"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 18 agosto 2019

Terzapagina. 95 «The Game».


Tratto da «Ecco 'I Barbari 2': si intitola 'The Game'» di Alessandro Baricco, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 3 di aprile dell’anno 2018: (…). La Silicon Valley è uno di quei pezzi d’America che potrebbero essere ovunque, in America. È quel genere di posto in cui per andare dal barbiere prendi l’autostrada. In alternativa ti perdi in giganteschi quartieri di villette, disegnati come parole crociate, ogni casella una villetta, le caselle nere sono quelle in cui il padre ha perso il lavoro e vedi le erbacce in giardino (qui non ce ne sono, peraltro: tutti hanno un lavoro). In una di quelle caselle, per inciso, son andato a omaggiare uno dei luoghi sacri dell’insurrezione digitale: il garage dove Steve Jobs e Steve Wozniack, ragazzetti, iniziarono a lavorare. Aveva due cassonetti davanti, il portone bianco e l’aria di non ricordarsi di nulla. Tipico della civiltà digitale. Non sa cosa farsene del sacro. Le città hanno nomi che sono diventati epici: Palo Alto, Mountain View, Cupertino, Menlo Park. Ti immagini posti fighissimi, ma alla fine, a parte villette e villone, c’è la solita via centrale, downtown, elegantina, dove i ristoranti sono amabili ma i negozi d’arredamento, per dire, sono da querela. Certi salotti che in Brianza sono passati di moda ai tempi di Fanfani. È difficile capire. Cerchi i segni di un’umanità che dovrebbe stare anni davanti a tutti gli altri e alla fine ti ritrovi con i sofà in stile gotico country. Mah. Che poi, per uno spiritoso equivoco, mi sono ritrovato in un motel in stile Indiani d’America, nel senso che c’erano le abat-jour di vacchetta, le volpi di legno sul comodino e ritratti di indiani Pawnee alle pareti: ma non una roba etnica, o politicamente corretta, no, proprio quel genere di immaginario chip che poteva avere una signora coi bigodini negli anni ’50. Infatti all’ingresso c’era la foto dell’inaugurazione, 1959, tutti in bianco e nero a sorridere al fotografo. La fierezza aleggia ancora nell’aria, come sono ancora lì le pelli di vacca alle pareti e i tappeti falso-Comanche per terra. È una cosa che mi ha fatto pensare, perché a dieci minuti da lì ci sono i quartieri generali della Apple, per dire, e quindi ho finito per fare una sorta di equazione: se questi, che stanno a uno sputo da Google, dalla Apple, da Facebook, e da migliaia di start up digitali, se questi stanno ancora qua con le abat-jour in vacchetta, archi e frecce alle pareti, e piccoli bisonti di legno come suppellettili, cosa diavolo stiamo a preoccuparci noi, a migliaia di chilometri di distanza, che ci portino via le madonne fiamminghe e la musica di Schubert? No, dico sul serio, sarà mica che ci facciamo delle paranoie senza senso? Ce le facciamo, è ovvio, (…), fuggendo dal disastro del Novecento. E in effetti, dopo un po’ mi son visto crescere sotto agli occhi una mappa, sicuramente imprecisa, ma abbastanza credibile, zeppa di cose che non sapevo, e di continenti che intuivo ma non avevo mai misurato bene, o oceani che non sapevo esistessero e adesso erano lì. E man mano che cresceva - ogni tanto lasciandomi secco dalla sorpresa, per certe combinazioni di eventi, o meraviglie di design mentale - man mano che cresceva vedevo salire su da non so dove un nome che non ne voleva sapere di andarsene, tanto che alla fine sono arrivato a concludere che probabilmente è il nome della civiltà in cui viviamo. (…). The Game. Non sono mai cose casuali, comunque: se il Game è nato proprio lì, nella Silicon Valley, la cosa aveva le sue ragioni. Nel giro di pochi chilometri c’erano: i militari, l’industria