Non vi tragga in inganno il
titolo di questa “memoria”, che essa non vi meni come “can per l’aia”. Essa risale
al 21 di settembre dell’anno 2004, ma essa è come se fosse stata scritta nell’anno
primo del governo del “cambiamento”. Sono solamente
pensieri di un fine anno tra i più difficili da catalogare, ma con l’auspicio
che il prossimo possa essere decisamente diverso e migliore. Tanto per non dire
che i quasi tre lustri trascorsi da quel settembre dell’anno 2004 siano gattopardescamente
trascorsi affinché nulla cambiasse: Ammiccano
da una immagine apparsa di recente sui maggiori settimanali del bel paese tre
belle e oneste facce di tre famosi conduttori di programmi televisivi di
approfondimento o di intrattenimento. A quelle loro facce belle e oneste la
terza rete del tubo catodico del servizio pubblico si affida per un rilancio o
meglio in qualche caso per una riconferma presso la gente dei programmi prodotti, e che vengono fortunatamente
riproposti nella imminente stagione televisiva, ché una volta le stagioni in
verità erano legate a ben altri avvenimenti e scenari della natura; ai tre
programmi, che saranno condotti come sempre magistralmente dalle belle ed
oneste tre facce, si affida il compito, ahimè invero ingrato, di raccontare il
bel paese, tanto è che l’immagine in questione si presenta con un titolo che la
dice lunga sulla sua filosofia di fondo, “L’Italia
in cui viviamo” e con un sottotitolo “Tre
programmi che danno voce al Paese”. Il proposito è dei più meritevoli di
incoraggiamento e di gratificazione da parte del pubblico, e così si spera. Sono anni oramai che il servizio
pubblico ha di fatto rinunciato a svolgere convenientemente e doverosamente il suo ruolo direi istituzionale, essendosi
posto in concorrenza alla televisione commerciale con la stessa sua spregiudicatezza
ed insensatezza; per i soccombenti utenti è rimasta pur tuttavia una nicchia di
salvezza nella terza rete del che, sfidando in tante occasioni l’ordine
televisivo costituito, ha cercato di assolvere al meglio la propria funzione di
voce del servizio pubblico. I guasti
creati da una fallimentare politica di programmazione del servizio pubblico ha
fatto sì che lo stesso sia deperito in fatto di ascolti e di raccolta
pubblicitaria, a tutto vantaggio della concorrenza commerciale che si è
ingrassata sino all’inverosimile e con i ben noti ed enormi ritorni finanziari.
E non poteva che essere altrimenti. Torna
allora utile e saggio rileggere ad oltre trenta anni dalla loro pubblicazione,
ancorché attualissime, le parole scritte da Pier Paolo Pasolini il 9 di dicembre
dell’anno 1973 sul quotidiano “Corriere della sera” a proposito di
acculturazione e dell’ uso dei moderni mezzi di comunicazione per la creazione
del consenso popolare: (…). La responsabilità della televisione, (…),
è enorme. Non certo in quanto mezzo tecnico, ma in quanto strumento del potere
e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui
passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si
fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare.
È attraverso
lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo
potere. Non c’è dubbio (…)che la televisione sia autoritaria e repressiva come
mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte
sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro
rispetto a un trattore. Il fascismo, (…), non è stato
sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il
nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione
(specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata,
violata, bruttata per sempre…(…). Cronista
dei giorni nostri è invece Tobias Jones, inglese di nascita, ma che alberga nel
bel paese dall’anno 1999. Grande conoscitore ed osservatore severo e
disincantato dello stile di vita del popolo italiano, ha scritto un
interessantissimo volume dal titolo “Il
cuore oscuro dell’Italia” per i tipi Rizzoli, di cui si consiglia la
lettura. Di recente è apparso un suo resoconto
su di una sua personale esperienza di come fare televisione di pubblico
servizio dal titolo “Ricchi d’Italia”, che troverà spazio dal prossimo 26 di settembre
sempre nella nicchia del tubo catodico monopolizzato, ovvero Rai3:
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
lunedì 31 dicembre 2018
domenica 30 dicembre 2018
Sullaprimaoggi. 47 «La Sinistra non ha impedito la retrocessione del “popolo” nella “ massa”».
Tratto da “Il
popolo si è dissolto nella massa” di Alberto Asor Rosa, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 6 di aprile 2018: (…). Il “popolo”, storicamente
inteso, è un organismo estremamente complesso, fatto di classi, ceti sociali,
orientamenti culturali e ideali, categorie professionali, ecc. spesso in lotta
fra loro, ma al tempo stesso sempre, o quasi sempre, riunificati alla fine
sotto il segno di un interesse comune (non a caso il concetto di “popolo” è
storicamente connesso con quello di Nazione).
sabato 29 dicembre 2018
Sullaprimaoggi. 46 «Nel nome del governo "del popolo"».
