Tratto da “Chi
legge non ha paura”, colloquio di Stefano Massini con Daniel Pennac
pubblicato sul settimanale “Robinson” del 3 di agosto 2019: (…).
Stefano Massini: Non so, caro Daniel, se qualche purista storcerà il naso
davanti a due scrittori che provino a guardare la letteratura con il parametro
esclusivo dell'utilità. Sì: l'utilità. Non la coerenza poetica, non la coesione
formale. Ipotizziamo di trovarci, io e te, sull'oceano dei libri: troviamo un
messaggio dentro una bottiglia. C'è scritto: "con quali libri possiamo
tentare di capire qualcosa di più del tempo presente?...". Ecco, vorrei
che rispondessimo a questo messaggio di qualche lettore naufrago. (…).
Daniel Pennac: Già, i messaggi nella bottiglia. Lanciati nel passato, e aperti oggi. È dal più remoto ieri che i libri ci mettono in guardia contro le conseguenze delle nostre azioni. Per farti un esempio recente: il disastro ecologico - di cui solo ora l'Europa comincia a percepire le conseguenze concrete - lo raccontavano decenni fa Calvino, Ivan Illich, Serge Latouche e tanti altri.
SM: Il messaggio nella bottiglia non è stato
aperto?
DP: Oppure aperto e non compreso. Perché non
è mai semplice. Mi viene da pensare alla domanda che ci pongono sempre i
lettori: "in che rapporto sta il libro con la confusione del nostro tempo?
E soprattutto: come cerca di cambiarne gli squilibri?...". Ti confesso che
ogni volta che me la fanno, mi spaventa sempre un po'. Innanzitutto perché non
credo esista un tempo più complesso di un altro: nessuna epoca è semplice per
chi la vive, per la fondamentale ragione che esistere significa iniziare fin
dall'inizio l'esperienza della complessità, sia individualmente che come
gruppo, famiglia o collettività.
SM: Quindi la confusione per te è una
condizione cronica dell'essere umano.
DP: Credo che la domanda dei nostri lettori
sia l'espressione di una loro profonda preoccupazione, ontologica, prospettica,
che ha a che fare con ben altro: la ricerca di una definizione rassicurante del
reale. Il punto, però, è: che cos'è davvero la realtà? Tu te lo sei mai
chiesto, Stefano?
SM: Azzarderei che la realtà è un
compromesso, molto illusorio (poco reale, paradossalmente) fra quello che noi
sentiamo e quello che ci accade intorno. Il fatto è che noi non conosciamo mai
la verità, ma solo la nostra percezione. E soprattutto in fasi storiche di
spiccato individualismo, è davvero difficile riconoscere la tirannia del punto
di vista: ci piace convincerci di avere una finestra oggettiva sulle cose. Ma
tutto è un punto di vista, tutto è filtrato dal nostro io. Noi non leggiamo la
realtà, bensì sempre "la realtà per noi, con noi, e dentro noi".
DP: A questo proposito, voglio raccontarti
una cosa. L'unica risposta che io abbia mai incontrato in questo ambito è
quello che urlò Lacan (sottolineo: urlò) durante un seminario pomeridiano,
davanti ad un pubblico molto intellettualmente schierato (Barthes, Sartre,
Lévi-Strauss, Pontalis, Starobinski etc...). Cominciò dicendo "Volete sul
serio che vi dica cos'è la realtà?..." e a quel punto, gridando: "LA
REALTÀ È DOVE S'INCEPPA!". L'ho sentito alla radio, ero in macchina. Ho
riso così tanto che ho accostato in un parcheggio: mai sentita una sintesi più
completa e convincente di "reale". Ecco perché non credo ai libri che
affrontano di petto la cronaca: la realtà è ciò che ti scivola dalle mani, non
ti torna, ti spiazza. La realtà è dove s'inceppa. Grande Lacan.
SM: Però ci sono casi in cui i libri hanno
inciso profondamente sulla realtà. Pensa a quello che avvenne con la causa
antischiavista e il romanzo di Harriet Beecher Stowe: è cosa nota che, dopo la
guerra di Secessione, quando Abramo Lincoln la incontrò, le disse "Lei
sarebbe la piccola scrittrice che ha scatenato questa enorme guerra?...".
Ed è fuor di dubbio che La capanna dello zio Tom, uno dei primi veri
bestseller, avesse contribuito a far esplodere la questione.
DP: Si tratta però di casi circoscritti.
Molto più spesso la letteratura esercita la sua influenza a posteriori. E ti
dirò di più: lo fa in modo più o meno imprevisto e casuale: il messaggio nella
bottiglia. Diciamo che in questi casi la letteratura opera due forme di
intervento benefico: prima di orientare gli animi dei posteri, esercita sì un
ruolo miracoloso nel presente, ma nel senso che salva dalla follia esseri umani
bloccati nelle prigioni di una disumanità radicale (penso a Gramsci, a Primo
Levi o Solženicyn, tanto per citarne tre).
