai comportamenti disumani e ostili verso gli immigrati, aggrappandosi a pretesti che nascono dal loro egoismo. Grazie. Agnese A.
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