"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 14 agosto 2019

Letturedeigiornipassati. 29 Guardia Piemontese (Calabria). «5 di giugno dell’anno 1561»: il massacro dei Valdesi.


Tratto da “Il massacro di chi chiedeva non solo pane” di Maurizio Maggiani, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 14 di agosto dell’anno 2018: Porta del sangue. Il sangue di chi?
Raccontano che da questa stretta porta di sorda arenaria il sangue dilagava e a cascata si gettasse in mare a precipizio, laggiù alla marina nel cobalto Tirreno, dicono che fosse così copioso quel sangue che il mare non l’ha voluto tutto e ne è rimasto raggrumato nella scarpata per secoli, secca fiumana di Calabria. Porta del Sangue, il sangue di chi? C’è scritto che il boia è arrivato di buon’ora con il prete, la milizia s’era già sistemata nella notte porta a porta, il prete s’è tenuto discosto, non c’erano anime da salvare, c’era solo da tenere il conto delle perdute, il boia aveva uno straccio. C’è scritto anche che glieli hanno portati sul sagrato, glieli hanno portati di peso uno per uno, glieli hanno messi nelle mani, il boia aveva lo straccio e con lo staccio gli bendava gli occhi, poi li sgozzava. Aveva cura di sgozzarli sul ciglio di un largo che dava su un vico ripido e dritto, il vico si fiondava sul vano della porta del paese, la porta allora si chiamava in altro modo, il sangue ruscellava lungo il vico e prendeva la via della porta verso il mare. Il boia sapeva fare il suo lavoro, se il sangue non fosse sciorinato via gli sarebbe arrivato alla caviglia prima che avesse finito il lavoro, far defluire quel sangue era una pratica questione di igiene. Porta del Sangue, il sangue di chi? Al boia solo quel giorno cinque di giugno gliene hanno portati più di duecento, il conto esatto non c’è, i numeri del prete sono diversi da quelli di Roma, e quelli di Roma difformi dai testimoni superstiti, il boia ha perso presto il conto; gli hanno portato a sgozzare tutto il paese di Guardia, salvo la parte che restasse a tenere bene a mente. Chi è restato non è rimasto in vita, per decenni non si è partorito a Guardia, oggi il paese ha tanta gente quanta ne aveva la vigilia del cinque giugno millecinquecentosessantuno. Chi è restato più che le urla ricorda lo straccio del boia, era zuppo di lacrime e sangue, avercelo sugli occhi era morire ancor prima del coltello. Porta del Sangue, il sangue di chi? Sangue di uomini, donne e bambini, tutto sangue di buoni cristiani, sangue dei liberi cristiani di Guardia la Valda, manca solo il sangue di lui, la pietra dello scandalo, ma lui l’han portato a Roma, il suo sangue valeva di più. Guardia la Valda, Guardia Piemontese; il paese se l’erano eretto tre secoli addietro dei montanari dell’Angrogna, avevano lasciato l’Alpe e traversato per intero l’Appennino fino all’estrema Sila, erano cristiani dell’antica fede valdese che scampavano dalla crociata savoiarda, pensavano di essere arrivati al salvamento e alla libertà nella sperdutezza dell’estremo asprissimo Tirreno. Amavano il Cristo viandante per le strade di Galilea a riparare i torti e gli storpi, il Cristo che predicava il bene e innalzava i miseri, amavano seguirlo in semplice e libera adesione e gli si rivolgevano in confidenza; per questo avevano in disprezzo la gerarchia in generale e in specifico l’autorità sacrilega degli orpelli papali e vescovili. Amavano la pace e in pace vivevano, se il potere sabaudo li crocefiggeva a invidia e in odio al loro portarsi di uomini liberi e linde coscienze, nella Calabria nessuno ha alzato la mano su di loro per tre secoli, troppo distanti da vescovi e baroni, troppo poveri per un saccheggio, ai loro vicini di fede romana non importava altro che la loro natura di uomini buoni, vivevano pasturando le pecore e vendendo le lane, erano poveri come lo erano i loro vicini. E poi hanno fatto la loro pazzia. Avevano saputo del monaco Luther il riformatore, tutta l’Europa ne