SM: Stai dicendo che gli autori di cui ti fidi sono prevalentemente figure in crisi, senza risposte. Mi fa riflettere, perché oggi cerchiamo di continuo dei personal trainer, dei motivatori, dei coach. Chiediamo loro delle risposte. Mentre tu adesso ribalti del tutto la prospettiva, e mi proponi di mettere nella bottiglia titoli di libri scritti da chi nella vita ha perso tutto, si trova al confino, agli arresti, a rischio di vita. Sto dicendo che Gramsci, Levi e Solženicyn per la loro epoca erano dei perdenti. Gente da cui non aspettarsi certo la rotta del successo, ma solo diari di tentativi.
DP: I libri sono tentativi. Tentativi di
portare un po' di luce in una stanza buia. Tentativi di rimettere un minimo
d'ordine nel casino immane in cui tutto va per la sua strada. Ma ripeto:
parliamo di tentativi.
SM: Mi piace l'idea di affrontare proprio
con te questa sfida, e c'è una ragione - che conosci bene - legata al nostro
incontro di fine maggio a Marsiglia. Lì scoprimmo di essere in qualche modo
legati dal comune innamoramento per un romanzo ungherese, La porta di Magda
Szabò. Lo ritengo un testo esemplare, proprio perché l'autrice sembra
sopraffatta dalla realtà, non riesce a padroneggiarla.
DP: Sono d'accordo con te. Amo quel libro
proprio perché il narratore - che poi è una penna di alto livello, consapevole
dei suoi mezzi di analisi e della sua capacità di descrivere - esce a pezzi,
disfatta, annientata dall'impresa di delineare un soggetto apparentemente
semplicissimo come la sua vecchia domestica. Per quanto si sforzi, non riesce a
comprenderla. Ecco, in letteratura mi è sempre piaciuta la descrizione di
questi sforzi titanici ma umiliati. Il notaio nel Bartleby di Melville, ad
esempio, si trova di fronte all'enigmatico rifiuto del giovane:
"Preferirei non farlo". E la verità è che in fondo la domestica e lo
scrivano - che in teoria sono pilastri dei rispettivi libri - mi interessano
meno del notaio di Melville o del narratore della Szabò, i cui sforzi impotenti
mi affascinano un sacco.
SM: Direi allora che - dopo Gramsci, Levi e
Solženicyn - abbiamo altri due titoli da chiudere nella bottiglia: La porta e
Bartleby lo scrivano. Per quanto non siano stati scritti oggi, li definirei
letture essenziali perché antitetiche rispetto all'ossessione odierna per
perimetrare la vita altrui, etichettandola da un profilo social o dal tono di
un tweet. Hai ragione tu: sia nel racconto di Melville che nel romanzo della Szabò
assistiamo a un'indagine inutile, vana, catastrofica, improntata al principio
per cui "delle motivazioni di chi ti sta davanti tu in realtà non sai
niente".
DP: Sono capolavori della frustrazione.
Aggiungerei che il campione di questo tipo di scrittura, negli ultimi decenni,
è senza dubbio Philip Roth nella sua trilogia americana. In ciascuno di questi
romanzi egli descrive un blocco di certezze, un monolite che coincide con il
suo personaggio centrale. Il punto è che questo sistema granitico inizia a
mostrare una crepa da un minuscolo dettaglio (la frase di un insegnante in La
macchia umana) o da un evento (l'attentato dinamitardo in Pastorale americana)
e finisce per disfarsi del tutto. Lo splendore di questi romanzi sta nello
sforzo del personaggio centrale di dare un senso a ciò che gli sfugge, a ciò
che non può afferrare, perché "la realtà è dove s'inceppa".
SM: Dunque prepariamo un'altra bottiglia con
Philip Roth. Nel frattempo sto pensando a tutti i mille guai di cui sono
costellate le pagine dei nostri quotidiani, e mi chiedo se esista per ciascuno
un anticorpo letterario.
DP: Possiamo tentare, se vuoi, un'altra
strada. Una provocazione. Proviamo a pensare come sarebbe un mondo in cui i
grandi capolavori del passato avessero davvero raggiunto l'obiettivo implicito
che si poneva il loro autore: grazie all'Iliade avremmo un pianeta senza ombra
di guerra; grazie a La metamorfosi di Kafka saremmo tutti liberi da complessi e
paure. Vado avanti: Dostoevskij con I demoni ci avrebbe liberati dal terrorismo,
Vasilij Grossman con Vita e destino avrebbe spazzato via per sempre i regimi.
SM: Non ci sarebbero più colonialismi dopo
Passaggio in India di Forster, né pregiudizi razziali dopo Il buio oltre la
siepe di Harper Lee.
