Riporta Siegmund Ginzberg nel Suo straordinario
volume “Risse da stadio nella Bisanzio
di Giustiniano” (Rizzoli editore, 2008, pagg. 406, € 19.00) - con
sottotitolo “le notizie di ieri raccontano il mondo di oggi” - molto
esplicativo ed attinente assai alla miserevole, recente storia della politica
del bel paese, riporta alla pagina 364 del Suo lavoro – capitolo che ha per
titolo “Chiare, fresche e dolci tasse”
– quanto l’Aretino – l’Aretino chi? formulerebbe stupito il “capitano della
lega” – annotava a proposito dei reggitori della cosa pubblica: «non
v’è stoltezza maggiore né cosa più contraria alla conservazione del principato
che il volere da tutti essere temuto. (…). …nessuno può essere così stolido e
ignorante da non rendersi conto che timore e sicurezza non possono stare
insieme».
È come – il sottotitolo del volume rende bene il valore di quel lavoro editoriale - se un arguto argomentatore a noi contemporaneo venisse a dipingerci la figura di quel “capitano” con le aggettivazioni del grande poeta. E più oltre – alla pagina 368 - Siegmund Ginzberg riporta di quel grande quali debbano essere le preoccupazioni dell’uomo pubblico e da cosa lo stesso dovesse convenientemente riguardarsi per il bene del suo ufficio: «Fin qui delle cure che ad un principe si convengono per provvedere alle cose più necessarie non so se poco o se troppo abbia io parlato. Del lusso nei banchetti, nei teatri…ed in altrettanti spettacoli che nulla apportano di vantaggio, e e recan solo breve, non sempre onesto né di animi onesti degno diletto, benché assai se ne piaccia quel falso estimatore delle cose che è il volgo, io son d’avviso doversi un buon principe dare alcun pensiero». L’Aretino chi? blatererebbe quel “capitano” di sventura. Mi giunge dall’amico carissimo Gerardo C. una lettera fortunosamente sottratta all’oblio della Rete, lettera a firma di un insegnante della scuola pubblica del bel paese. Scrive l’insegnante a firma Enrico Galiano: Caro Ministro dell’Interno Matteo Salvini, ho letto in un tweet da Lei pubblicato questa frase: “Per fortuna che gli insegnanti che fanno politica in classe sono sempre meno, avanti futuro!”. Bene, allora, visto che fra pochi giorni ricominceranno le scuole, e visto che sono un insegnante, Le vorrei dedicare poche semplici parole, sperando abbia il tempo e la voglia di leggerle. Partendo da quelle più importanti: io faccio e farò sempre politica in classe. Il punto è che la politica che faccio e che farò non è quella delle tifoserie, dello schierarsi da una qualche parte e cercare di portare i ragazzi a pensarla come te a tutti i costi. Non è così che funziona la vera politica. La politica che faccio e che farò è quella nella sua accezione più alta: come vivere bene in comunità, come diventare buoni cittadini, come costruire insieme una polis forte, bella, sicura, luminosa e illuminata. Ha tutto un altro sapore, detta così, vero? Ecco perché uscire in giardino e leggere i versi di Giorgio Caproni, di Emily Dickinson, di David Maria Turoldo è fare politica. Spiegare al ragazzo che non deve urlare più forte e parlare sopra gli altri per farsi sentire è fare politica. Parlare di stelle cucite sui vestiti, di foibe, di gulag e di tutti gli orrori commessi nel passato perché i nostri ragazzi abbiano sempre gli occhi bene aperti sul presente è fare politica. Fotocopiare (spesso a spese nostre) le foto di Giovanni Falcone, di Malala Yousafzai, di Stephen Hawking, di Rocco Chinnici e dell’orologio della stazione di Bologna fermo alle 10.25 e poi appiccicarle ai muri delle nostre classi è fare politica. Buttare via un intero pomeriggio di lezione preparata perché in prima pagina sul giornale c’è l’ennesimo femminicidio, sedersi in cerchio insieme ai ragazzi a cercare di capire com’è che in questo Paese le donne muoiono così spesso per la violenza dei loro compagni e mariti, anche quello, soprattutto quello, è fare politica. Insegnare a parlare correttamente e con un lessico ricco e preciso, affinché i pensieri dei ragazzi possano farsi più chiari e perché un domani non siano succubi di chi con le parole li vuole fregare, è fare politica. Accidenti se lo è. Sì, perché fare politica non vuol dire spingere i ragazzi a pensarla