Un’appendice al post del 7 di agosto - «Non
ricordo dov’ero a Capodanno 2009, devo consultare l’agenda» - ora che
la Procura generale sembra abbia impugnato le disposizioni del tribunale. Tratto
da “Formigodi” di Marco Travaglio,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 24 di luglio 2019: (…). …Formigoni ha 72 anni e non
ha mai collaborato con la giustizia. S’è addirittura rifiutato regolarmente di
farsi interrogare da pm e giudici. Non ha mai ammesso i suoi reati, nemmeno
dopo la condanna definitiva. Infatti la Procura di Milano ha dato parere
negativo ai domiciliari perché “non si può escludere l’utilità di sue dichiarazioni
sull’ingente patrimonio transitato per i paradisi fiscali e mai recuperato”. Il
processo ha accertato che, per dirottare 200 milioni pubblici alle cliniche
Maugeri e San Raffaele, il trio Formigoni (per 18 anni presidente ciellino
della Regione Lombardia)-Daccò (faccendiere ciellino suo amico)-Simone (ex
assessore regionale ciellino alla Sanità) aveva movimentato uno spaventoso giro
di tangenti sulla pelle dei malati: almeno 61 milioni, di 6,6 finiti al
Celeste. In gran parte mai trovati. Ma i
giudici, col via libera del Pg, l’han mandato a casa anche se non ha mai
collaborato. Motivo: anche volendo, “il presupposto della collaborazione è
impossibile” perché ormai il processo s’è chiuso e ha ricostruito i fatti “con
pignoleria”. Sì, è vero, il pm ipotizza che Formigoni sappia in quali paradisi
fiscali è nascosto il resto del bottino e l’ “associazione criminale” sia
ancora in piedi per custodire quello e altri segreti. Ma queste sono “ipotesi”
e “presunzioni”, mica di certezze. E per forza: se non parlano né lui, né
Daccò, né Simone, come si fa ad avere certezze? Bisognerebbe interrogare
Formigoni, che però rifiuta da sempre. Com’è suo diritto. Ma allora lo Stato
avrebbe il dovere di tenerlo dentro, come prevede la legge per chi non
collabora. Invece lo mettono fuori dopo 5 mesi (su 70) perché non collabora ma
pensano che non possa più farlo (a proposito di “ipotesi” e “presunzioni”). Ragionamento (si fa per dire) che ora dovrebbe
valere per tutti i condannati: visto che il processo è finito, non possono più
collaborare. Quindi solo un fesso, d’ora in poi, collaborerà con la giustizia:
perchè mai confessare tutti i propri delitti, e pure quelli altrui, e
restituire il maltolto, quando si possono nascondere tanti bei soldini tacendo
al processo e poi, una volta condannati, andarsene subito a casa (di un amico)
a godersi un’agiata vecchiaia?
Se lo sragionamento vale pure per i mafiosi, siamo a cavallo: finora era proprio il carcere senza benefici a indurne alcuni a pentirsi. Ma ora basterà la condanna definitiva per tappare loro la bocca: anche se vogliono parlare, il giudice farà notare che il processo ha già ricostruito i fatti “con pignoleria”, ergo si stiano zitti e non rompano i coglioni. Il meglio però arriva a proposito del “percorso di recupero” che San Roberto, in soli 5 mesi, ha compiuto in cella riconoscendo “sbagli”, “atteggiamenti superficiali” e “disvalore delle sue condotte” (i colori delle giacche e delle cravatte erano troppo sgargianti), come “l’amicizia con Daccò e le vacanze sugli yacht ai Caraibi” (prossimo giro, solo Maldive). E poi “non riveste più alcun ruolo pubblico” (essendo detenuto, sarebbe complicato persino in Italia), ragion per cui la pena fissata in sentenza sarebbe “afflittiva”. Povera stella. Tra l’altro, in carcere, il Celeste ha tenuto “uno stile di vita riservato”. Si temeva che desse dei party a ostriche, caviale e champagne nell’ora d’aria, o invitasse in cella ballerine dell’obaoba, o sfoggiasse anche lì giacche color salmone/aragosta. Invece niente: il detenuto modello teneva “basso profilo” e addirittura respingeva le richieste di favori degli altri detenuti, rispondendo lodevolmente “di non poter intervenire”. Quindi basta non continuare a delinquere in carcere per scontare la pena per i delitti precedenti fuori dal