Ora che, come suol dirsi, i “buoni sono scappati”,
torna interessante ed istruttiva la ri-lettura di un dossier a firma di Tonia
Mastrobuoni. Da “Deutsche Bank, la
caduta del gigante”, pubblicato sul settimanale “Affari&Finanza” del 15
di febbraio 2016: (…). L'intreccio tra banche e Stato in Germania è da sempre fortissimo.
Prima di imporre all'Europa il bail in, il principio per cui, per dirla con
Schaeuble, non devono essere più i contribuenti a salvare le banche, Berlino ha
riempito di soldi i suoi traballanti istituti di credito, che rischiavano di
essere risucchiati dal gorgo della Grande crisi. Oltre 240 miliardi di euro
sfilati dalle tasche dei contribuenti tedeschi che sono serviti a mettere a
riparo non solo le medie e le piccole, le Landesbanken, le Sparkassen, la Ikb o
la Hypo Real Estate, banche coi bilanci divorati dai derivati ormai senza
prezzo per il crollo dei mutui spazzatura americani. Nel 2009 il governo Merkel
fu costretto a tirare fuori più di 18 miliardi di euro per salvare la seconda
maggiore banca del suo Paese, Commerzbank, dal fallimento. (…). …oggi è il caso
di chiedersi dove sono finiti quei miliardi. Soprattutto: che fine avrebbe
fatto la "tripla A" tedesca, se la prima e la seconda banca del Paese
avessero accettato un salvataggio pubblico? Che la Germania abbia sempre
preferito "spazzare davanti alla propria porta" - un'espressione
rubata a Goethe con cui Merkel respinse nel 2008 la richiesta del presidente
francese Sarkozy di trovare una soluzione comune per il terremoto bancario
europeo - è noto. Persino quando l'Europa trovò miracolosamente la quadra per
l'Unione bancaria, il 29 giugno del 2012, all'apice della crisi dell'euro,
Schaeuble riuscì a tenere fuori dalla Vigilanza europea le banche tedesche più
piccole, quei potentati locali, gelosamente controllati dalla politica, che
sono le Landesbanken, ma anche le Sparkassen. Adesso che torna a vacillare
Deutsche, è il caso di chiedersi se un gigante così grande potrà essere, nella
peggiore delle ipotesi, fatto fallire come impongono le nuove regole europee. O
se Merkel e Schaeuble, ancora una volta, interverranno, infischiandosene del corsetto
che hanno fatto indossare a tutti gli altri. Per capire la potenza, la
credibilità, anche l'arroganza dei suoi top manager, basti pensare che con una
sola frase è stata in grado per decenni di affossare imperi.
Nel 2002 diede il
colpo di grazia ad uno dei principali gruppi mediatici tedeschi, quello del
magnate Leo Kirch, il Berlusconi tedesco. L'allora capo di Deutsche Bank, Rolf
Breuer, espresse dubbi sul gruppo: in un'intervista televisiva sostenne che, a
fronte della montagna di debiti che aveva, riteneva improbabile che qualcuno
avrebbe concesso ancora del credito a Leo Kirch. Nel giro di pochi mesi, il
magnate fallì. Dopo le parole di Breuer, nessuno gli volle più dare un
centesimo. Lui trascinò la banca in tribunale e vinse. Deutsche fu costretta a
pagare 925 milioni di euro agli eredi. Quello di Kirch è uno degli innumerevoli
scandali che gravano sul nome di un istituto che vanta 146 anni di storia e che
l'ultimo amministratore delegato, John Cryan, sta tentando disperatamente di
riportare a galla dopo un ventennio di hybris. Dopo che l'obiettivo dichiarato
- e fallimentare - formulato a partire dagli anni Novanta era stato quello di
trasformare Deutsche Bank da nano a gigante globale, di ingrandirla a dismisura
rincorrendo i colossi americani. Naturalmente, l'Eldorado erano allora i
derivati e la banca francofortese ci si buttò a capofitto. Un piccolo gioiello
cinematografico, tratto da un magnifico libro di Michael Lewis, che cattura
benissimo quel momento è "The Big Short", diretto da Adam McKay: Ryan
Gosling interpreta l'unico trader di una grande banca - Deutsche, appunto -