Tratto da “Il
rovescio dei diritti” di Nadia Urbinati, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 27 di dicembre 2018: In questo anno che si sta per concludere
abbiamo avuto modo di constatare quanto vero sia il detto che chi governa il
significato delle parole governa la società. Nelle democrazie costituzionali,
dove opera lo Stato di diritto e dove dovrebbe essere la legge a governare, le
maggioranze che si succedono si impegnano a interpretare le norme fondamentali
comuni; cosicché, nonostante le differenze, la grammatica resta la stessa, come
pure il significato dei termini.
venerdì 28 dicembre 2018
Terzapagina. 59 « Chi crede di possedere la verità o è uno stupido, o un fanatico, o un pazzo ».
Tratto da “L'onestà
è a doppio taglio”, intervista di
Wlodek Goldkorn con scrittore spagnolo Javier pubblicata sul settimanale L’Espresso
del 4 di luglio 2018: (…). «Oggi, molte parole bellissime vengono
usate come maschere, come uno specchio deformato, per dire il contrario del
loro significato originario. Si viola la libertà in nome della libertà. Si
dicono menzogne in nome della verità. Si corrompe in nome dell’onestà.
Dell’onestà parlano i politici convinti invece che l’unica cosa importante sia
la conquista del potere e quindi che il fine giustifichi i mezzi. Io invece
penso al contrario, in democrazia sono i mezzi a giustificare i fini. Uno scopo
giusto si corrompe se i mezzi per raggiungerlo non sono buoni né onesti. Ha
presente l’immagine di Barack Obama e Hillary Clinton mentre stavano guardando
sullo schermo del computer l’azione in cui veniva ucciso Bin Laden? Il
messaggio implicito in quella immagine era: è lecito usare un mezzo terribile
per fare bene? E Obama ha fatto bene? Felipe González, nostro ex premier ha
detto recentemente in tv: ho avuto la possibilità di uccidere tutta la
direzione dell’Eta ma non l’ho fatto. E ha aggiunto; non so se ho fatto bene. E
allora, González ha risparmiato vite umane o è stato codardo? Aggiungo, Max
Weber diceva: il politico fa il patto con il diavolo, perché fa il patto con la
violenza».
In fondo quella di usare mezzi sbagliati per
un fine buono e di aver stretto il patto con il diavolo, è la storia del
comunismo. «Un fine bellissimo, corrotto dai mezzi, per cui il comunismo è una
parola da non usare».
Cominciamo con le domande. Partendo da un
gigante, Tolstoj. In “Guerra e pace” Pierre Bezuchov dice a Natasha: «Se le
persone viziose sono tutte quante collegate tra di loro e perciò sono una
forza, basterebbe che le persone oneste facessero lo stesso». Anche oggi,
spesso vince l’idea che basta che gli onesti si mettano insieme contro i
corrotti e i bugiardi per cambiare il mondo. «Pierre Bezuchov è ingenuo. Ma è
un personaggio letterario».
Sappiamo che è Tolstoj a parlare con la voce
di Bezuchov. «Lo presumiamo. Comunque io non sono d’accordo con questa frase,
perché penso che il mondo non si divida tra gli onesti e i disonesti e fra i
giusti e gli ingiusti. Le persone oneste possono diventare disoneste e i giusti
possono diventare ingiusti, i coraggiosi possono rivelarsi codardi. L’animo
degli uomini e delle donne è complesso e contraddittorio. Per questo la vita
sociale ha bisogno delle regole. (…). Non sono giovanissimo e quindi mi ricordo
quando per la prima volta i socialisti spagnoli arrivarono al governo, dopo 40
anni di franchismo. Ci sembrava una festa. I socialisti erano i giusti e gli
onesti. Ma poi è successo che i socialisti sono diventati disonesti, e
corrotti».
Quindi? «Quindi la meraviglia della
democrazia non sta nel carattere delle persone ma nel rispetto delle regole.
Tutto qui».
Possiamo azzardare un’ipotesi? Dentro
l’animo di ognuno di noi - uno scrittore lo sa perché il suo mestiere è
indagare e raccontare l’animo umano - è insito un elemento del Male. Ognuno di
noi è un potenziale carnefice. Ma non tutti lo diventiamo. Vale anche per la
corruzione? «Infatti, è molto più importante capire il carnefice che la
vittima. Certo, la solidarietà con le vittime deve essere assoluta, ma dobbiamo
comprendere il boia. Sarebbe straordinario capire Hitler».
