"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 31 dicembre 2018

Memoriae. 05 «L’Italia in cui viviamo».


Non vi tragga in inganno il titolo di questa “memoria”, che essa non vi meni come “can per l’aia”. Essa risale al 21 di settembre dell’anno 2004, ma essa è come se fosse stata scritta nell’anno primo del governo del “cambiamento”. Sono solamente pensieri di un fine anno tra i più difficili da catalogare, ma con l’auspicio che il prossimo possa essere decisamente diverso e migliore. Tanto per non dire che i quasi tre lustri trascorsi da quel settembre dell’anno 2004 siano gattopardescamente trascorsi affinché nulla cambiasse: Ammiccano da una immagine apparsa di recente sui maggiori settimanali del bel paese tre belle e oneste facce di tre famosi conduttori di programmi televisivi di approfondimento o di intrattenimento. A quelle loro facce belle e oneste la terza rete del tubo catodico del servizio pubblico si affida per un rilancio o meglio in qualche caso per una riconferma presso la gente dei programmi  prodotti, e che vengono fortunatamente riproposti nella imminente stagione televisiva, ché una volta le stagioni in verità erano legate a ben altri avvenimenti e scenari della natura; ai tre programmi, che saranno condotti come sempre magistralmente dalle belle ed oneste tre facce, si affida il compito, ahimè invero ingrato, di raccontare il bel paese, tanto è che l’immagine in questione si presenta con un titolo che la dice lunga sulla sua filosofia di fondo, “L’Italia in cui viviamo” e con un sottotitolo “Tre programmi che danno voce al Paese”. Il proposito è dei più meritevoli di incoraggiamento e di gratificazione da parte del pubblico, e così  si spera. Sono anni oramai che il servizio pubblico ha di fatto rinunciato a svolgere convenientemente e doverosamente  il suo ruolo direi istituzionale, essendosi posto in concorrenza alla televisione commerciale con la stessa sua spregiudicatezza ed insensatezza; per i soccombenti utenti è rimasta pur tuttavia una nicchia di salvezza nella terza rete del che, sfidando in tante occasioni l’ordine televisivo costituito, ha cercato di assolvere al meglio la propria funzione di voce del servizio  pubblico. I guasti creati da una fallimentare politica di programmazione del servizio pubblico ha fatto sì che lo stesso sia deperito in fatto di ascolti e di raccolta pubblicitaria, a tutto vantaggio della concorrenza commerciale che si è ingrassata sino all’inverosimile e con i ben noti ed enormi ritorni finanziari. E non poteva che essere altrimenti.  Torna allora utile e saggio rileggere ad oltre trenta anni dalla loro pubblicazione, ancorché attualissime, le parole scritte da Pier Paolo Pasolini il 9 di dicembre dell’anno 1973 sul quotidiano “Corriere della sera” a proposito di acculturazione e dell’ uso dei moderni mezzi di comunicazione per la creazione del consenso popolare: (…). La responsabilità della televisione, (…), è enorme. Non certo in quanto mezzo tecnico, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio (…)che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, (…), non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…(…). Cronista dei giorni nostri è invece Tobias Jones, inglese di nascita, ma che alberga nel bel paese dall’anno 1999. Grande conoscitore ed osservatore severo e disincantato dello stile di vita del popolo italiano, ha scritto un interessantissimo volume dal titolo “Il cuore oscuro dell’Italia” per i tipi Rizzoli, di cui si consiglia la lettura. Di recente è apparso un suo resoconto su di una sua personale esperienza di come fare televisione di pubblico servizio dal titolo “Ricchi d’Italia”, che troverà spazio dal prossimo 26 di settembre sempre nella nicchia del tubo catodico monopolizzato, ovvero Rai3:

domenica 30 dicembre 2018

Sullaprimaoggi. 47 «La Sinistra non ha impedito la retrocessione del “popolo” nella “ massa”».


Tratto da “Il popolo si è dissolto nella massa” di Alberto Asor Rosa, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 6 di aprile 2018: (…). Il “popolo”, storicamente inteso, è un organismo estremamente complesso, fatto di classi, ceti sociali, orientamenti culturali e ideali, categorie professionali, ecc. spesso in lotta fra loro, ma al tempo stesso sempre, o quasi sempre, riunificati alla fine sotto il segno di un interesse comune (non a caso il concetto di “popolo” è storicamente connesso con quello di Nazione).

sabato 29 dicembre 2018

Sullaprimaoggi. 46 «Nel nome del governo "del popolo"».


