Ha scritto Filippo Ceccarelli in “Perché il corpo viene preso di mira”, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 6 di settembre dell’anno 2012: “(…).
…gli insulti rispecchiano al meglio la più vertiginosa trasformazione di una
politica che punta ormai al minimo comune denominatore, il corpo, per cui è
sostanzialmente attorno ad esso che ruota il vituperio; e così per fare male a
qualcuno l’attuale polemologia di Palazzo, incerta tra Bagaglino e
cinepanettone, vuole gli si dica che puzza, che è brutto, grasso, basso,
pelato, vecchio, malato, rifatto, che ha gli occhi storti o la dentiera, o è
impotente, bavoso, culattone, bongo-bongo o pedofilo. (…). Sullo stesso
quotidiano ed alla stessa data il politologo Carlo Galli scriveva in “Insulti politici”: (…).
L’insulto tipico è quello che riduce il nemico a meno che uomo, mettendone in
dubbio la virilità, o meglio ancora paragonandolo a un animale, possibilmente
immondo: “cane”, appunto; ma anche “porco”; oppure, più signorilmente,
“pidocchio” – così si espresse Togliatti nel 1951, paragonando i due comunisti
reggiani dissidenti, Cucchi e Magnani, ai pidocchi che possono annidarsi «anche
nella criniera di un nobile cavallo» (il Pci; il cavallo non si presta
all’insulto, sostituito dal più inespressivo, “asino”; mentre è sempre andato
forte il “verme”). In ambito teologico – che in realtà è spesso anche politico
–, «becchi privi di ragione» definisce Lutero i polemisti cattolici, mentre la
corte papale è per lui “Babilonia”, la «grande meretrice» dell’Apocalisse,
seduta sulla «bestia dalle sette teste e dalle dieci corna».
Si sarebbe potuto pensare che l’avvento delle moderne geometrie del potere – un processo che è avvenuto sotto il segno di un’altra bestia biblica, il Leviatano (il titolo dell’opera di Hobbes) – avrebbero eliminato la necessità di personalizzare la politica, trasformandola in un campo di impersonali funzioni di potere, dove si affrontano idee o interessi, forze storiche e orizzonti ideologici; in un mondo adulto, in cui c’è posto per il rapporto amico/ nemico – che è una cosa seria, anzi mortale –, ma che in linea di principio non prevede l’odio personale, il disprezzo morale per l’avversario. Nella politica moderna dovrebbe esserci posto per la violenza oggettiva, ma non per gli infantilismi, per le parolacce. Nulla di meno vero. Quanto più ci si inoltra nella modernità, tanto più la polemica politica si fa accesa, e l’insulto si fa feroce: il mondo moderno è segnato non solo dal potere statale ma anche dalle ideologie, che sono sì impersonali ma hanno bisogno del nemico: inteso però non tanto come avversario da battere, ma come nemico dell’umanità, da eliminare. E quindi mentre permangono i riferimenti alle bestie (nella Marsigliese «tigri senza pietà» vengono chiamati i «despoti sanguinari» contro i quali i «figli della Patria» debbono marciare), nella modernità – in cui gioca un ruolo rilevantissimo l’opposizione vecchio/nuovo (e tutto il valore sta nel secondo termine) – abbondano le dichiarazioni di morte presunta, a carico dell’avversario: che cosa c’è di più vecchio, superato, sorpassato, di un morto? Che cosa c’è di più giusto che porre fine alla non vita di un morto vivente? Non a caso già lo stesso Hobbes definiva la Chiesa di Roma (insieme all’Impero) uno “spettro”, che è in questo mondo ma non dovrebbe esserci (“salma”, come oggi dice Grillo); e sulla stessa linea Togliatti, che da comunista credeva nell’inesorabilità del progresso, usava citare, contro gli avversari politici, due versi dell’Orlando innamorato (nella versione di Berni), in cui si parla di un cavaliere colpito da Orlando, che, non accortosi delle ferite, «andava combattendo, ed era morto». Sull’opposto versante, la violenza verbale di D’Annunzio a Fiume – ricca di non pubblicabili riferimenti scatologici rivolti ai politici di Roma, oltre che di tratti razzistici – anticipa quella di Mussolini contro il Partito Socialista Unitario (spregiativamente definito “pus”) e le ributtanti polemiche antisemitiche del regime, rivolte contro chi non poteva difendersi né ricambiare. L’insulto è, insomma, una forma di violenza politica, che dice poco di chi è insultato, e molto di chi insulta. Si deve quindi distinguere fra l’insulto asimmetrico di un potere ideologico che prepara la persecuzione, lo sterminio, la guerra a morte, e l’insulto fra pari, un elemento antropologico arcaico che esprime la fisicità della politica, un rituale espressivo che precede il combattimento, a cui ogni politico di professione è preparato (…). C’è anche, lo vediamo sempre più spesso, l’insulto dal basso, contro il potere, che fa parte della strategia comunicativa degli outsider, dei populisti che parlano alla pancia del Paese (prima Bossi, ora Grillo); in bocca ai quali l’insulto è ovvio – meraviglierebbero di più le pacate argomentazioni –. Ma in generale, in una democrazia – che non è uno stato di guerra, di aperto conflitto, di rivoluzione – non deve esserci spazio per l’insulto, per la violenza verbale, come non c’è per la violenza fisica. Il confronto sulle idee e sulle opinioni, per quanto appassionatamente difese, non può essere sostituito dall’assalto alle persone. Se ciò avviene, siamo davanti a una tipologia dell’insulto ancora diversa: all’insulto irresponsabile – che ignora il rischio che la violenza verbale inneschi quella fisica, che l’intolleranza accenda nuovi roghi –, e all’insulto che è una cattiveria vigliacca (magari smentita, fra i sogghigni, il giorno dopo). Astenersene sarebbe un gesto di sobrietà, di tolleranza, di civismo, di buona educazione; anche se la politica non è sempre un pranzo di gala, una “civil conversazione”, non è per nulla detto che la volgarità e la violenza verbale la rendano intensa e drammatica. Negli insulti di oggi (…) si rivela lo squallido degrado della piccola politica, dei piccoli tempi, dei piccoli uomini, della piccola democrazia.
