Di “odio” italiano ne scrive Giuseppe Genna nel
numero del 4 di agosto del settimanale L’Espresso – “Odio. Un’estate italiana”: «Spero che Dio ascolti le mie preghiere e
che affondi tutti i barconi». Scriveva Tobias Jones – corrispondente inglese
dall’Italia – in “Il cuore oscuro
dell’Italia” (Rizzoli, 2003): (…). In Italia la violenza civile è
fortissima (…). È una cosa anormale, mostruosa, grottesca. Gli italiani
sguazzano nel fatto di essere bravi ragazzi, misurati e all’antica… Ma c’è una violenza endemica tra vicini che
si cela come una sorte di febbre sottopelle. (…).
Così ci vedeva quel giovine corrispondente. Accade sempre che i popoli si sforzino d’apparire migliori di quanto lo siano. In Italia poi tutto viene permeato da quella impronta che la chiesa di Roma ha potuto e saputo costruirle addosso. Non si potrebbe sostenere una tale affermazione se quella chiesa avesse, nella sua più che millenaria storia, negato accostamenti al potere che ne hanno snaturato la visione. E mi va di pensare a quelle figure incredibili – per la loro estraneità al messaggio di fratellanza dell’uomo di Nazareth - dei cosiddetti “cappellani”, adusi a benedire armi – per l’uccisione del “fratello” - e vessilli degli eserciti in guerra. Un non-senso che torna comodo allorquando c’è da proclamare, come in questi tempi tormentosi, quell’orrendo “prima gli italiani”. Una visione non ecumenica che ha giustificato stragi ed “odio”. A tal proposito Tobias Jones ha scritto nel testo dianzi citato: (…). … il cattolicesimo ha a che fare, nel bene e nel male, con l’obbedienza; il protestantesimo, nel bene e nel male, con la responsabilità. Nell’uno, il risultato maggiore è la sottomissione a un capo cristiano; nell’altro, la sottomissione a una coscienza cristiana individuale. Per l’Italia questo implica una continua delega: facciamo parte di una gerarchia e guardiamo all’insù verso i nostri superiori. È una catena alimentare verticale. L’Italia è un Paese che fa assegnamento sull’intervento di intermediari. Ci liberiamo dalla necessità di prendere decisioni perché qualcuno, più in alto di noi, le ha prese al nostro posto. Scrive Giuseppe Genna: (…). L’estate 2019, nelle pulsioni impazzite di un sovranismo italiano tutto immaginario e potentemente patologico, rinnova la sua sete di sangue coagulato e inaugura un’estrema variazione di questa coerenza del torbido, del funesto. L’ultima declinazione della sua persistente oscenità, del suo surrealismo godereccio e cafone. La grande bellezza è una grande bruttezza, una grande bruttura. Come in un film inacidito e putrefatto del migliore Sorrentino, la cronaca nera e di costume manifesta una verità che conosciamo da sempre: la commedia all’italiana è una tragedia senza fine. Un inabissamento nell’incomprensibile, nel grottesco, nel male naturale, che ha nella Penisola il suo scenario più stabile e fecondo. Servirebbe una riedizione della sagoma di Alberto Sordi, l’emblema di noi tutti, ma peggiorata, colliquativa. L’Italia che guarda il cadavere è una nazione essa stessa cadavere, che non smette mai di disfarsi, di sciogliersi, di manifestare il paradosso di una vita in piena morte. Redimere Alberto Sordi, vederlo in colori flou addentare spaghetti contaminati, qualcosa di radioattivo, con cui si rinnova la perniciosità della vicenda italiana. Sarebbe una riedizione di “Un americano a Roma”, il che, detto in questi giorni, non manca di suggerire l’orrore ironico di una tragedia in atto. (…). In tutto questo avanzamento della tragedia comica all’italiana, che lastrica le strade di morti ammazzati e di devastazioni famigliari senza fine, il figlio del vicepremier si fa le onde a Milano Marittima sulla moto d’acqua della polizia che risponde al padre, c’è un astronauta italiano in orbita che fotografa la Sicilia e ulula alla luna sullo