Tratto da “Il rovescio dei diritti” di Nadia Urbinati, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 27 di dicembre 2018: In questo anno che si sta per concludere abbiamo avuto modo di constatare quanto vero sia il detto che chi governa il significato delle parole governa la società. Nelle democrazie costituzionali, dove opera lo Stato di diritto e dove dovrebbe essere la legge a governare, le maggioranze che si succedono si impegnano a interpretare le norme fondamentali comuni; cosicché, nonostante le differenze, la grammatica resta la stessa, come pure il significato dei termini.

venerdì 28 dicembre 2018

Terzapagina. 59 « Chi crede di possedere la verità o è uno stupido, o un fanatico, o un pazzo ».


Tratto da “L'onestà è a doppio taglio”, intervista  di Wlodek Goldkorn con scrittore spagnolo Javier pubblicata sul settimanale L’Espresso del 4 di luglio 2018: (…). «Oggi, molte parole bellissime vengono usate come maschere, come uno specchio deformato, per dire il contrario del loro significato originario. Si viola la libertà in nome della libertà. Si dicono menzogne in nome della verità. Si corrompe in nome dell’onestà. Dell’onestà parlano i politici convinti invece che l’unica cosa importante sia la conquista del potere e quindi che il fine giustifichi i mezzi. Io invece penso al contrario, in democrazia sono i mezzi a giustificare i fini. Uno scopo giusto si corrompe se i mezzi per raggiungerlo non sono buoni né onesti. Ha presente l’immagine di Barack Obama e Hillary Clinton mentre stavano guardando sullo schermo del computer l’azione in cui veniva ucciso Bin Laden? Il messaggio implicito in quella immagine era: è lecito usare un mezzo terribile per fare bene? E Obama ha fatto bene? Felipe González, nostro ex premier ha detto recentemente in tv: ho avuto la possibilità di uccidere tutta la direzione dell’Eta ma non l’ho fatto. E ha aggiunto; non so se ho fatto bene. E allora, González ha risparmiato vite umane o è stato codardo? Aggiungo, Max Weber diceva: il politico fa il patto con il diavolo, perché fa il patto con la violenza».
In fondo quella di usare mezzi sbagliati per un fine buono e di aver stretto il patto con il diavolo, è la storia del comunismo. «Un fine bellissimo, corrotto dai mezzi, per cui il comunismo è una parola da non usare».
Cominciamo con le domande. Partendo da un gigante, Tolstoj. In “Guerra e pace” Pierre Bezuchov dice a Natasha: «Se le persone viziose sono tutte quante collegate tra di loro e perciò sono una forza, basterebbe che le persone oneste facessero lo stesso». Anche oggi, spesso vince l’idea che basta che gli onesti si mettano insieme contro i corrotti e i bugiardi per cambiare il mondo. «Pierre Bezuchov è ingenuo. Ma è un personaggio letterario».
Sappiamo che è Tolstoj a parlare con la voce di Bezuchov. «Lo presumiamo. Comunque io non sono d’accordo con questa frase, perché penso che il mondo non si divida tra gli onesti e i disonesti e fra i giusti e gli ingiusti. Le persone oneste possono diventare disoneste e i giusti possono diventare ingiusti, i coraggiosi possono rivelarsi codardi. L’animo degli uomini e delle donne è complesso e contraddittorio. Per questo la vita sociale ha bisogno delle regole. (…). Non sono giovanissimo e quindi mi ricordo quando per la prima volta i socialisti spagnoli arrivarono al governo, dopo 40 anni di franchismo. Ci sembrava una festa. I socialisti erano i giusti e gli onesti. Ma poi è successo che i socialisti sono diventati disonesti, e corrotti».
Quindi? «Quindi la meraviglia della democrazia non sta nel carattere delle persone ma nel rispetto delle regole. Tutto qui».
Possiamo azzardare un’ipotesi? Dentro l’animo di ognuno di noi - uno scrittore lo sa perché il suo mestiere è indagare e raccontare l’animo umano - è insito un elemento del Male. Ognuno di noi è un potenziale carnefice. Ma non tutti lo diventiamo. Vale anche per la corruzione? «Infatti, è molto più importante capire il carnefice che la vittima. Certo, la solidarietà con le vittime deve essere assoluta, ma dobbiamo comprendere il boia. Sarebbe straordinario capire Hitler».
Ma ci sarà un limite all’empatia. Lei, in “Il sovrano delle ombre” descrive un soldato franchista, Manuel Mena. Per come lei lo racconta potrebbe essere un nostro fratello, salvo che in guerra l’avremmo ucciso. Ma allora fin dove si può essere empatici, fin dove è lecito capire? È una domanda sull’onestà dello scrittore e sull’etica della letteratura e quindi sull’onestà del nostro immaginario collettivo. «Per me è una questione essenziale. Rispondo: non c’è limite all’empatia. Quello che deve fare uno scrittore, ma anche un filosofo, è capire tutto, capire i peggiori. Capire non vuol dire giustificare. Ma il contrario. Capire è darci le armi per non diventare carnefici e corrotti».
Quindi Primo Levi quando diceva che capire è un po’ giustificare sbagliava? Lo vogliamo dire? «L’ha posta, come domanda, Tzvetan Todorov».
Possiamo spingerci oltre? Levi, essendo una vittima, non poteva capire il carnefice. «Appunto. Per una vittima capire il suo boia significa autodistruggersi. Però, a pensarci bene, me la sento di dire che Levi non sbagliava: La sua “Trilogia di Auschwitz” (in Spagna “Se questo è un uomo”, “La tregua” e “I sommersi e i salvati” sono usciti appunto come “Trilogia di Auschwitz”, ndr) è ovviamente un geniale tentativo di comprensione. Uno sforzo di capire tutto».