come te: vuol dire spingerli a pensare. Punto. È così che si costruisce una città migliore: tirando su cittadini che sanno scegliere con la propria testa. Non farlo più non significa “avanti futuro”, ma ritorno al passato. E il senso più profondo, sia della parola scuola che della parola politica, è quello di preparare, insieme, un futuro migliore. E in questo senso, soprattutto in questo senso, io faccio e farò sempre politica in classe. Ma cosa ne può sapere quel “capitano” lì dell’essere insegnanti? Nulla. Come può percepire quel “capitano” lì la tensione propria di chi nella scuola ambisce a non essere un meccanico trasmettitore di sterili nozioni ma quel punto di riferimento ben evidenziato nella lettera affinché i ragazzi non siano indotti erroneamente «a pensarla come te a tutti i costi». Lo capirà mai quel “capitano” lì che lo sforzo di tanti professori nella scuola è di superare lo stadio dei trasmettitori di nozioni per ambire a divenire “Maestri” di vita? Lo capirà mai quel “capitano” lì? Ne dubito. Ha scritto il pedagogista Raniero Regni sulla rivista “School in Europe” in “Essere insegnanti, divenire maestri”: «(…). Un maestro ti aiuta a conquistare uno stile, ovvero il contrassegno di quello che sei in quello che fai. Possedendo e mostrando il suo ti aiuta a conquistare il tuo. I grandi maestri (…) arano a fondo nel terreno dell’umano, sono primitivi e inattuali, non si gingillano con le cose senza peso, escono e fanno uscire dal quotidiano, non fermano quando li si incontra, né inducono a fare la loro strada, ma invogliano a cercare liberamente ognuno la sua e percorrerla. (…)». Quel “capitano” lì non lo potrà mai e poi mai comprendere. Scrive Siegmund Ginzberg alle pagine 381-382 di quello straordinario volume a proposito del lavoro teatrale “Aspettando Godot” Samuel Beckett: «Vivere è attendere. Politica è attendere. Si può attendere con fiducia, speranza, addirittura fede, e attendere con disperazione. O anche solo con rassegnazione, perché tanto non si può fare altro che attendere. Si può attendere la salvezza, o attendere catastrofi, senza che vangano né l’una né le altre. Quando qualcosa viene si ricomincia da capo, ad attendere qualcos’altro. Tutto è attendere, tutti attendiamo. Il problema però non è solo cosa attendiamo e se verrà (l’unica cosa assolutamente certa tendiamo a non attenderla, e quando viene spesso è inattesa). Ce n’è un altro, che emerge con prepotenza dalle battute del Godot: la noia dell’attesa».
È come – il sottotitolo del volume rende bene il valore di quel lavoro editoriale - se un arguto argomentatore a noi contemporaneo venisse a dipingerci la figura di quel “capitano” con le aggettivazioni del grande poeta. E più oltre – alla pagina 368 - Siegmund Ginzberg riporta di quel grande quali debbano essere le preoccupazioni dell’uomo pubblico e da cosa lo stesso dovesse convenientemente riguardarsi per il bene del suo ufficio: «Fin qui delle cure che ad un principe si convengono per provvedere alle cose più necessarie non so se poco o se troppo abbia io parlato. Del lusso nei banchetti, nei teatri…ed in altrettanti spettacoli che nulla apportano di vantaggio, e e recan solo breve, non sempre onesto né di animi onesti degno diletto, benché assai se ne piaccia quel falso estimatore delle cose che è il volgo, io son d’avviso doversi un buon principe dare alcun pensiero». L’Aretino chi? blatererebbe quel “capitano” di sventura. Mi giunge dall’amico carissimo Gerardo C. una lettera fortunosamente sottratta all’oblio della Rete, lettera a firma di un insegnante della scuola pubblica del bel paese. Scrive l’insegnante a firma Enrico Galiano: Caro Ministro dell’Interno Matteo Salvini, ho letto in un tweet da Lei pubblicato questa frase: “Per fortuna che gli insegnanti che fanno politica in classe sono sempre meno, avanti futuro!”