stato disastroso del riscaldamento globale, il camionista carbonizzato a Borgo Panigale a circa cinquanta metri dal luogo in cui esplose un altro tir l’anno scorso, una nave della Guardia di Finanza detiene 131 naufraghi al molo Nato di Augusta e agli stremati rifugiati viene annunciato con enfasi tutta italiana: «Pazientate, qualcosa si sta muovendo». Si sta muovendo: questa nazione declinata al gerundio, sempre, stanno sempre lavorando per noi, stanno sempre terminando, stanno sempre decidendo. Ogni estate italiana sembra desiderosa di uscire da se stessa, restando ciò che è: un’attesa del caso di cronaca, una fibrillazione atriale per spiriti seduti ovunque ad assistere, a fare da spettatori dell’incredibile, che nella Penisola è una forma del troppo credibile, di un’immaturità di massa che si consuma nei decenni in forma sempre più matura, fino alla marcescenza. (…). Soltanto un anno fa: proiettili ovunque. Traini e i suoi fratelli e i colpi intenzionali a gente di colore. A Vicofaro, a Caserta, a Forlì. Spari ad aria compressa, a caso, che perforano una bambina, immancabilmente classificata come “rom” e sulla quale un intervistato alla trasmissione “Agorà” dichiara orgogliosamente che dovevano colpire la piccina non con un piombino, ma con un proiettile vero. Era un incrudelirsi ulteriore di quella cronaca nera che fa la storia a casa nostra. L’Italia, in attesa della legge sulla legittima offesa, gonfia di odio e di istinto di morte, con il suo memento mori che ha fatto la storia del cinema e della letteratura, in uno strascicamento lugubre e normalmente semifinale dei suoi costumi, dei suoi vizi e delle sue inesistenti virtù, si riconosceva nella supremazia della pallottola, dell’insulto esploso come una munizione, del far west all’amatriciana (…). L’estate 2019 rinnova questi fasti, questo Shakespeare latino, privo di Riccardo III ma ricco della mastite di Salvini, il quale non sarà Macbeth, ma è sufficiente che sia se stesso, per ottenere effetti. Il caso più emblematico di queste ore è dunque un dramma che si è consumato a Milano, nei pressi del parco Forlanini. Non c’è più dadaismo, non c’è più cafonal, non c’è più estetica e nemmeno c’è commedia che coincida con la tragedia. C’è soltanto tragedia. All’altezza dei nostri incubi suprematisti, sopravvivono soltanto simboli duri, l’arido vero dello stato del Paese e del Paese che non è più Stato, ma bercia per esserlo in modo sbagliato e criminogeno. Verso l’Idroscalo, dove mestamente la città declina verso le colonie di zanzare che infeltriscono le zone di nessuno tra hinterland e hinterland, un’avvocatessa, Beatrice Bordino, si piega su una panchina e singulta, piange, accusa il tremito. Ha appena rischiato il pubblico linciaggio. Si era imbattuta in un cadavere, poiché gli italiani si imbattono più di altri nei cadaveri. Non era un cadavere: era un uomo privo di coscienza. Le persone attorno evitano quel corpo inanimato, nessuno chiama l’ambulanza, ma sono poi prontissimi a dare alla signora della “troia”, appena hanno verificato che l’uomo incosciente era uno straniero: un sudamericano. La testimonianza della donna: le viene urlato che, se chiama l’ambulanza, la aggrediscono, «bisogna lasciarli morire questi immigrati di merda», «i soccorsi li paghiamo noi contribuenti mica questi negri». Tra gli emblematici esagitati, c’è un’anziana che si appella al Signore di tutti gli eserciti: «Spero che Dio ascolti le mie preghiere e che affondi tutti i barconi». Questa criminalità non pare affatto interessante, non riguarda soltanto i nuovi figli della borghesia, come si sarebbe detto un tempo. La si porta dal buio truculento della cronaca alla luce dell’interpretazione: forse perché la loro classe sociale lo pretende? Non è più il tempo pasoliniano, non è più Italia, è altro, è oltre. Siamo noi.