giovedì 27 dicembre 2018

Sullaprimaoggi. 45 «La bestia è qui».


Tratto da “La bestia è qui” di Giuseppe Catozzella, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 16 di dicembre 2018: (…). La Storia trascorre, e si ripropone oggi in un “eterno ritorno”. L’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’Osce, così come la commissione parlamentare “Jo Cox”, parlano di un aumento impressionante di reati di violenza a sfondo di odio razziale negli ultimi mesi, in Italia. Solo da giugno a ottobre sono una settantina (omicidi, accoltellamenti, sprangate, investimenti). A ben vedere, le basi materiali sono molto simili a quelle degli anni Venti. L’omicidio del nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, a Fermo; il neonazista Luca Traini che leggeva il Mein Kampf che a Macerata spara trenta colpi contro sei stranieri; l’uccisione a Firenze del senegalese Idy Diane; quella del maliano Soumaila Sacko, in Calabria. Ma cos’è il razzismo, sulla cui base animale e biologica si commettono questi crimini? Si può prendere per buona la definizione che ne dà lo storico Fredrickson in “Breve storia del razzismo” (Donzelli, 2002): «Quando differenze che potrebbero essere considerate etnoculturali vengono invece considerate innate, indelebili e immutabili». Una tara innata, animale, biologica. «Andiamo a picchiare i neri», (Pomigliano). «’A negri qua non ce potete sta’, se non ve n’annate so’ affari vostra», (Tarquinia). «Non mi faccio visitare da un negro», (Cantù). «Gas per i negri», (Isola del Gran Sasso). «Non possiamo smettere finché voi negri siete qui», (Pavia). «Sporco negro, odio i negri», (Riccione). Sono tutte frasi pronunciate nel giro di un pugno di giorni dopo la famosa dichiarazione di Attilio Fontana, attuale Governatore della Lombardia: «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere o se deve essere cancellata». Come nel secolo scorso, quello che sta accadendo è un involgarimento del dibattito pubblico e uno scivolamento progressivo dalla banalizzazione alla normalizzazione, fino alla rivendicazione delle violenze razziste. (…). Ma questo discorso pubblico inneggiante alla razza e all’odio, proprio come negli anni Trenta sta giustificando un comportamento violento privato, animale. Stanno tornando a circolare liberamente molte parole dell’ideologia razzista e deumanizzante che ha permesso il fascismo e il colonialismo, così come sembra riaffacciarsi una concezione della donna e della famiglia di stampo regressivo (per esempio, la mozione anti-aborto approvata a Verona, che fa tornare in mente le “culle vuote” del Ventennio). La dichiarazione del governo di differenziare gli orari di apertura degli esercizi commerciali “etnici” da quelli italiani. Il caso della mensa scolastica di Lecco, dove i bambini stranieri sono stati divisi dagli italiani. Il caso del comune milanese di Cinisello, dove la giunta ha chiesto il bollo della censura per ogni libro proposto nei progetti di lettura municipali. Lo stesso Ius sanguinis, che àncora la cittadinanza al “sangue” e non al luogo di nascita. La demonizzazione dello straniero come portatore di malattie (ideologia alla base del sequestro della nave Aquarius, mutuata dalla campagna fascista per la conquista dell’Etiopia). Che cosa sta succedendo a noi italiani? Non eravamo mica “italiani brava gente”, come ha detto in un’intervista poi strumentalizzata l’attrice polacca Kasia Smutniak («il razzismo non è nel dna degli italiani»)? I numerosissimi episodi di violenza su stranieri però dicono il contrario. Di sicuro ci sta accadendo di essere vittime di un rimosso collettivo. Era la mattina del 18 settembre del 1938 quando Benito Mussolini, annunciava le leggi razziali. Sotto, in «un solo palpito di attesa e di amore», 150 mila persone esultavano, affollando piazza dell’Unità di Trieste in camicia nera e fez. Mussolini disse che occorreva «una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime».

mercoledì 26 dicembre 2018

Memoriae. 04 L’identità di questo Paese ha ben poco di cristiano.


