Tratto da “Essere
giusti rende felici” di Umberto Galimberti pubblicato sul settimanale “D”
del 9 di agosto dell’anno 2014: Adesso che la religione è in declino e l'uso
della ragione sempre più diffuso, possiamo tornare alla morale kantiana: la
virtù è felicità in se stessa. Non sopravvaluto il cristianesimo, ma non posso
negare che l'Occidente è profondamente cristiano in tutte le sue espressioni,
persino quelle atee, perché in Occidente, anche quando si nega Dio, si pensa al
Dio cristiano.
Il cristianesimo, a differenza della grecità che collocava l'età dell'oro nel passato e guardava al futuro come un'epoca di progressiva decadenza (si veda a questo proposito la Teogonia di Esiodo), ha generato nella cultura occidentale una notevole dose di ottimismo, proiettando nel futuro la speranza di una vita ultraterrena capace di lenire l'angoscia della morte. Questa tonalità ottimistica ha permeato di sé anche la scienza, che guarda al futuro come al tempo del progresso; la medicina che, che con le sue ricerche, ripone nel futuro la speranza della guarigione; la sociologia che, sia nella sua versione riformista sia in quella utopica e in quella rivoluzionaria, guarda al futuro come al tempo in cui è possibile realizzare una migliore giustizia sulla terra. Tutto è cristiano in Occidente, perché il cristianesimo ha inaugurato questa nuova concezione del tempo, non più "ciclico" secondo i ritmi della natura, ma "escatologico", dove alla fine (éschaton) si sarebbe realizzato quello che all'inizio era stato promesso. E forse, proprio perché promosso da questa fiducia nel futuro, l'Occidente, senza finte ipocrisie, ha sopravanzato le altre culture. Persino la rivoluzione francese e l'illuminismo, (…), ripropongono, in forma secolarizzata, i valori cristiani di libertà, uguaglianza e fraternità. Quanto agli dèi dell'Olimpo, (…) sono un grande scenario dei sentimenti umani: Zeus è il potere, Atena l'intelligenza, Afrodite la sessualità, Ares l'aggressività, Apollo la bellezza, Dioniso la follia. E siccome, a differenza dell'impulso e dell'emozione, i sentimenti non sono doti naturali ma culturali, è necessario insegnarli e apprenderli come hanno fatto tutte le culture con i loro racconti mitici, e come facevano le nostre nonne con le favole che, prima di dormire, raccontavano ai piccoli per insegnare cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è ingiusto. Oggi queste narrazioni non avvengono più e i giovani, quando stanno male, non sanno riconoscere di che cosa soffrono. E questo accresce l'angoscia. Le religioni, lo dice la parola stessa, hanno sempre avuto il compito di "re-legare", ossia di contenere quanto di pericoloso, di selvaggio, di violento, di spaventoso dovesse affacciarsi nella vita. E sotto questo profilo hanno compiuto un'opera di terapia collettiva, portando l'umanità da uno stato selvaggio a una condizione che oggi possiamo definire più civile. Se poi hanno operato con una logica premiale, promettendo la felicità a chi si fosse comportato secondo virtù, questo è fuori dubbio. Ma oggi che le religioni sono in declino e l'uso della ragione è più affermato e diffuso di un tempo, senza dover ricorrere alle religioni orientali, nessuno ci impedisce di accedere alla morale kantiana secondo la quale: la virtù è felicità in se stessa. E per convincersene basta farne esperienza.
Il cristianesimo, a differenza della grecità che collocava l'età dell'oro nel passato e guardava al futuro come un'epoca di progressiva decadenza (si veda a questo proposito la Teogonia di Esiodo), ha generato nella cultura occidentale una notevole dose di ottimismo, proiettando nel futuro la speranza di una vita ultraterrena capace di lenire l'angoscia della morte. Questa tonalità ottimistica ha permeato di sé anche la scienza, che guarda al futuro come al tempo del progresso; la medicina che, che con le sue ricerche, ripone nel futuro la speranza della guarigione; la sociologia che, sia nella sua versione riformista sia in quella utopica e in quella rivoluzionaria, guarda al futuro come al tempo in cui è possibile realizzare una migliore giustizia sulla terra. Tutto è cristiano in Occidente, perché il cristianesimo ha inaugurato questa nuova concezione del tempo, non più "ciclico" secondo i ritmi della natura, ma "escatologico", dove alla fine (éschaton) si sarebbe realizzato quello che all'inizio era stato promesso. E forse, proprio perché promosso da questa fiducia nel futuro, l'Occidente, senza finte ipocrisie, ha sopravanzato le altre culture. Persino la rivoluzione francese e l'illuminismo, (…), ripropongono, in forma secolarizzata, i valori cristiani di libertà, uguaglianza e fraternità. Quanto agli dèi dell'Olimpo, (…) sono un grande scenario dei sentimenti umani: Zeus è il potere, Atena l'intelligenza, Afrodite la sessualità, Ares l'aggressività, Apollo la bellezza, Dioniso la follia. E siccome, a differenza dell'impulso e dell'emozione, i sentimenti non sono doti naturali ma culturali, è necessario insegnarli e apprenderli come hanno fatto tutte le culture con i loro racconti mitici, e come facevano le nostre nonne con le favole che, prima di dormire, raccontavano ai piccoli per insegnare cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è ingiusto. Oggi queste narrazioni non avvengono più e i giovani, quando stanno male, non sanno riconoscere di che cosa soffrono. E questo accresce l'angoscia. Le religioni, lo dice la parola stessa, hanno sempre avuto il compito di "re-legare", ossia di contenere quanto di pericoloso, di selvaggio, di violento, di spaventoso dovesse affacciarsi nella vita. E sotto questo profilo hanno compiuto un'opera di terapia collettiva, portando l'umanità da uno stato selvaggio a una condizione che oggi possiamo definire più civile. Se poi hanno operato con una logica premiale, promettendo la felicità a chi si fosse comportato secondo virtù, questo è fuori dubbio. Ma oggi che le religioni sono in declino e l'uso della ragione è più affermato e diffuso di un tempo, senza dover ricorrere alle religioni orientali, nessuno ci impedisce di accedere alla morale kantiana secondo la quale: la virtù è felicità in se stessa. E per convincersene basta farne esperienza.
Carissimo Aldo, ho apprezzato moltissimo questo post, sia per il problema che affronta che per la chiarezza puntuale dello stile di Galimberti. L'uomo virtuoso è felice, perché la virtù è una conquista e perché l'essere virtuosi porta quella pace interiore, della quale, una volta sperimentata, non si può più fare a meno. Per diventare virtuosi, bisogna prima di tutto conoscere il Bene, poi amarlo e desiderarlo e solo allora si riuscirà a vivere moralmente. Sarà necessario, quindi, mettere in atto una costante vigilanza critica nei confronti di sé stessi, dando continuamente ascolto alla "voce della coscienza". Pertanto, secondo me, l'uomo, per conquistare la virtù e la felicità, deve impegnare proficuamente ragione, sentimento e volontà. Grazie e buon lavoro. Agnese A.
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