Ma ci sarà un limite all’empatia. Lei, in
“Il sovrano delle ombre” descrive un soldato franchista, Manuel Mena. Per come
lei lo racconta potrebbe essere un nostro fratello, salvo che in guerra
l’avremmo ucciso. Ma allora fin dove si può essere empatici, fin dove è lecito
capire? È una domanda sull’onestà dello scrittore e sull’etica della
letteratura e quindi sull’onestà del nostro immaginario collettivo. «Per me è
una questione essenziale. Rispondo: non c’è limite all’empatia. Quello che deve
fare uno scrittore, ma anche un filosofo, è capire tutto, capire i peggiori.
Capire non vuol dire giustificare. Ma il contrario. Capire è darci le armi per
non diventare carnefici e corrotti».
Quindi Primo Levi quando diceva che capire è
un po’ giustificare sbagliava? Lo vogliamo dire? «L’ha posta, come domanda,
Tzvetan Todorov».
Possiamo spingerci oltre? Levi, essendo una
vittima, non poteva capire il carnefice. «Appunto. Per una vittima capire il
suo boia significa autodistruggersi. Però, a pensarci bene, me la sento di dire
che Levi non sbagliava: La sua “Trilogia di Auschwitz” (in Spagna “Se questo è
un uomo”, “La tregua” e “I sommersi e i salvati” sono usciti appunto come
“Trilogia di Auschwitz”, ndr) è ovviamente un geniale tentativo di
comprensione. Uno sforzo di capire tutto».
giovedì 27 dicembre 2018
Sullaprimaoggi. 45 «La bestia è qui».
Tratto da “La
bestia è qui” di Giuseppe Catozzella, pubblicato sul settimanale L’Espresso
del 16 di dicembre 2018: (…). La Storia trascorre, e si ripropone oggi in
un “eterno ritorno”. L’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti
umani dell’Osce, così come la commissione parlamentare “Jo Cox”, parlano di un
aumento impressionante di reati di violenza a sfondo di odio razziale negli
ultimi mesi, in Italia. Solo da giugno a ottobre sono una settantina (omicidi,
accoltellamenti, sprangate, investimenti). A ben vedere, le basi materiali sono
molto simili a quelle degli anni Venti. L’omicidio del nigeriano Emmanuel Chidi
Namdi, a Fermo; il neonazista Luca Traini che leggeva il Mein Kampf che a
Macerata spara trenta colpi contro sei stranieri; l’uccisione a Firenze del
senegalese Idy Diane; quella del maliano Soumaila Sacko, in Calabria. Ma cos’è
il razzismo, sulla cui base animale e biologica si commettono questi crimini?
Si può prendere per buona la definizione che ne dà lo storico Fredrickson in
“Breve storia del razzismo” (Donzelli, 2002): «Quando differenze che potrebbero
essere considerate etnoculturali vengono invece considerate innate, indelebili
e immutabili». Una tara innata, animale, biologica. «Andiamo a picchiare i
neri», (Pomigliano). «’A negri qua non ce potete sta’, se non ve n’annate so’
affari vostra», (Tarquinia). «Non mi faccio visitare da un negro», (Cantù).
«Gas per i negri», (Isola del Gran Sasso). «Non possiamo smettere finché voi
negri siete qui», (Pavia). «Sporco negro, odio i negri», (Riccione). Sono tutte
frasi pronunciate nel giro di un pugno di giorni dopo la famosa dichiarazione
di Attilio Fontana, attuale Governatore della Lombardia: «Dobbiamo decidere se
la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve
continuare a esistere o se deve essere cancellata». Come nel secolo scorso,
quello che sta accadendo è un involgarimento del dibattito pubblico e uno
scivolamento progressivo dalla banalizzazione alla normalizzazione, fino alla
rivendicazione delle violenze razziste. (…). Ma questo discorso pubblico
inneggiante alla razza e all’odio, proprio come negli anni Trenta sta giustificando
un comportamento violento privato, animale. Stanno tornando a circolare
liberamente molte parole dell’ideologia razzista e deumanizzante che ha
permesso il fascismo e il colonialismo, così come sembra riaffacciarsi una
concezione della donna e della famiglia di stampo regressivo (per esempio, la
mozione anti-aborto approvata a Verona, che fa tornare in mente le “culle
vuote” del Ventennio). La dichiarazione del governo di differenziare gli orari
di apertura degli esercizi commerciali “etnici” da quelli italiani. Il caso
della mensa scolastica di Lecco, dove i bambini stranieri sono stati divisi
dagli italiani. Il caso del comune milanese di Cinisello, dove la giunta ha
chiesto il bollo della censura per ogni libro proposto nei progetti di lettura
municipali. Lo stesso Ius sanguinis, che àncora la cittadinanza al “sangue” e
non al luogo di nascita. La demonizzazione dello straniero come portatore di
malattie (ideologia alla base del sequestro della nave Aquarius, mutuata dalla
campagna fascista per la conquista dell’Etiopia). Che cosa sta succedendo a noi
italiani? Non eravamo mica “italiani brava gente”, come ha detto in
un’intervista poi strumentalizzata l’attrice polacca Kasia Smutniak («il
razzismo non è nel dna degli italiani»)? I numerosissimi episodi di violenza su
stranieri però dicono il contrario. Di sicuro ci sta accadendo di essere
vittime di un rimosso collettivo. Era la mattina del 18 settembre del 1938
quando Benito Mussolini, annunciava le leggi razziali. Sotto, in «un solo
palpito di attesa e di amore», 150 mila persone esultavano, affollando piazza
dell’Unità di Trieste in camicia nera e fez. Mussolini disse che occorreva «una
chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze,
ma delle superiorità nettissime».