Il 20 di aprile dell’anno 1993 veniva a mancare don Tonino Bello, vescovo di Molfetta. È di questi giorni (il 23 di dicembre) l’iniziativa del settimanale Famiglia Cristiana di ri-pubblicare, con un titolo - “Gli auguri scomodi di don Tonino Bello” - che vorrebbe rendere omaggio al coraggio ed alla lungimiranza di quel vescovo, una lettera augurale che quell’alto prelato indirizzava in occasione del Natale ai fedeli. Saranno forse i tempi bui che siamo chiamati a vivere - durante i quali politici spergiuri e menzogneri osano far politica con il rosario ed i sacri testi in mano - ad aver spinto quel settimanale a ri-pubblicare quella “tremenda” lettera la cui lettura non può lasciare indifferenti sol che si possegga un minimo di animo disposto alla comprensione ed alla caritatevolezza che la festa cristiana dovrebbe suscitare tra i suoi adepti? L’iniziativa non è che lodevole ma sembra proprio cadere in quel vuoto che “riempie” le anime delle italiche genti d’oggi. È come se la chiesa di Roma si fosse dimenticata per sì lungo tempo di quel coraggioso don Tonino per riscoprirlo – come “strumento” di cosa? - dopo più di venti anni. È stato certamente uno di quei “preti scomodi” alla Don Gallo o alla Don Farinella, invisi alle alte gerarchie d’oltre Tevere; cantori, quelli, di una spiritualità in contrasto con i tempi.

martedì 25 dicembre 2018

Sullaprimaoggi. 44 «Noi non facciamo il Presepe, noi siamo il presepe».


Tratto da “Il presepio è il Baobab di Roma e Salvini è un bestemmiatore” di Tomaso Montanari, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 24 di dicembre 2018: (…). Ebbene, sia come cittadino di uno stato laico sia come cristiano credente e praticante credo sia un errore grave. Naturalmente nella propria casa ognuno si comporterà come crede, e molti non credenti sceglieranno magari di farlo, il presepe: per celebrare la propria umanità attraverso un segno carico di significati connessi alla storia familiare e all’infanzia, (…). Ma gli spazi pubblici, le parole e i gesti dei responsabili delle istituzioni e soprattutto le scuole (le scuole, dove si diventa cittadini della Repubblica) sono un’altra cosa: dove di sacro c’è la laicità dello Stato, delle sue sedi, dei suoi rappresentanti. L’ultima discussione dell’assemblea Costituente (sotto Natale: il 22 dicembre 1947) riguardò l’opportunità di menzionare Dio nella Costituzione. Ma nemmeno il cattolicissimo Giorgio La Pira, che aveva avanzato quella proposta e poi la ritirò con encomiabile senso dello Stato, pensava a una formula cristiana: «L’importante è di non fare una specifica affermazione di fede, come è nella Costituzione irlandese: “In nome della Santissima Trinità”», disse.

lunedì 24 dicembre 2018

Sullaprimaoggi. 43 «Tu scendi dalle strenne…».


Tratto da “Caro Babbo Natale, chi ti scrive è una mamma” di Vittorio Zucconi, pubblicato sul settimanale “D” del 17 di dicembre dell’anno 2016: (…). «Caro Babbo Natale, voglio dirti che sono stata una buona mamma tutto l'anno. Ho nutrito, pulito e coccolato i miei tre bambini. Ho fatto più visite per loro in un mese nello studio del pediatra di quante abbia fatte per me dal mio medico tutto l'anno. Ho cucito e incollato più distintivi e patacche sulle loro varie uniformi di una compagnia dell'Esercito. Ho abbracciato e baciato ciascuno di loro in un giorno più di mio marito in un mese. Scusami per la calligrafia, ma ho pochi minuti per scriverti e sto usando un pastello rosso perché tutte le biro e le matite sono scomparse come sempre, tra cuscini dei sofà e sotto i mobili. Questi sono i miei desideri, che puoi esaudire anche nel futuro poco alla volta, non ho fretta.

sabato 22 dicembre 2018

Riletture. 54 «Senza risorse per reggere da soli il buio della nostra notte».