carcere. Eppoi il nostro ha mostrato “uno sforzo di adattamento, consolidato da elementi tra cui la fede” (se era ateo, erano cazzi) e “dal volontariato in biblioteca”. Decisiva l’ “accettazione delle sentenze”: l’altroieri i suoi avvocati gli han suggerito di fare il bravo e lui ha magnanimanente dichiarato in udienza: “Mi conformo alla condanna e comprendo il disvalore dei miei comportamenti”. Perbacco, che gentile: si conforma, anche perché se non si conformasse sarebbe esattamente lo stesso. Ma, se ti chiami Formigoni, basta accettare una pena di 70 mesi per uscire dopo 5. Già che c’era, Formigoni ha pure detto ai giudici: “Solo oggi comprendo che sarebbe stato meglio rispondere alle domande” (tanto non possono più fargliene). E s’è pure vantato di aver “deciso di costituirmi spontaneamente” dopo la condanna” e non -badate bene- perché altrimenti i carabinieri andavano a prelevarlo a casa, ma “per le mie convinzioni personali e culturali e per rispetto dello Stato”. La cosa deve aver commosso i giudici: anche evitare di darsi alla latitanza diventa un titolo di merito. É un nuovo principio giuridico: se vieni dentro, ti metto fuori. Si spera almeno che valga solo per lui e non per tutti gli altri delinquenti.
Se lo sragionamento vale pure per i mafiosi, siamo a cavallo: finora era proprio il carcere senza benefici a indurne alcuni a pentirsi. Ma ora basterà la condanna definitiva per tappare loro la bocca: anche se vogliono parlare, il giudice farà notare che il processo ha già ricostruito i fatti “con pignoleria”, ergo si stiano zitti e non rompano i coglioni. Il meglio però arriva a proposito del “percorso di recupero” che San Roberto, in soli 5 mesi, ha compiuto in cella riconoscendo “sbagli”, “atteggiamenti superficiali” e “disvalore delle sue condotte” (i colori delle giacche e delle cravatte erano troppo sgargianti), come “l’amicizia con Daccò e le vacanze sugli yacht ai Caraibi” (prossimo giro, solo Maldive). E poi “non riveste più alcun ruolo pubblico” (essendo detenuto, sarebbe complicato persino in Italia), ragion per cui la pena fissata in sentenza sarebbe “afflittiva”. Povera stella. Tra l’altro, in carcere, il Celeste ha tenuto “uno stile di vita riservato”. Si temeva che desse dei party a ostriche, caviale e champagne nell’ora d’aria, o invitasse in cella ballerine dell’obaoba, o sfoggiasse anche lì giacche color salmone/aragosta. Invece niente: il detenuto modello teneva “basso profilo” e addirittura respingeva le richieste di favori degli altri detenuti, rispondendo lodevolmente “di non poter intervenire”. Quindi basta non continuare a delinquere in carcere per scontare la pena per i delitti precedenti fuori dal carcere. Eppoi il nostro ha mostrato “uno sforzo di adattamento, consolidato da elementi tra cui la fede” (se era ateo, erano cazzi) e “dal volontariato in biblioteca”. Decisiva l’ “accettazione delle sentenze”: l’altroieri i suoi avvocati gli han suggerito di fare il bravo e lui ha magnanimanente dichiarato in udienza: “Mi conformo alla condanna e comprendo il disvalore dei miei comportamenti”. Perbacco, che gentile: si conforma, anche perché se non si conformasse sarebbe esattamente lo stesso. Ma, se ti chiami Formigoni, basta accettare una pena di 70 mesi per uscire dopo 5. Già che c’era, Formigoni ha pure detto ai giudici: “Solo oggi comprendo che sarebbe stato meglio rispondere alle domande” (tanto non possono più fargliene). E s’è pure vantato di aver “deciso di costituirmi spontaneamente” dopo la condanna” e non -badate bene- perché altrimenti i carabinieri andavano a prelevarlo a casa, ma “per le mie convinzioni personali e culturali e per rispetto dello Stato”. La cosa deve aver commosso i giudici: anche evitare di darsi alla latitanza diventa un titolo di merito. É un nuovo principio giuridico: se vieni dentro, ti metto fuori. Si spera almeno che valga solo per lui e non per tutti gli altri delinquenti.
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