mercoledì 26 dicembre 2018
Memoriae. 04 L’identità di questo Paese ha ben poco di cristiano.
Il 20 di aprile dell’anno 1993 veniva a mancare don
Tonino Bello, vescovo di Molfetta. È di questi giorni (il 23 di dicembre) l’iniziativa
del settimanale Famiglia Cristiana di ri-pubblicare, con un titolo - “Gli auguri scomodi di don Tonino Bello”
- che vorrebbe rendere omaggio al coraggio ed alla lungimiranza di quel vescovo,
una lettera augurale che quell’alto prelato indirizzava in occasione del Natale
ai fedeli. Saranno forse i tempi bui che siamo chiamati a vivere - durante i
quali politici spergiuri e menzogneri osano far politica con il rosario ed i
sacri testi in mano - ad aver spinto quel settimanale a ri-pubblicare quella “tremenda”
lettera la cui lettura non può lasciare indifferenti sol che si possegga un minimo
di animo disposto alla comprensione ed alla caritatevolezza che la festa cristiana
dovrebbe suscitare tra i suoi adepti? L’iniziativa non è che lodevole ma sembra
proprio cadere in quel vuoto che “riempie” le anime delle italiche genti d’oggi.
È come se la chiesa di Roma si fosse dimenticata per sì lungo tempo di quel
coraggioso don Tonino per riscoprirlo – come “strumento” di cosa? - dopo più di
venti anni. È stato certamente uno di quei “preti scomodi” alla Don Gallo o
alla Don Farinella, invisi alle alte gerarchie d’oltre Tevere; cantori, quelli,
di una spiritualità in contrasto con i tempi.
martedì 25 dicembre 2018
Sullaprimaoggi. 44 «Noi non facciamo il Presepe, noi siamo il presepe».
Tratto da “Il
presepio è il Baobab di Roma e Salvini è un bestemmiatore” di Tomaso Montanari,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 24 di dicembre 2018: (…). Ebbene,
sia come cittadino di uno stato laico sia come cristiano credente e praticante
credo sia un errore grave. Naturalmente nella propria casa ognuno si comporterà
come crede, e molti non credenti sceglieranno magari di farlo, il presepe: per
celebrare la propria umanità attraverso un segno carico di significati connessi
alla storia familiare e all’infanzia, (…). Ma gli spazi pubblici, le parole e i
gesti dei responsabili delle istituzioni e soprattutto le scuole (le scuole,
dove si diventa cittadini della Repubblica) sono un’altra cosa: dove di sacro
c’è la laicità dello Stato, delle sue sedi, dei suoi rappresentanti. L’ultima
discussione dell’assemblea Costituente (sotto Natale: il 22 dicembre 1947)
riguardò l’opportunità di menzionare Dio nella Costituzione. Ma nemmeno il
cattolicissimo Giorgio La Pira, che aveva avanzato quella proposta e poi la
ritirò con encomiabile senso dello Stato, pensava a una formula cristiana:
«L’importante è di non fare una specifica affermazione di fede, come è nella
Costituzione irlandese: “In nome della Santissima Trinità”», disse.
lunedì 24 dicembre 2018
Sullaprimaoggi. 43 «Tu scendi dalle strenne…».
Tratto da “Caro
Babbo Natale, chi ti scrive è una mamma” di Vittorio Zucconi, pubblicato
sul settimanale “D” del 17 di dicembre dell’anno 2016: (…). «Caro Babbo Natale, voglio
dirti che sono stata una buona mamma tutto l'anno. Ho nutrito, pulito e
coccolato i miei tre bambini. Ho fatto più visite per loro in un mese nello
studio del pediatra di quante abbia fatte per me dal mio medico tutto l'anno.
Ho cucito e incollato più distintivi e patacche sulle loro varie uniformi di
una compagnia dell'Esercito. Ho abbracciato e baciato ciascuno di loro in un
giorno più di mio marito in un mese. Scusami per la calligrafia, ma ho pochi
minuti per scriverti e sto usando un pastello rosso perché tutte le biro e le
matite sono scomparse come sempre, tra cuscini dei sofà e sotto i mobili. Questi
sono i miei desideri, che puoi esaudire anche nel futuro poco alla volta, non
ho fretta.
sabato 22 dicembre 2018
Riletture. 54 «Senza risorse per reggere da soli il buio della nostra notte».