Ha scritto Federico Rampini in “Diventare rinoceronti senza accorgersi”, pubblicato sul settimanale “D” dell’8 di dicembre 2018: Chi di noi ricorda la prima volta che vide per strada uno zombie umano camminare con gli occhi incollati allo schermo dello smartphone? Impossibile ricordarlo. Probabilmente la scena ci colpì solo per un attimo. (…). Chi ancora si ostina a camminare guardando gli altri negli occhi è destinato all’estinzione? Ci rendiamo conto della metamorfosi di massa cui ci hanno sottoposti i Padroni della Rete? Esperimenti da laboratorio su miliardi di esseri viventi. Cavie già affette da una mutazione irreversibile, temo: il sequestro dell’attenzione. Ha scritto Umberto Galimberti in “Così, tra un like e l’altro, siamo rimasti soli” - pubblicato sul settimanale “D” del 22 di dicembre dell’anno 2016 -: In quest'era di social network e di spudoratezza ci siamo esposti troppo. E abbiamo cominciato a dipendere dal giudizio degli altri. È questo il quarto flagello che si aggiunge a quelli evidenziati da Ryszard Kapuscinski (1932-2007) nel Suo volume “Imperium” (Feltrinelli) - «Tre sono i flagelli che minacciano il mondo. Primo, la piaga del nazionalismo. Secondo, la piaga del razzismo. Terzo, la piaga del fondamentalismo religioso. Tre pesti unite dalla stessa caratteristica, dallo stesso comun denominatore: la più totale, aggressiva e onnipotente irrazionalità. Impossibile penetrare in un mente contagiata da uno di questi tre mali» -? Un “flagello” non “predicato” ma non per questo meno temibile, anzi molto più subdolo e per questo sub-liminalmente pervasivo. Sostiene nella Sua riflessione Umberto Galimberti: (…). Venendo al tema, diciamo subito che "essere" è più complicato che "apparire", soprattutto in una società dei consumi come la nostra, dove la pubblicità delle merci, necessaria per farle conoscere, ha contagiato anche gli uomini, i quali, degradandosi al livello di merce, hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra, compensando l'individualità mancata con la pubblicità dell'immagine. Siamo diventati tutti "es-posti", ossia "posti fuori da noi" per cui la nostra identità più non ci appartiene, perché è laggiù in ciò che si vede e si dice di noi. Per effetto di questa esposizione chi non si mette in mostra - in un mondo che è diventato una "mostra" che non è possibile non visitare, perché comunque ci siamo dentro - chi non è irradiato dalla luce della pubblicità, non lo riconosciamo, anzi di lui neppure ci accorgiamo, al limite non c'è. Di qui tutto quel darsi da fare per apparire, perché più non riconosciamo un nostro essere e, per via di questo mancato riconoscimento, la nostra identità è affidata agli altri. Siamo infatti nelle mani degli altri, al punto che il nostro pensare e il nostro sentire, la nostra gioia e la nostra malinconia non dipendono più dai moti della nostra anima che abbiamo perso e probabilmente mai conosciuto, ma dal "mi piace" o "non mi piace" espresso dagli altri, a cui ci siamo consegnati con la nostra immagine, che, per non aver mai conosciuto noi stessi, è l'unica cosa che possediamo e che vive solo nelle mani degli altri. Ci siamo espropriati e alienati nel modo più radicale, perdendo ogni traccia di noi. Pur di sentirci al mondo, abbiamo perso il nostro mondo, quello intimo, quello per cui siamo quello che siamo. E col nostro mondo abbiamo perso il pudore, che non è una faccenda di vesti o sottovesti, ma la custodia della nostra interiorità, che certe trasmissioni televisive pubblicamente, e i social network privatamente, ci invitano a consegnare agli altri con intime confessioni, emozioni in diretta, trivellazioni della nostra vita privata, storie d'amore che perdono il loro segreto, in quelle forme sguaiate di "spudoratezza" che vengono apprezzate e fatte passare come espressioni di "sincerità". Una volta che la spudoratezza è diventata una virtù, non abbiamo più vergogna. E siccome "vergogna" significa: "Temo la gogna, la mia pubblica esposizione", non ci si vergogna più della colpa, ma della sua pubblicizzazione, che il nostro pudore, ormai corrotto, avverte più disdicevole della colpa. Di intimo c'è rimasto solo il dolore, la malattia, la povertà, che ciascuno cerca di nascondere per non essere isolato dagli altri. E così abbiamo reso inespressive tutte quelle figure dell'esistenza che avrebbero bisogno del massimo di comunicazione, per trovare quel sollievo che deriva dal non essere inabissati nella nostra solitudine, resa inespressiva per impossibilità di comunicarla. Infatti non si pubblicizza il dolore, la malattia, la povertà, perché gli altri non ne vogliono sapere e noi, che abbiamo dimenticato noi stessi quando ci dedicavamo alla nostra sfrenata esposizione, ci troviamo senza risorse per reggere da soli il buio della nostra notte.

venerdì 21 dicembre 2018

Lalinguabatte. 68 «I flagelli che minacciano il mondo».