Così ci vedeva quel giovine corrispondente. Accade sempre che i popoli si sforzino d’apparire migliori di quanto lo siano. In Italia poi tutto viene permeato da quella impronta che la chiesa di Roma ha potuto e saputo costruirle addosso. Non si potrebbe sostenere una tale affermazione se quella chiesa avesse, nella sua più che millenaria storia, negato accostamenti al potere che ne hanno snaturato la visione. E mi va di pensare a quelle figure incredibili – per la loro estraneità al messaggio di fratellanza dell’uomo di Nazareth - dei cosiddetti “cappellani”, adusi a benedire armi – per l’uccisione del “fratello” - e vessilli degli eserciti in guerra. Un non-senso che torna comodo allorquando c’è da proclamare, come in questi tempi tormentosi, quell’orrendo “prima gli italiani”. Una visione non ecumenica che ha giustificato stragi ed “odio”. A tal proposito Tobias Jones ha scritto nel testo dianzi citato: (…). … il cattolicesimo ha a che fare, nel bene e nel male, con l’obbedienza; il protestantesimo, nel bene e nel male, con la responsabilità. Nell’uno, il risultato maggiore è la sottomissione a un capo cristiano; nell’altro, la sottomissione a una coscienza cristiana individuale. Per l’Italia questo implica una continua delega: facciamo parte di una gerarchia e guardiamo all’insù verso i nostri superiori. È una catena alimentare verticale. L’Italia è un Paese che fa assegnamento sull’intervento di intermediari. Ci liberiamo dalla necessità di prendere decisioni perché qualcuno, più in alto di noi, le ha prese al nostro posto. Scrive Giuseppe Genna: (…). L’estate 2019, nelle pulsioni impazzite di un sovranismo italiano tutto immaginario e potentemente patologico, rinnova la sua sete di sangue coagulato e inaugura un’estrema variazione di questa coerenza del torbido, del funesto. L’ultima declinazione della sua persistente oscenità, del suo surrealismo godereccio e cafone. La grande bellezza è una grande bruttezza, una grande bruttura. Come in un film inacidito e putrefatto del migliore Sorrentino, la cronaca nera e di costume manifesta una verità che conosciamo da sempre: la commedia all’italiana è una tragedia senza fine. Un inabissamento nell’incomprensibile, nel grottesco, nel male naturale, che ha nella Penisola il suo scenario più stabile e fecondo. Servirebbe una riedizione della sagoma di Alberto Sordi, l’emblema di noi tutti, ma peggiorata, colliquativa. L’Italia che guarda il cadavere è una nazione essa stessa cadavere, che non smette mai di disfarsi, di sciogliersi, di manifestare il paradosso di una vita in piena morte. Redimere Alberto Sordi, vederlo in colori flou addentare spaghetti contaminati, qualcosa di radioattivo, con cui si rinnova la perniciosità della vicenda italiana. Sarebbe una riedizione di “Un americano a Roma”, il che, detto in questi giorni, non manca di suggerire l’orrore ironico di una tragedia in atto. (…). In tutto questo avanzamento della tragedia comica all’italiana, che lastrica le strade di morti ammazzati e di devastazioni famigliari senza fine, il figlio del vicepremier si fa le onde a Milano Marittima sulla moto d’acqua della polizia che risponde al padre, c’è un astronauta italiano in orbita che fotografa la Sicilia e ulula alla luna sullo stato disastroso del riscaldamento globale, il camionista carbonizzato a Borgo Panigale a circa cinquanta metri dal luogo in cui esplose un altro tir l’anno scorso, una nave della Guardia di Finanza detiene 131 naufraghi al molo Nato di Augusta e agli stremati rifugiati viene annunciato con enfasi tutta italiana: «Pazientate, qualcosa si sta muovendo». Si sta muovendo: questa nazione declinata al gerundio, sempre, stanno sempre lavorando per noi, stanno sempre terminando, stanno sempre decidendo. Ogni estate italiana sembra desiderosa di uscire da se stessa, restando ciò che è: un’attesa del caso di cronaca, una fibrillazione atriale per spiriti seduti ovunque ad assistere, a fare da spettatori dell’incredibile, che nella Penisola è una forma del troppo credibile, di un’immaturità di massa che si consuma nei decenni in forma sempre più matura, fino alla marcescenza. (…). Soltanto un anno fa: proiettili ovunque. Traini e i suoi fratelli e i colpi intenzionali a gente di colore. A Vicofaro, a Caserta, a Forlì. Spari ad aria compressa, a caso, che perforano una bambina, immancabilmente classificata come “rom” e sulla quale un intervistato alla trasmissione “Agorà” dichiara orgogliosamente che dovevano colpire la piccina non con un piombino, ma con un proiettile vero. Era un incrudelirsi ulteriore di quella cronaca nera che fa la storia a casa nostra. L’Italia, in attesa della legge sulla legittima offesa, gonfia di odio e di istinto di morte, con il suo memento mori che ha fatto la storia del cinema e della letteratura, in uno strascicamento lugubre e normalmente semifinale dei suoi costumi, dei suoi vizi e delle sue inesistenti virtù, si riconosceva nella supremazia della pallottola, dell’insulto esploso come una munizione, del far west all’amatriciana (…). L’estate 2019 rinnova questi fasti, questo Shakespeare latino, privo di Riccardo III ma ricco della mastite di Salvini, il quale non sarà Macbeth, ma è sufficiente che sia se stesso, per ottenere effetti. Il caso più emblematico di queste ore è dunque un dramma che si è consumato a Milano, nei pressi del parco Forlanini. Non c’è più dadaismo, non c’è più cafonal, non c’è più estetica e nemmeno c’è commedia che coincida con la tragedia. C’è soltanto tragedia. All’altezza dei nostri incubi suprematisti, sopravvivono soltanto simboli duri, l’arido vero dello stato del Paese e del Paese che non è più Stato, ma bercia per esserlo in modo sbagliato e criminogeno. Verso l’Idroscalo, dove mestamente la città declina verso le colonie di zanzare che infeltriscono le zone di nessuno tra hinterland e hinterland, un’avvocatessa, Beatrice Bordino, si piega su una panchina e singulta, piange, accusa il tremito. Ha appena rischiato il pubblico linciaggio. Si era imbattuta in un cadavere, poiché gli italiani si imbattono più di altri nei cadaveri. Non era un cadavere: era un uomo privo di coscienza. Le persone attorno evitano quel corpo inanimato, nessuno chiama l’ambulanza, ma sono poi prontissimi a dare alla signora della “troia”, appena hanno verificato che l’uomo incosciente era uno straniero: un sudamericano. La testimonianza della donna: le viene urlato che, se chiama l’ambulanza, la aggrediscono, «bisogna lasciarli morire questi immigrati di merda», «i soccorsi li paghiamo noi contribuenti mica questi negri». Tra gli emblematici esagitati, c’è un’anziana che si appella al Signore di tutti gli eserciti: «Spero che Dio ascolti le mie preghiere e che affondi tutti i barconi». Questa criminalità non pare affatto interessante, non riguarda soltanto i nuovi figli della borghesia, come si sarebbe detto un tempo. La si porta dal buio truculento della cronaca alla luce dell’interpretazione: forse perché la loro classe sociale lo pretende? Non è più il tempo pasoliniano, non è più Italia, è altro, è oltre. Siamo noi.
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