era stata scossa e la sua voce si era riverberata sin nel lungo dorso degli Appennini, trovavano consonante alla loro antica fede la sua nuova, e al pari dei loro fratelli di Piemonte decisero che avrebbero potuto essere una sola famiglia con i figli della riforma del monaco. E questo li rendeva più vicini e più visibili ai baroni e ai vescovi, era guerra aperta e universale alla riforma del monaco Luther, ma sarebbero stati ancora abbastanza distanti se non avessero preso la decisione di compiere un gesto troppo grande. Vollero avere per loro un libro, il Libro. Il libro della buona notizia che salva, il libro con la parola del Cristo che parlava perché fosse compreso da tutti gli uomini di tutte le terre, il libro che i vescovi romani proibivano come se la parola del Cristo fosse stata serva a loro. Non gli era mai stato in potestà di averlo, i loro predicatori lo riportavano a memoria, ne avevano portato dalle loro valli scarsi lacerti da remote scritture nella lingua occitanica che non comprendevano più. Avevano fame del Libro, volevano comprendere la Parola, volevano imparare a leggerla e soppesarla loro stessi, volevano una confidenza più stretta con il Cristo e il padre suo.
Ora con il monaco riformatore avrebbero potuto averlo, con una nuova invenzione lassù nell’Elvezia venivano alla luce le scritture sacre in ogni lingua dei cristiani; a Guardia deliberarono di mettere da parte due anni del guadagno della tosatura, si sarebbero tolti il pane di bocca per nutrirsi di altro pane, fecero passare la voce della delibera lungo l’Appennino e l’Alpe, e l’alito della loro fame arrivò a Ginevra. A Ginevra tra i mille stampatori c’era Giovanni Pascale. Pascale era un soldato di Piemonte, aveva militato per l’arme dei Sabaudi e li aveva serviti nella crociata contro i liberi cristiani valdesi, era un uomo buono e non tardò a capire, accolse la riforma e migrò nell’Elvezia. Lì non era più un soldato, aveva imparato il mestiere nuovo di stampatore di bibbie, aveva di suo tradotto l’Evangelo nella lingua che conoscevano a Guardia, ne stampò da riempirne una sacca e volle andare lui a insegnare a leggerlo ai valdesi della Calabria. Non fu un viaggio breve e non fu comodo, a rischio della vita per lunghi mesi attraversò a piedi l’Italia in preda alle sue guerre, portava con sé un carico proibito. E alla fine arrivò e volle restare; si fece maestro e predicatore, leggeva e insegnava a leggere, gli piaceva quella gente affamata di non solo pane e non aveva nostalgia di Ginevra. Ma i morti di fame che leggono e comprendono, e leggono a voce alta senza ritegno così che altri possano leggere e comprendere, che altro possono essere se non lo scandalo dell’insubordinazione satanica all’ordine divino? E i liberi cristiani di Calabria vennero agli occhi di Ghislieri l’Inquisitore, il domenicano di ferro, il commissario generale dei boia della santa dottrina, e Ghislieri ordinò ai baroni silani la crociata pena la perdita dei beni, e i baroni mandarono la milizia e il boia; per Giovanni Pascale fu ordinata la traduzione in Roma, non serviva il suo sangue ma la sua abiura. Che non venne; Giovanni Pascale non ha abiurato e è stato bruciato davanti a Castel Sant’Angelo, aveva trentacinque anni, le sue ceneri furono disperse nel fiume. Nella nota spese della società di San Giovanni Decollato addetta ai roghi, assieme al costo delle fascine e di tutto l’armamentario, sono indicati quattro baiocchi per "mezza fojetta de vino". Ius et Lex sono duri a morire, così che anche in tempi papali vigeva l’antica norma romana di ingentilire il condannato con un boccale di vino, e come negli antichi tempi, di loro gli osti avevano la buona norma di aggiungere al vino della trementina, così da stordire il morituro. Per questo il vino offerto al crocefisso sapeva di fiele, e di fiele sapeva anche quello bevuto da Giovanni Pascale. Ecco il sangue di chi.

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