Riportava il glorioso quotidiano l’Unità nella Sua “striscia rossa” del 6  di ottobre dell’anno 2008 una dichiarazione resa all’agenzia Ansa il 3 ottobre di quell’anno dalla “Comunità di Sant’Egidio”: «La sequenza di atti di razzismo in Italia è impressionante: Napoli, Milano, Parma, Roma. Ma c’è chi non si vergogna, da posizioni di responsabilità nelle amministrazioni pubbliche e in Parlamento, ad incitare al disprezzo verso immigrati, rom, romeni, islamici, di volta in volta. C’è un clima irresponsabile e irrespirabile di “caccia al diverso” che rischia di ammalare la convivenza nelle nostre città». Sembra la chiosa alla cronaca dei tristissimi fatti di questi nostri giorni. Scriveva a quel tempo il settimanale “Famiglia cristiana” in un editoriale: “Mentre i capi di Stato all’Onu facevano il punto su come ridurre povertà e fame entro il 2015 (Obiettivi del millennio), c’è chi ha preferito restare a casa tra massaggi e tisane. Ma la risposta alla cooperazione allo sviluppo l’Italia l’aveva già data: zero euro di spesa. Inutile, quindi, andare a New York”. L’editoriale di “Famiglia cristiana” aveva per titolo: “Calpestare i diritti umani è un crudele boomerang”. L’autorevole settimanale parlava senza perifrasi di “crudeltà”. Tanto tempo addietro – il 14 di maggio dell’anno 2008, un decennio - Aldo Schiavone pubblicava sul quotidiano “la Repubblica“ un editoriale che portava come titolo “La sindrome del nemico”, editoriale del quale trascrivo di seguito una parte che offro alla riflessione di tutti gli uomini d’oggi di “buona volontà”: (…). È l´intero Paese (si parlava del bel paese n.d.r.) ad essere scosso da un brivido che viene dal suo fondo più buio, e che in qualche caso sta assumendo i tratti di una vero e proprio riflesso condizionato. Paura di non farcela, di non riuscire a padroneggiare il proprio destino, di vedere polverizzati i legami sociali su cui si pensava di poter contare, di non sapere più gestire problemi anche elementari di convivenza, di confronto con la diversità. Paura di vedersi ridotti i propri spazi di vita, le proprie risorse, il proprio tempo. Paura di scoprire nell´altro il nemico, alla soglia di casa. Ebbene, dobbiamo avere il coraggio di dire che se questa sindrome del nemico si radica nei nostri comportamenti collettivi, se diventa una parte - anche minoritaria ma pur sempre attiva - del nostro contesto culturale, del nostro vissuto sociale, del nostro sfondo mentale, allora noi saremo perduti. Perduti come Paese, perduti come società viva e capace di innovazione, di slancio, di sviluppo. Perduti, in una parola, come protagonisti sulla scena del mondo. Diventeremo una comunità chiusa e ringhiosa - come non siamo mai stata - senza futuro e senza storia. Questo, naturalmente, non ha nulla a che fare con problemi effettivi di gestione della sicurezza urbana e di repressione dell´illegalità, che dobbiamo saper affrontare in modo efficiente e realistico, e anche diverso rispetto al passato. In questo senso, ogni sforzo di razionalizzazione delle misure e dei provvedimenti da parte del nuovo governo non potrà che essere benvenuto. Ma ha molto a che fare invece con un´ideologia della serrata, (…), della chiamata a raccolta delle forze sane, della difesa di una nostra identità immaginata come minacciata e in pericolo, di un rifiuto di tolleranza e di confronto, che si sta pericolosamente diffondendo, che ha i suoi propugnatori e adepti, e che rischia di immettere tossine nei nostri pensieri di cui proprio non avremmo bisogno. E c´è qualcosa di più da aggiungere. Questa non è solo una questione di etica - che pure non sarebbe cosa da poco. È in gioco la nostra capacità e la nostra volontà di continuare a rimanere un Paese moderno, o di uscire fuori dal vento della storia. Chiusi e intolleranti si muore. Aperti e accoglienti si vince. Non c´è altra verità. E dunque il problema non è di scegliere fra due strade entrambe praticabili, ma di come attrezzarci per poter percorrere l´unica possibile. Come far sentire meno soli i nostri cittadini, meno abbandonati a se stessi nella gestione di ogni convivenza culturalmente più complessa, più rassicurati dalla vicinanza dello Stato e delle istituzioni. Più protetti, e più aperti. (…)“. Ci ha lasciato scritto Ryszard Kapuscinski (1932-2007) nel Suo volume “Imperium” (Feltrinelli): «Tre sono i flagelli che minacciano il mondo. Primo, la piaga del nazionalismo. Secondo, la piaga del razzismo. Terzo, la piaga del fondamentalismo religioso. Tre pesti unite dalla stessa caratteristica, dallo stesso comun denominatore: la più totale, aggressiva e onnipotente irrazionalità. Impossibile penetrare in un mente contagiata da uno di questi tre mali».