DP: Non avremmo più fake news per merito di
Shakespeare col suo Otello, non ci sarebbe spazio per la dittatura della
maggioranza grazie a Elias Canetti, né esisterebbe un solo omofobo dopo aver
letto La ricerca del tempo perduto. Stessa cosa per gli antisemiti dopo aver
letto Levi. Aggiungo: zero consumismo per Leonia di Calvino, zero capri
espiatori per René Girard. Insomma: se davvero la letteratura avesse trionfato,
tutto scorrerebbe liscio. Tutt'al più mangeremmo tutti interiora di animali a
colazione, emuli del signor Bloom di Joyce...
SM: Abbiamo riempito una decina di
bottiglie...
DP: È chiaro che il mio è uno scherzo, ma
non c'è dubbio che da sempre la letteratura ci insegna su noi stessi e ci mette
in guardia contro noi stessi, individualmente e collettivamente. A noi
ascoltarla o meno. Che lo facciamo o no, la cultura ci garantisce l'esistenza
di uno sguardo lucido. A chi vuole, i libri danno una chance di alzarsi sopra
il gran bordello delle cose e tentare una lettura di ciò che altrimenti sarebbe
illeggibile.
SM: Vuoi farmi un esempio?
DP: Lo chiedo io a te, interpellandoti su
tre parole-chiave... Ma non aspettarti grandi temi d'attualità. Credo che per i
nostri lettori dobbiamo partire da qualcosa di piccolo, come il nostro rapporto
con il DUBBIO.
SM: In questo caso ti proporrei di
riscoprire Jakob von Gunten di Robert Walser. La bellezza del libro sta nel
fatto che niente è chiaro: all'Istituto Benjamenta - una scuola per diplomare
maggiordomi - non si capisce quale sia il metodo, se vi sia un criterio
formativo o selettivo, eppure tutto assume un suo sinistro senso, prendendo
forma dallo sbando.
DP: E se ti dicessi invece il tema
dell'INNOCENZA?
SM: Suggerirei subito quel capolavoro che è
La panne di Dürrenmatt: un agente di commercio ha un guasto all'automobile, si
ferma per una notte in campagna ospite di un vecchio magistrato. E per un gioco
spietato, si trova imputato in un processo allestito nel tinello per tutta la
notte. Crede di non avere macchie, in realtà si scopre orribile. Metterei
questo titolo nella bottiglia perché in fondo tutto il sistema dei social
(hater, fake news, ecc.) si regge su una presunta innocenza di chi attacca gli
altri, senza mai guardarsi allo specchio. Senza autocritica.
DP: Terza parola che ti propongo è GENTILEZZA,
oggi del tutto svalutata.
SM: Rispondo con La famiglia Karnowski di
Israel J. Singer perché rappresenta un sismografodellento volgere
dell'Occidente verso il ringhio dei regimi totalitari. Anche in quel caso, la
perdita di gentilezza - come la chiami tu - fu il primo sintomo della
patologia. E ti confido che questo nostro rapido volgere dalla cordialità
all'aggressione, mi ricorda davvero molto quello scenario.
DP: Allora ho pronte tre bottiglie con i
libri di Walser, Dürrenmatt e Singer. Anch'io però ti faccio una piccola
confidenza, che ha a che fare con un'utopia. Sogno un'umanità in cui tutti
abbiano letto, assimilato e ammesso per inconfutabile l'unica soluzione
proposta da Montesquieu nella sua Favola dei Troglodytes: SOLIDARIETÀ. Credo che
l'umanità morirà proprio per mancanza di solidarietà. Ti sembra
un'inaccettabile semplificazione? Può darsi, ma quello di Montesquieu è un
testo davvero per tutti, un librettino, impossibile non capirlo. E io sono un
ragazzo semplice, guarito dai libri.
SM: Guarito da quale malattia?
DP: Dalla disperazione per un futuro che non
vedevo. E forse tuttora stento a vederlo: a volte credo che il grande sogno
dell'Occidente finirà in un incubo. Ma sono stati i libri a salvarmi dalla
tristezza cronica, perché la loro grandezza sta nell'assolvere a una doppia
funzione. Da un lato i libri ti parlano del tuo tempo, ma dall'altro lato è
indubbio che leggendo perdiamo la nostra età, il nostro vivere qui e ora: chi è
immerso nella lettura - come il sognatore o l'amante - non è più un consumatore
o un cittadino, vive in un universo più grande, quello della letteratura, per
definizione atemporale. Ecco la ragione per cui, potendo scegliere fra aprire
il gas e aprire un libro, scelgo ancora di aprire il libro. Ti pare poco?
Meraviglioso e coinvolgente questo post, ricco di tante, importanti verità. Sicuramente i libri ci regalano nuovi occhi per guardare il mondo e hanno il potere di aprire sia la mente che il cuore. Ma, soprattutto hanno una sicura funzione terapeutica per l'essere umano. Grazie per questa condivisione e ancora buon lavoro.
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