così spericolato da azzardare scommesse finanziarie su un mercato
apparentemente granitico come quello degli immobili americani. E in
un'inchiesta del Senato statunitense sulle cause della Grande crisi, si legge
che due banche avevano giocato un "ruolo chiave" nella costruzione
dei titoli tossici che fecero collassare nel 2008 il sistema finanziario
globale: Goldman Sachs e Deutsche Bank. Per capire la sensazione di intoccabilità
dei suoi manager, basti pensare che una delle più famose gaffe diventate ad
oggi il simbolo dell'arroganza universale dei banchieri, è imputabile ad un ex
capo del colosso di Francoforte. Nel 1994, commentando il fatto che il
fallimento di un costruttore finanziato dalla banca francofortese aveva
lasciato 50 milioni di marchi (circa 25 milioni di euro attuali) di fatture non
pagate ai manovali, Hilmar Kopper commentò, in inglese, che si trattava di
"peanuts", "noccioline". Negli anni, gli illeciti si sono
moltiplicati. Oggi una delle incognite che gravano sul futuro di Deutsche Bank
è simile a quella che pesa sul maggiore gruppo automobilistico tedesco,
Volkswagen. Esattamente come il gigante di Wolfsburg, caduto nella corsa per
accaparrarsi lo scettro del gruppo automobilistico più grande del mondo e
finito anch'esso nella polvere per hybris, per aver voluto illudere tutti di
poter unire le migliori prestazioni con le regole più severe, la prima banca
tedesca si è infilata nell'olimpo delle banche d'affari americane con un
eccesso di zelo speculativo tale che anche oggi un terzo del bilancio è
aggravato da derivati e strumenti opachi. Altro motivo di diffidenza, per gli
investitori che stanno scappando in massa dal titolo. Ma il dossier più
impressionante, effettivamente, è quello degli scandali. È quello che offusca
l'orizzonte della banca: il costo delle cause è miliardario da anni e
continuerà ad esserlo per molto tempo (come per Volkswagen). Ma contrariamente
a Vw, accusata solo di manipolazione delle emissioni di gas di scarico, negli
ultimissimi anni Deutsche Bank è finita sotto la lente degli investitori
praticamente in ogni angolo del mondo per truffe, scandali, operazioni illegali
di ogni tipo. Una delle accuse più pesanti, che le è già costata multe per
oltre 3,5 miliardi da parte della Commissione europea, delle autorità di
vigilanza britanniche e americane, è quella di aver manipolato, insieme ad
altri istituti di credito, i tassi che vengono presi a riferimento dai mercati
per le maggiori operazioni, Libor ed Euribor. Alle multe pubbliche, si
aggiungeranno negli anni i risarcimenti chiesti da aziende e privati. In
Svizzera, le autorità sono invece alla ricerca di dettagli su una possibile
manipolazione del mercato dell'oro e dell'argento, ad opera dei manager di
Deutsche Bank. Un capitolo molto buio degli anni recenti sono le attività in
Russia. L'istituto tedesco è accusato dagli inquirenti di riciclaggio e di aver
aggirato le sanzioni. Ma i francofortesi attendono anche con ansia la multa che
potrebbero esseri costretti a pagare per un altro embargo non rispettato:
quello con l'Iran. Nel 2012, quando venti volanti della polizia inchiodarono
con le sirene spiegate davanti alla sede francofortese di Deutsche e un elicottero
si fermò a mezz'aria sul grattacielo, fu il segnale al mondo che stava
cominciando una perquisizione che terminò con sequestro di materiali e numerosi
arresti. L'accusa: evasione fiscale collegata ai diritti di emissione dei gas
Co2. Tra gli indagati, anche Juergen Fitschen, uno dei due amministratori
delegati. Il manager alzò il telefono e chiamò infuriato il primo ministro
dell'Assia, Volker Bouffier per lamentarsi dell'operazione: "Può
danneggiare la reputazione della banca" gli sibilò nell'orecchio. E non
c'era un filo di ironia, in quelle parole.
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