giovedì 20 dicembre 2018

Terzapagina. 58 «La libertà che sceglie la menzogna rinnega se stessa».


Tratto da «La libertà è come l'ossigeno», intervista di Wlodek Goldkorn ad Adam Michnik pubblicata sul settimanale L’Espresso del 30 di maggio 2018: (…). Quando né la Polonia né lei eravate liberi, lei si definiva un “libero cittadino” e lo diceva perfino quando stava in carcere. Ma allora cosa è la libertà? «La libertà è la capacità di riflettere autonomamente su se stessi, sul mondo e sul nostro ruolo nel mondo. Sto dicendo una cosa elementare: posso mantenere la mia libertà anche in prigione. I libri, i saggi, i miei interventi sui giornali, scritti in galera e pubblicati clandestinamente in Polonia, erano testi di un uomo libero. Se invece, da detenuto, mi fossi arreso alla narrazione, alla retorica, al linguaggio dei miei carcerieri, avrei perso la mia libertà. Il grande poeta russo Osip Mandel’stam, quando scriveva le sue poesie ai tempi di Stalin, era un uomo libero. Voglio aggiungere un’altra cosa: la libertà è come l’ossigeno. Finché viviamo in condizioni normali non ci accorgiamo quanto sia indispensabile, ce ne rendiamo conto solo quando ci viene a mancare. La vita quotidiana di un Paese democratico non suscita entusiasmo né stupore, però quando comincia a mancare la libertà ci sentiamo soffocare. E soprattutto, perdiamo la parola. La perdiamo perché senza la libertà non siamo in grado di pensare e di immaginare un futuro».
Qual è il prezzo massimo che vale la pena di pagare per la libertà? «Per me la libertà non ha prezzo».
Sarebbe disposto a pagare con la vita per la libertà? Lo era quando stava in prigione? «Sì».
Ne è sicuro? «Senta, se lei rinnega se stesso, se rinuncia alla propria libertà, la sua vita perde sapore, profumo, senso. Non credo di dire una cosa sorprendente. Ci sono state, nella storia, tantissime persone che hanno perso la vita pur di non rinunciare alla libertà».
Ma quasi sempre è esistita pure l’opzione di compromesso; la rinuncia a un po’ di libertà, l’accettazione di un limite, per poter operare alla luce del sole in regimi autoritari. Pensi a certe riviste di cultura sotto il fascismo in Italia o ai tempi del comunismo nel suo Paese, la Polonia. E c’erano persone, dentro le istituzioni, che aiutavano gli antifascisti in Italia o gli anticomunisti in Polonia. «Ma non hanno rinunciato alla facoltà di libero arbitrio. Hanno scelto il compromesso e lo stare dentro le istituzioni come una tecnica di sopravvivenza».
Sta dicendo che il compromesso non intacca il principio della libertà? «Direi di più: il compromesso è il pane e il vino della democrazia. E la democrazia non è altro che la libertà nel quadro delle leggi e della Costituzione».

martedì 18 dicembre 2018

Lalinguabatte. 67 «La povertà non si vede se non in qualche flash televisivo tra una forchettata e un'altra».