Si sarebbe potuto pensare che l’avvento delle moderne geometrie del potere – un processo che è avvenuto sotto il segno di un’altra bestia biblica, il Leviatano (il titolo dell’opera di Hobbes) – avrebbero eliminato la necessità di personalizzare la politica, trasformandola in un campo di impersonali funzioni di potere, dove si affrontano idee o interessi, forze storiche e orizzonti ideologici; in un mondo adulto, in cui c’è posto per il rapporto amico/ nemico – che è una cosa seria, anzi mortale –, ma che in linea di principio non prevede l’odio personale, il disprezzo morale per l’avversario. Nella politica moderna dovrebbe esserci posto per la violenza oggettiva, ma non per gli infantilismi, per le parolacce. Nulla di meno vero. Quanto più ci si inoltra nella modernità, tanto più la polemica politica si fa accesa, e l’insulto si fa feroce: il mondo moderno è segnato non solo dal potere statale ma anche dalle ideologie, che sono sì impersonali ma hanno bisogno del nemico: inteso però non tanto come avversario da battere, ma come nemico dell’umanità, da eliminare. E quindi mentre permangono i riferimenti alle bestie (nella Marsigliese «tigri senza pietà» vengono chiamati i «despoti sanguinari» contro i quali i «figli della Patria» debbono marciare), nella modernità – in cui gioca un ruolo rilevantissimo l’opposizione vecchio/nuovo (e tutto il valore sta nel secondo termine) – abbondano le dichiarazioni di morte presunta, a carico dell’avversario: che cosa c’è di più vecchio, superato, sorpassato, di un morto? Che cosa c’è di più giusto che porre fine alla non vita di un morto vivente? Non a caso già lo stesso Hobbes definiva la Chiesa di Roma (insieme all’Impero) uno “spettro”, che è in questo mondo ma non dovrebbe esserci (“salma”, come oggi dice Grillo); e sulla stessa linea Togliatti, che da comunista credeva nell’inesorabilità del progresso, usava citare, contro gli avversari politici, due versi dell’Orlando innamorato (nella versione di Berni), in cui si parla di un cavaliere colpito da Orlando, che, non accortosi delle ferite, «andava combattendo, ed era morto». Sull’opposto versante, la violenza verbale di D’Annunzio a Fiume – ricca di non pubblicabili riferimenti scatologici rivolti ai politici di Roma, oltre che di tratti razzistici – anticipa quella di Mussolini contro il Partito Socialista Unitario (spregiativamente definito “pus”) e le ributtanti polemiche antisemitiche del regime, rivolte contro chi non poteva difendersi né ricambiare. L’insulto è, insomma, una forma di violenza politica, che dice poco di chi è insultato, e molto di chi insulta. Si deve quindi distinguere fra l’insulto asimmetrico di un potere ideologico che prepara la persecuzione, lo sterminio, la guerra a morte, e l’insulto fra pari, un elemento antropologico arcaico che esprime la fisicità della politica, un rituale espressivo che precede il combattimento, a cui ogni politico di professione è preparato (…). C’è anche, lo vediamo sempre più spesso, l’insulto dal basso, contro il potere, che fa parte della strategia comunicativa degli outsider, dei populisti che parlano alla pancia del Paese (prima Bossi, ora Grillo); in bocca ai quali l’insulto è ovvio – meraviglierebbero di più le pacate argomentazioni –. Ma in generale, in una democrazia – che non è uno stato di guerra, di aperto conflitto, di rivoluzione – non deve esserci spazio per l’insulto, per la violenza verbale, come non c’è per la violenza fisica. Il confronto sulle idee e sulle opinioni, per quanto appassionatamente difese, non può essere sostituito dall’assalto alle persone. Se ciò avviene, siamo davanti a una tipologia dell’insulto ancora diversa: all’insulto irresponsabile – che ignora il rischio che la violenza verbale inneschi quella fisica, che l’intolleranza accenda nuovi roghi –, e all’insulto che è una cattiveria vigliacca (magari smentita, fra i sogghigni, il giorno dopo). Astenersene sarebbe un gesto di sobrietà, di tolleranza, di civismo, di buona educazione; anche se la politica non è sempre un pranzo di gala, una “civil conversazione”, non è per nulla detto che la volgarità e la violenza verbale la rendano intensa e drammatica. Negli insulti di oggi (…) si rivela lo squallido degrado della piccola politica, dei piccoli tempi, dei piccoli uomini, della piccola democrazia.
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