. Bene, allora, visto che fra pochi giorni ricominceranno le scuole, e visto che sono un insegnante, Le vorrei dedicare poche semplici parole, sperando abbia il tempo e la voglia di leggerle. Partendo da quelle più importanti: io faccio e farò sempre politica in classe. Il punto è che la politica che faccio e che farò non è quella delle tifoserie, dello schierarsi da una qualche parte e cercare di portare i ragazzi a pensarla come te a tutti i costi. Non è così che funziona la vera politica. La politica che faccio e che farò è quella nella sua accezione più alta: come vivere bene in comunità, come diventare buoni cittadini, come costruire insieme una polis forte, bella, sicura, luminosa e illuminata. Ha tutto un altro sapore, detta così, vero? Ecco perché uscire in giardino e leggere i versi di Giorgio Caproni, di Emily Dickinson, di David Maria Turoldo è fare politica. Spiegare al ragazzo che non deve urlare più forte e parlare sopra gli altri per farsi sentire è fare politica. Parlare di stelle cucite sui vestiti, di foibe, di gulag e di tutti gli orrori commessi nel passato perché i nostri ragazzi abbiano sempre gli occhi bene aperti sul presente è fare politica. Fotocopiare (spesso a spese nostre) le foto di Giovanni Falcone, di Malala Yousafzai, di Stephen Hawking, di Rocco Chinnici e dell’orologio della stazione di Bologna fermo alle 10.25 e poi appiccicarle ai muri delle nostre classi è fare politica. Buttare via un intero pomeriggio di lezione preparata perché in prima pagina sul giornale c’è l’ennesimo femminicidio, sedersi in cerchio insieme ai ragazzi a cercare di capire com’è che in questo Paese le donne muoiono così spesso per la violenza dei loro compagni e mariti, anche quello, soprattutto quello, è fare politica. Insegnare a parlare correttamente e con un lessico ricco e preciso, affinché i pensieri dei ragazzi possano farsi più chiari e perché un domani non siano succubi di chi con le parole li vuole fregare, è fare politica. Accidenti se lo è. Sì, perché fare politica non vuol dire spingere i ragazzi a pensarla come te: vuol dire spingerli a pensare. Punto. È così che si costruisce una città migliore: tirando su cittadini che sanno scegliere con la propria testa. Non farlo più non significa “avanti futuro”, ma ritorno al passato. E il senso più profondo, sia della parola scuola che della parola politica, è quello di preparare, insieme, un futuro migliore. E in questo senso, soprattutto in questo senso, io faccio e farò sempre politica in classe. Ma cosa ne può sapere quel “capitano” lì dell’essere insegnanti? Nulla. Come può percepire quel “capitano” lì la tensione propria di chi nella scuola ambisce a non essere un meccanico trasmettitore di sterili nozioni ma quel punto di riferimento ben evidenziato nella lettera affinché i ragazzi non siano indotti erroneamente «a pensarla come te a tutti i costi». Lo capirà mai quel “capitano” lì che lo sforzo di tanti professori nella scuola è di superare lo stadio dei trasmettitori di nozioni per ambire a divenire “Maestri” di vita? Lo capirà mai quel “capitano” lì? Ne dubito. Ha scritto il pedagogista Raniero Regni sulla rivista “School in Europe” in “Essere insegnanti, divenire maestri”: «(…). Un maestro ti aiuta a conquistare uno stile, ovvero il contrassegno di quello che sei in quello che fai. Possedendo e mostrando il suo ti aiuta a conquistare il tuo. I grandi maestri (…) arano a fondo nel terreno dell’umano, sono primitivi e inattuali, non si gingillano con le cose senza peso, escono e fanno uscire dal quotidiano, non fermano quando li si incontra, né inducono a fare la loro strada, ma invogliano a cercare liberamente ognuno la sua e percorrerla. (…)». Quel “capitano” lì non lo potrà mai e poi mai comprendere. Scrive Siegmund Ginzberg alle pagine 381-382 di quello straordinario volume a proposito del lavoro teatrale “Aspettando Godot” Samuel Beckett: «Vivere è attendere. Politica è attendere. Si può attendere con fiducia, speranza, addirittura fede, e attendere con disperazione. O anche solo con rassegnazione, perché tanto non si può fare altro che attendere. Si può attendere la salvezza, o attendere catastrofi, senza che vangano né l’una né le altre. Quando qualcosa viene si ricomincia da capo, ad attendere qualcos’altro. Tutto è attendere, tutti attendiamo. Il problema però non è solo cosa attendiamo e se verrà (l’unica cosa assolutamente certa tendiamo a non attenderla, e quando viene spesso è inattesa). Ce n’è un altro, che emerge con prepotenza dalle battute del Godot: la noia dell’attesa».
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