Ha scritto Federico
Rampini in “Diventare rinoceronti senza accorgersi”, pubblicato sul
settimanale “D” dell’8 di dicembre 2018: Chi di noi ricorda la prima volta che vide
per strada uno zombie umano camminare con gli occhi incollati allo schermo
dello smartphone? Impossibile ricordarlo. Probabilmente la scena ci colpì solo
per un attimo. (…). Chi ancora si ostina a camminare guardando gli altri negli
occhi è destinato all’estinzione? Ci rendiamo conto della metamorfosi di massa
cui ci hanno sottoposti i Padroni della Rete? Esperimenti da laboratorio su
miliardi di esseri viventi. Cavie già affette da una mutazione irreversibile,
temo: il sequestro dell’attenzione. Ha scritto Umberto Galimberti in “Così, tra un like e l’altro, siamo
rimasti soli” - pubblicato sul settimanale “D” del 22 di dicembre dell’anno
2016 -: In quest'era di social network e di spudoratezza ci siamo esposti
troppo. E abbiamo cominciato a dipendere dal giudizio degli altri. È questo
il quarto flagello che si aggiunge a quelli evidenziati da Ryszard Kapuscinski
(1932-2007) nel Suo volume “Imperium”
(Feltrinelli) - «Tre sono i flagelli che minacciano il mondo. Primo, la piaga del
nazionalismo. Secondo, la piaga del razzismo. Terzo, la piaga del
fondamentalismo religioso. Tre pesti unite dalla stessa caratteristica, dallo
stesso comun denominatore: la più totale, aggressiva e onnipotente
irrazionalità. Impossibile penetrare in un mente contagiata da uno di questi
tre mali» -? Un “flagello” non “predicato” ma non
per questo meno temibile, anzi molto più subdolo e per questo sub-liminalmente pervasivo. Sostiene
nella Sua riflessione Umberto Galimberti: (…). Venendo al tema, diciamo subito che
"essere" è più complicato che "apparire", soprattutto in
una società dei consumi come la nostra, dove la pubblicità delle merci,
necessaria per farle conoscere, ha contagiato anche gli uomini, i quali,
degradandosi al livello di merce, hanno la sensazione di esistere solo se si
mettono in mostra, compensando l'individualità mancata con la pubblicità
dell'immagine. Siamo diventati tutti "es-posti", ossia "posti
fuori da noi" per cui la nostra identità più non ci appartiene, perché è
laggiù in ciò che si vede e si dice di noi. Per effetto di questa esposizione chi
non si mette in mostra - in un mondo che è diventato una "mostra" che
non è possibile non visitare, perché comunque ci siamo dentro - chi non è
irradiato dalla luce della pubblicità, non lo riconosciamo, anzi di lui neppure
ci accorgiamo, al limite non c'è. Di qui tutto quel darsi da fare per apparire,
perché più non riconosciamo un nostro essere e, per via di questo mancato
riconoscimento, la nostra identità è affidata agli altri. Siamo infatti nelle
mani degli altri, al punto che il nostro pensare e il nostro sentire, la nostra
gioia e la nostra malinconia non dipendono più dai moti della nostra anima che
abbiamo perso e probabilmente mai conosciuto, ma dal "mi piace" o
"non mi piace" espresso dagli altri, a cui ci siamo consegnati con la
nostra immagine, che, per non aver mai conosciuto noi stessi, è l'unica cosa
che possediamo e che vive solo nelle mani degli altri. Ci siamo espropriati e
alienati nel modo più radicale, perdendo ogni traccia di noi. Pur di sentirci
al mondo, abbiamo perso il nostro mondo, quello intimo, quello per cui siamo
quello che siamo. E col nostro mondo abbiamo perso il pudore, che non è una
faccenda di vesti o sottovesti, ma la custodia della nostra interiorità, che
certe trasmissioni televisive pubblicamente, e i social network privatamente,
ci invitano a consegnare agli altri con intime confessioni, emozioni in
diretta, trivellazioni della nostra vita privata, storie d'amore che perdono il
loro segreto, in quelle forme sguaiate di "spudoratezza" che vengono
apprezzate e fatte passare come espressioni di "sincerità". Una volta
che la spudoratezza è diventata una virtù, non abbiamo più vergogna. E siccome
"vergogna" significa: "Temo la gogna, la mia pubblica
esposizione", non ci si vergogna più della colpa, ma della sua pubblicizzazione,
che il nostro pudore, ormai corrotto, avverte più disdicevole della colpa. Di
intimo c'è rimasto solo il dolore, la malattia, la povertà, che ciascuno cerca
di nascondere per non essere isolato dagli altri. E così abbiamo reso
inespressive tutte quelle figure dell'esistenza che avrebbero bisogno del
massimo di comunicazione, per trovare quel sollievo che deriva dal non essere
inabissati nella nostra solitudine, resa inespressiva per impossibilità di
comunicarla. Infatti non si pubblicizza il dolore, la malattia, la povertà,
perché gli altri non ne vogliono sapere e noi, che abbiamo dimenticato noi
stessi quando ci dedicavamo alla nostra sfrenata esposizione, ci troviamo senza
risorse per reggere da soli il buio della nostra notte.
venerdì 21 dicembre 2018
Lalinguabatte. 68 «I flagelli che minacciano il mondo».