** è un uomo giovane. ** è un uomo istruito. ** proviene da una famiglia abbiente. ** lavora. ** non fa mistero dei suoi pensieri. Un suo pensiero è che i poveri non debbano permanere, anche solo temporaneamente,  nel suo paese. Il suo paese è in una della zone più benestanti del bel paese. Il paese in cui abita ** ha condotto battaglia per allontanare i poveri costretti all’accattonaggio. ** plaude alle iniziative della amministrazione comunale per il pieno conseguimento del “repulisti”, indifferente laddove il Salmo - 42, 2 - recita: “quare me repulisti?” (“perché mi hai respinto?”). Sostiene ** che l’accattonaggio vada perseguito anzi, molto meglio, inflessibilmente perseguitato. Perché ** non vuole che i poveri accattoni sostino per le vie di ***. La loro vista disturba **. Sostiene sempre ** – cristianamente – che “sarebbe cosa buona e giusta” che i poveri costretti all’accattonaggio si trasferissero in altri luoghi. Quali? ** non ha risposte. ** non è interessato al dove. Ovunque, purché non sostino nelle vie e viuzze di ***. Tanto meno nell’isola pedonale di ***, che è meta dello struscio serotino. I poveri costretti all’accattonaggio sono per ** come degli avanzi, degli scarti. La loro sola presenza disturba **. Come quei residui che all’occorrenza si trasferiscono lestamente con il piede sotto la coltre del tappeto buono di casa. Si sa dell’esistenza di quei residui ben nascosti sotto il tappeto di casa, ma non li si vede e pertanto non disturbano la vista. I poveri come quei resti. Che stanno bene ovunque per **, tranne che nel suo solatio paese. La povertà degli altri non sollecita in ** interrogativi e pensieri di solidarietà o di fratellanza – miraggio quest’ultimo universalmente e miseramente fallito dopo millenni di buoni proponimenti e di inutili prediche -. Della povertà e dintorni ne ha scritto da par Suo Umberto Galimberti nella corrispondenza “L'ipocrisia dell'elemosina”, corrispondenza pubblicata su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica”: (…). …siamo di fronte alla povertà che si manifesta sui sagrati delle chiese o agli angoli delle nostre strade. Punte di un iceberg di quella povertà più diffusa e massiccia che però tende a nascondersi perché ciò che espone è una condizione umiliante. Nessuno va a cercare la povertà perché la sua vista inquieta. Al massimo un gesto senza neppure guardare in faccia il destinatario. A volte persino una catena di gesti che però non entrano in contatto con la povertà, ma solo con l'organizzazione deputata a soccorrerla. Così la povertà non si vede se non in qualche flash televisivo tra una forchettata e un'altra. Ciò che non si vede non esiste, o esiste solo come sentito dire, come statistica, dove i numeri hanno il solo compito di cancellare il volto di quei poveri a cui la miseria ha già tolto, almeno da noi, se non il pane, certo quasi tutte le possibilità che il nostro vivere concede ai suoi abitanti. Ben vengano allora in tutte le loro forme i poveri che manifestano la loro povertà. Perché quella segreta complicità che esiste tra il povero che si nasconde e il benestante che non lo va a cercare, sottrae la povertà allo spettacolo quotidiano, la espelle dalla percezione, la rimuove dalla vista, per farla vivere occasionalmente solo nel gesto distratto di una mano che allunga qualcosa che non cambia di un grammo la nostra esistenza. E così, non toccata, anche la nostra esistenza si rende immune dalla presenza anche massiccia della povertà. Una povertà silenziosa, densa come la nebbia, che in modo impercettibile ci tocca da ogni parte e che può passare inosservata solo a colpi di rimozione percettiva, visiva, linguistica. Ma il rimosso ritorna. E non ritorna come senso di colpa, da cui è facile sgravarsi con un gesto di elemosina a chi ci appare dignitoso e non invadente. Ritorna come atrofizzazione del nostro cuore che, per non percepire, non vedere, non sentire quel che inevitabilmente ci tocca, deve procedere a tali colpi di amputazione in ordine alla sua percezione del mondo da diventare alla fine un povero cuore. E qui la povertà materiale di coloro che, talvolta visibili, ma il più delle volte invisibili, si muovono nei bassifondi delle condizioni impossibili d'esistenza, compie la sua vendetta mutilando il nostro cuore per consentirgli di non percepire. Ma siccome la povertà esiste, non entrare in contatto o entrarvi solo nei modi che decidiamo noi significa inventarsi un mondo diverso da quello che è, e quindi prender dimora in uno spazio di falsificazione. In questo spazio il nostro cuore, che per non vedere è costretto a mutilare la sua sensibilità, ci rende insensibili a noi stessi e poveri di autopercezione. E allora se i poveri non hanno pane, coloro che non li vogliono vedere finiscono col non disporre più di sé. La condizione umana, infatti, è comune. E il tentativo di chi vuol difendersi non solo dalla povertà, ma anche dalla sua vista, è l'inganno di un giorno. E giorno dopo giorno l'inganno diventa la falsificazione di una vita, soprattutto se evitiamo di pensare che gran parte della povertà del mondo dipende dal nostro tenore di vita che forse è al di là di ogni misura, senza che questa condizione abbia aumentato di un grammo la nostra felicità.