aerospaziale, una valanga di produttori di microchip, un’Università come Stanford, Hollywood (senza sogni non si va da nessuno parte), i pionieri della science computer (la Hewlett-Packard), e soprattutto: una gran numero di sciroccati hippy: la controcultura californiana. Mescolate, shakerate, e ottenete Steve Jobs. Questa è una cosa che ci ho messo un po’ a capire: mi sembrava una rivoluzione tutta guidata da ingegneri e tecnocrati, ma non avevo fatto i conti con l’anomalia californiana. Da noi se negli anni Settanta avevi un cognato ingegnere informatico, non è che ci passavi le sere fumando spinelli, ecco, né pensavi che potesse avere in mente di sfasciare il sistema. Era già tanto se non andava in Chiesa. Ma lì, in California, il cognato ingegnere spesso aveva i capelli lunghi, si lavava poco, aveva tendenze nerd, si chiamava hacker, spendeva tutto il suo tempo in oscuri laboratori di computer science e sul mondo aveva un’idea molto elementare: era da rifare. Di fatto, in quei posti, ai tempi, se c’erano dieci ventenni a cui la way of life dei padri faceva schifo, cinque sfilavano contro la guerra in Vietnam, tre praticavano il libero amore su un pullmino Volkswagen e due stavano in un laboratorio a programmare videogame. È bene sapere che noi viviamo nella civiltà immaginata dagli ultimi due. Volevano cambiare il mondo, ho poi capito, e lo fecero con un sistema da ingegneri, da cui ho finito per imparare molto. Nel modo migliore l’ha sintetizzato, in un’intervista, Stewart Brand, un uomo di cui non sapevo nulla, fino a qualche mese fa. Era (è) una specie di profeta, molto noto nella Silicon Valley, un beat che girava con il giubbotto di daino con le frange, sperimentava gli effetti dell’LSD e nel frattempo bazzicava i migliori laboratori di computer science. Be’, una volta, in un’intervista, disse questa cosa: «Puoi cercare di cambiare la testa alla gente, ma perderai solo il tuo tempo. Quello che puoi fare è cambiare gli strumenti che usa. Fallo e cambierai la civiltà». Pensateci bene e d’improvviso vi sembrerà molto più chiaro quello che è successo negli ultimi trent’anni.
Stewart Brand è anche il primo uomo che abbia messo nero su bianco l’idea che ogni umano dovesse avere sulla scrivania un suo computer. Lo disse quando la cosa suonava tipo «fra vent’anni tutti si opereranno alle adenoidi da soli, a mani nude, davanti alla tivù». Lui lo scrisse, in un articolo poi diventato mitico su Rolling Stone, e la cosa interessante è che l’articolo, in effetti, era una sorta di reportage su un oggetto molto preciso: Spacewar, il primo videogioco della storia. La ragione era semplice: Spacewar, scrisse Brand, è la sfera di cristallo in cui si può leggere il futuro della computer science. Qualche anno dopo, a un convegno di designer, chiamarono Steve Jobs a fare uno speech. Lui non era ancora Steve Jobs, semplicemente andò perché lo pagavano. Arrivato in sala si rese conto che non c’era uno, neanche uno, che sapeva cos’era un software. Va be’, provo a spiegare, disse. E per spiegare, che esempio fece? Pong, un videogame, sapete quello con le due racchette che andavano su e giù, e quella bastarda di pallina… C’era da uscirne pazzi. No, lo dico per farvi capire com’è che quel nome, The Game, più studiavo più spuntava fuori. Ah. Vi ricordate «Stay hungry, stay foolish», la famosa frase che compare su tutte le immaginette di Steve Jobs? Be’, non era sua. Lo ammise lui stesso, citandola, non era sua. Sapete di chi era? Stewart Brand. (…). La cosa interessante è che quegli uomini siamo noi, quella civiltà è la nostra, e quella storia la nostra storia.

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