Riportava il glorioso quotidiano
l’Unità nella Sua “striscia rossa” del 6 di
ottobre dell’anno 2008 una dichiarazione resa all’agenzia Ansa il 3 ottobre di
quell’anno dalla “Comunità di
Sant’Egidio”: «La sequenza di atti di razzismo in Italia è impressionante: Napoli,
Milano, Parma, Roma. Ma c’è chi non si vergogna, da posizioni di responsabilità
nelle amministrazioni pubbliche e in Parlamento, ad incitare al disprezzo verso
immigrati, rom, romeni, islamici, di volta in volta. C’è un clima
irresponsabile e irrespirabile di “caccia al diverso” che rischia di ammalare
la convivenza nelle nostre città». Sembra la chiosa alla cronaca dei
tristissimi fatti di questi nostri giorni. Scriveva a quel tempo il settimanale
“Famiglia cristiana” in un editoriale:
“Mentre
i capi di Stato all’Onu facevano il punto su come ridurre povertà e fame entro
il 2015 (Obiettivi del millennio), c’è chi ha preferito restare a casa tra
massaggi e tisane. Ma la risposta alla cooperazione allo sviluppo l’Italia
l’aveva già data: zero euro di spesa. Inutile, quindi, andare a New York”.
L’editoriale di “Famiglia cristiana” aveva per titolo: “Calpestare i diritti umani è un crudele boomerang”. L’autorevole
settimanale parlava senza perifrasi di “crudeltà”. Tanto tempo addietro –
il 14 di maggio dell’anno 2008, un decennio - Aldo Schiavone pubblicava sul
quotidiano “la Repubblica“ un editoriale che portava come titolo “La sindrome del nemico”, editoriale del
quale trascrivo di seguito una parte che offro alla riflessione di tutti gli
uomini d’oggi di “buona volontà”: (…). È l´intero Paese (si parlava
del bel paese n.d.r.) ad essere scosso da un brivido che viene
dal suo fondo più buio, e che in qualche caso sta assumendo i tratti di una
vero e proprio riflesso condizionato. Paura di non farcela, di non riuscire a
padroneggiare il proprio destino, di vedere polverizzati i legami sociali su
cui si pensava di poter contare, di non sapere più gestire problemi anche
elementari di convivenza, di confronto con la diversità. Paura di vedersi
ridotti i propri spazi di vita, le proprie risorse, il proprio tempo. Paura di
scoprire nell´altro il nemico, alla soglia di casa. Ebbene, dobbiamo avere il
coraggio di dire che se questa sindrome del nemico si radica nei nostri comportamenti
collettivi, se diventa una parte - anche minoritaria ma pur sempre attiva - del
nostro contesto culturale, del nostro vissuto sociale, del nostro sfondo
mentale, allora noi saremo perduti. Perduti come Paese, perduti come società
viva e capace di innovazione, di slancio, di sviluppo. Perduti, in una parola,
come protagonisti sulla scena del mondo. Diventeremo una comunità chiusa e
ringhiosa - come non siamo mai stata - senza futuro e senza storia. Questo,
naturalmente, non ha nulla a che fare con problemi effettivi di gestione della
sicurezza urbana e di repressione dell´illegalità, che dobbiamo saper
affrontare in modo efficiente e realistico, e anche diverso rispetto al
passato. In questo senso, ogni sforzo di razionalizzazione delle misure e dei provvedimenti
da parte del nuovo governo non potrà che essere benvenuto. Ma ha molto a che
fare invece con un´ideologia della serrata, (…), della chiamata a raccolta
delle forze sane, della difesa di una nostra identità immaginata come
minacciata e in pericolo, di un rifiuto di tolleranza e di confronto, che si
sta pericolosamente diffondendo, che ha i suoi propugnatori e adepti, e che
rischia di immettere tossine nei nostri pensieri di cui proprio non avremmo
bisogno. E c´è qualcosa di più da aggiungere. Questa non è solo una questione
di etica - che pure non sarebbe cosa da poco. È in gioco la nostra capacità e
la nostra volontà di continuare a rimanere un Paese moderno, o di uscire fuori
dal vento della storia. Chiusi e intolleranti si muore. Aperti e accoglienti si
vince. Non c´è altra verità. E dunque il problema non è di scegliere fra due
strade entrambe praticabili, ma di come attrezzarci per poter percorrere
l´unica possibile. Come far sentire meno soli i nostri cittadini, meno
abbandonati a se stessi nella gestione di ogni convivenza culturalmente più
complessa, più rassicurati dalla vicinanza dello Stato e delle istituzioni. Più
protetti, e più aperti. (…)“. Ci ha lasciato scritto Ryszard
Kapuscinski (1932-2007) nel Suo volume “Imperium”
(Feltrinelli): «Tre sono i flagelli che minacciano il mondo. Primo, la piaga del
nazionalismo. Secondo, la piaga del razzismo. Terzo, la
piaga del fondamentalismo religioso. Tre pesti unite dalla stessa
caratteristica, dallo stesso comun denominatore: la più
totale, aggressiva e onnipotente irrazionalità. Impossibile penetrare in un mente
contagiata da uno di questi tre mali».
giovedì 20 dicembre 2018
Terzapagina. 58 «La libertà che sceglie la menzogna rinnega se stessa».
Tratto da «La
libertà è come l'ossigeno», intervista di Wlodek Goldkorn ad Adam Michnik pubblicata
sul settimanale L’Espresso del 30 di maggio 2018: (…). Quando né la Polonia né lei
eravate liberi, lei si definiva un “libero cittadino” e lo diceva perfino
quando stava in carcere. Ma allora cosa è la libertà? «La libertà è la capacità
di riflettere autonomamente su se stessi, sul mondo e sul nostro ruolo nel
mondo. Sto dicendo una cosa elementare: posso mantenere la mia libertà anche in
prigione. I libri, i saggi, i miei interventi sui giornali, scritti in galera e
pubblicati clandestinamente in Polonia, erano testi di un uomo libero. Se
invece, da detenuto, mi fossi arreso alla narrazione, alla retorica, al
linguaggio dei miei carcerieri, avrei perso la mia libertà. Il grande poeta
russo Osip Mandel’stam, quando scriveva le sue poesie ai tempi di Stalin, era
un uomo libero. Voglio aggiungere un’altra cosa: la libertà è come l’ossigeno.
Finché viviamo in condizioni normali non ci accorgiamo quanto sia
indispensabile, ce ne rendiamo conto solo quando ci viene a mancare. La vita
quotidiana di un Paese democratico non suscita entusiasmo né stupore, però
quando comincia a mancare la libertà ci sentiamo soffocare. E soprattutto,
perdiamo la parola. La perdiamo perché senza la libertà non siamo in grado di
pensare e di immaginare un futuro».
Qual è il prezzo massimo che vale la pena di
pagare per la libertà? «Per me la libertà non ha prezzo».
Sarebbe disposto a pagare con la vita per la
libertà? Lo era quando stava in prigione? «Sì».
Ne è sicuro? «Senta, se lei rinnega se
stesso, se rinuncia alla propria libertà, la sua vita perde sapore, profumo,
senso. Non credo di dire una cosa sorprendente. Ci sono state, nella storia,
tantissime persone che hanno perso la vita pur di non rinunciare alla libertà».
Ma quasi sempre è esistita pure l’opzione di
compromesso; la rinuncia a un po’ di libertà, l’accettazione di un limite, per
poter operare alla luce del sole in regimi autoritari. Pensi a certe riviste di
cultura sotto il fascismo in Italia o ai tempi del comunismo nel suo Paese, la
Polonia. E c’erano persone, dentro le istituzioni, che aiutavano gli
antifascisti in Italia o gli anticomunisti in Polonia. «Ma non hanno rinunciato
alla facoltà di libero arbitrio. Hanno scelto il compromesso e lo stare dentro
le istituzioni come una tecnica di sopravvivenza».
Sta dicendo che il compromesso non intacca
il principio della libertà? «Direi di più: il compromesso è il pane e il vino
della democrazia. E la democrazia non è altro che la libertà nel quadro delle
leggi e della Costituzione».
martedì 18 dicembre 2018
Lalinguabatte. 67 «La povertà non si vede se non in qualche flash televisivo tra una forchettata e un'altra».
** è un uomo giovane. ** è un
uomo istruito. ** proviene da una famiglia abbiente. ** lavora. ** non fa
mistero dei suoi pensieri. Un suo pensiero è che i poveri non debbano
permanere, anche solo temporaneamente, nel suo paese. Il suo paese è in una della zone
più benestanti del bel paese. Il paese in cui abita ** ha condotto battaglia
per allontanare i poveri costretti all’accattonaggio. ** plaude alle iniziative
della amministrazione comunale per il pieno conseguimento del “repulisti”,
indifferente laddove il Salmo - 42, 2 - recita: “quare me repulisti?” (“perché
mi hai respinto?”). Sostiene ** che l’accattonaggio vada perseguito anzi, molto
meglio, inflessibilmente perseguitato. Perché ** non vuole che i poveri
accattoni sostino per le vie di ***. La loro vista disturba **. Sostiene sempre
** – cristianamente – che “sarebbe cosa buona e giusta” che i
poveri costretti all’accattonaggio si trasferissero in altri luoghi. Quali? **
non ha risposte. ** non è interessato al dove. Ovunque, purché non sostino nelle
vie e viuzze di ***. Tanto meno nell’isola pedonale di ***, che è meta dello
struscio serotino. I poveri costretti all’accattonaggio sono per ** come degli
avanzi, degli scarti. La loro sola presenza disturba **. Come quei residui che
all’occorrenza si trasferiscono lestamente con il piede sotto la coltre del
tappeto buono di casa. Si sa dell’esistenza di quei residui ben nascosti sotto
il tappeto di casa, ma non li si vede e pertanto non disturbano la vista. I
poveri come quei resti. Che stanno bene ovunque per **, tranne che nel suo
solatio paese. La povertà degli altri non sollecita in ** interrogativi e pensieri
di solidarietà o di fratellanza – miraggio quest’ultimo universalmente e
miseramente fallito dopo millenni di buoni proponimenti e di inutili prediche -.
Della povertà e dintorni ne ha scritto da par Suo Umberto Galimberti nella
corrispondenza “L'ipocrisia
dell'elemosina”, corrispondenza pubblicata
su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica”: (…). …siamo di fronte alla
povertà che si manifesta sui sagrati delle chiese o agli angoli delle nostre
strade. Punte di un iceberg di quella povertà più diffusa e massiccia che però
tende a nascondersi perché ciò che espone è una condizione umiliante. Nessuno
va a cercare la povertà perché la sua vista inquieta. Al massimo un gesto senza
neppure guardare in faccia il destinatario. A volte persino una catena di gesti
che però non entrano in contatto con la povertà, ma solo con l'organizzazione
deputata a soccorrerla. Così la povertà non si vede se non in qualche flash
televisivo tra una forchettata e un'altra. Ciò che non si vede non esiste, o
esiste solo come sentito dire, come statistica, dove i numeri hanno il solo
compito di cancellare il volto di quei poveri a cui la miseria ha già tolto,
almeno da noi, se non il pane, certo quasi tutte le possibilità che il nostro
vivere concede ai suoi abitanti. Ben vengano allora in tutte le loro forme i
poveri che manifestano la loro povertà. Perché quella segreta complicità che
esiste tra il povero che si nasconde e il benestante che non lo va a cercare,
sottrae la povertà allo spettacolo quotidiano, la espelle dalla percezione, la
rimuove dalla vista, per farla vivere occasionalmente solo nel gesto distratto
di una mano che allunga qualcosa che non cambia di un grammo la nostra
esistenza. E così, non toccata, anche la nostra esistenza si rende immune dalla
presenza anche massiccia della povertà. Una povertà silenziosa, densa come la
nebbia, che in modo impercettibile ci tocca da ogni parte e che può passare
inosservata solo a colpi di rimozione percettiva, visiva, linguistica. Ma il
rimosso ritorna. E non ritorna come senso di colpa, da cui è facile sgravarsi
con un gesto di elemosina a chi ci appare dignitoso e non invadente. Ritorna
come atrofizzazione del nostro cuore che, per non percepire, non vedere, non
sentire quel che inevitabilmente ci tocca, deve procedere a tali colpi di
amputazione in ordine alla sua percezione del mondo da diventare alla fine un
povero cuore. E qui la povertà materiale di coloro che, talvolta visibili, ma
il più delle volte invisibili, si muovono nei bassifondi delle condizioni
impossibili d'esistenza, compie la sua vendetta mutilando il nostro cuore per
consentirgli di non percepire. Ma siccome la povertà esiste, non entrare in
contatto o entrarvi solo nei modi che decidiamo noi significa inventarsi un
mondo diverso da quello che è, e quindi prender dimora in uno spazio di
falsificazione. In questo spazio il nostro cuore, che per non vedere è costretto
a mutilare la sua sensibilità, ci rende insensibili a noi stessi e poveri di
autopercezione. E allora se i poveri non hanno pane, coloro che non li vogliono
vedere finiscono col non disporre più di sé. La condizione umana, infatti, è
comune. E il tentativo di chi vuol difendersi non solo dalla povertà, ma anche
dalla sua vista, è l'inganno di un giorno. E giorno dopo giorno l'inganno
diventa la falsificazione di una vita, soprattutto se evitiamo di pensare che
gran parte della povertà del mondo dipende dal nostro tenore di vita che forse
è al di là di ogni misura, senza che questa condizione abbia aumentato di un
grammo la nostra felicità.
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