Esiste nella Storia degli umani
una “linearità” nei suoi svolgimenti che ha dell’incredibile. Che manda al
diavolo le teorie sociologiche ed antropologiche le più svariate che la fervida
ed ingegnosa mente umana ha creato nel suo tortuoso divenire. Si diceva di una
linearità nella Storia degli umani: che con un andamento carsico si auto-sotterra
per sopravvivere a sconvolgimenti o solamente minacciati rivolgimenti degli
equilibri sociali o di quant’altro mirasse ad interromperne l’avida azione. È così
che la linearità sopravvive sempre, nascosta sotterra, per riemergere
allorquando le condizioni sociali e politiche vengono restaurate e ne
consentano il riemergere. È una linearità che fa comodo a chi, detenendo
fortune e potere, determina la Storia e le vite del resto degli umani. La “sfogliatura”
che si propone oggi alla benevola attenzione degli incauti navigatori della
rete incappati, malgrado loro, su questo blog risale ad un giovedì che numerava
essere il 22 di un torrido mese di luglio dell’anno 2010. Mi hanno spinto alla
riproposizione della stessa le allarmanti notizie diffuse sulla stampa di una
iniziativa del governo del “rignanese”, intesa, l’iniziativa intendo dire, a procedere
“motu proprio” alla designazione dei professori negli atenei del bel paese. Come
ai bei tempi andati. Scrivevo in quel di luglio lì: "Insegno filosofia della
persona alla facoltà di Filosofia dell’Università Vita Salute San Raffaele.
Scrivo queste righe per dire: non in mio nome. Non è certamente in mio nome che
il nostro rettore, don Luigi Verzé, intervenendo come è suo diritto alla
cerimonia delle proclamazioni delle lauree, si è rivolta alla sola candidata
Barbara Berlusconi, che giungeva a conclusione del suo percorso triennale,
chiedendole se riteneva che potesse nascere una facoltà di Economia del San
Raffaele basata sul pensiero dell’autore sul quale verteva la sua tesi (Amartya
Sen), e invitandola a diventare docente di questa Università, in presenza del
presidente del Consiglio, il quale assisteva alla cerimonia. Intendo
dissociarmi apertamente e pubblicamente da questa che ritengo una violazione
non solo del principio della pari dignità formale degli studenti, non solo
della forma e della sostanza di un atto pubblico quale una proclamazione di
laurea, non solo della dignità di un corpo docente che il rettore dovrebbe
rappresentare, ma anche dei requisiti etici di una istituzione universitaria
d’eccellenza quale l’Università San Raffaele giustamente aspira a essere”. Ho appena trascritto e Voi avete appena
letto la lettera pubblica della professoressa
Roberta De Monticelli che è docente
presso l'Università San Raffaele di Milano, sede di laurea triennale –
si badi bene, triennale - della signora B. in Valaguzza. Il fatto richiama alla
memoria un tempo andato. Un tempo lugubre assai. Nel qual tempo i professori
universitari d’Italia furono chiamati a prestare giuramento al regime nero
dell’altro cavaliere. Quanti furono, tra gli accademici di allora, a non
sottoscrivere l’ignominiosa formuletta del giuramento?
Se la memoria non erra, se
no “corrigetemi” come ebbe a dire il
papa polacco, furono soltanto in dodici. Dodici e basta. Tutti gli altri
firmarono. Ha dichiarato la professoressa De Monticelli a Davide Vecchi de “il
Fatto Quotidiano”: - Rischio di perdere
il lavoro, ma non ha importanza -. Gran coraggio, con l’aria che si
respira. È l’Università, quella, retta da tale Don Luigi Maria Verzé, chierico
almeno alle apparenze, chierico che abbiamo di già ammirato osannare il
neo-premiato signor B., premiato dalla premurosa provincia di Milano, provincia
padana retta dal “podestà” in carica
tale Guido Podestà, del partito dell’amore. È sempre il chierico e rettore in
persona che, in altri tempi, ha proclamato il signor B. uomo della “provvidenza”. Si dia il caso che col
termine “provvidenza” possa
benissimo intendersi anche un provvedimento economico preso dallo stato, o da
un ente locale, o perché no da un privato facoltoso, a favore di categorie di
cittadini in condizioni di necessità e non sempre di necessità. Che il chierico
brav’uomo volesse intendere solamente della munificenza del signor B.? C’è ben
poco da scialare sotto il cielo fosco e canicolare del bel paese. L’aria è
pesante. È come quando si preannuncia un temporale. Una tempesta forse. Le
nuvole si fanno basse. Il cielo diviene plumbeo. Si spera solo che passi
presto. Intanto ci si prepara al peggio. Alla fine della tempesta si passerà
alla conta dei danni. E della fine non di una tempesta, magari estiva, ma di
un’epoca sembra intravederne i contorni Oliviero Beha nella sua riflessione “Fine epoca” pubblicata su “il Fatto
Quotidiano”. Auguriamocelo. Un altro venticinque di luglio? Ma il fine
pensatore indugia soprattutto sulla “crisi
di identità” che è stata all’origine del formarsi, dell’apparire e
dell’instaurarsi dell’epoca del signor B., con le storture che oggigiorno
appaiono mostruosamente intollerabili agli occhi dei tanti e che la seduta di
laurea della signora B. in Valaguzza ha rappresentato alla perfezione, magari
senza o contro la volontà esplicita dell’interessata. Assente alla cerimonia di
laurea la signora Veronica, madre della signora B. in Valaguzza. Chissà perché! (…). La crisi di identità viene da
lontano, da un consumismo generalizzato che è passato dal consumo delle merci
al consumo dei comportamenti. Per attuarlo era necessario omologare il più
possibile piallando via la diversità, ed era indispensabile a questo fine
azzerare la memoria. È quello che è accaduto e accade ormai da anni. Termini
come fascismo e comunismo, comunque e diversamente dentro il nostro Dna
storico/personale, sono obsoleti, rimossi, considerati di un’altra epoca. È
stato deciso che non ci si dovesse ricordare chi eravamo per poter consumare
l’oggi, il noi stessi del presente, senza ritardi, orpelli, richiami del passato.
Ma così facendo si è intaccata l’identità, che senza memoria non ha né motivo
né possibilità di essere. In alcun modo. Non siamo più italiani, figli dei
padri, ma siamo solo padri dei figli in un presente istantaneo che non
contempla riflessioni su noi stessi, sullo stato (di crisi) della nostra
identità: siamo diventati post-italiani in assenza di una matrice
antropoculturale che ci facesse come siamo. Siamo nati da noi stessi, senza
passato. E se non ricordiamo chi eravamo sia pure per interposta generazione,
come facciamo a sapere chi siamo, quale consapevolezza del nostro identikit di
individui e di popolo possiamo alimentare? E senza sapere chi siamo, come è
pensabile che ci si possa prefigurare un futuro, quale che sia, su ogni piano,
un futuro auspicabile, augurabile, desiderabile o anche solo tangibile come
direzione da imboccare? Non è possibile, certamente non per la
collettività-Italia e mi pare anche piuttosto raro per il singolo: avviene solo
per chi sappia costruire se stesso praticamente dal nulla, o nutrito nella
personalità culturale da ciò che come Dna cocciutamente resiste ai feroci
tentativi di azzeramento sistemico affinché non risulti un fastidio nel
processo di consumo delle persone-merci. Persone-merci anche nella loro
versione elettorale. Non ci trattano forse da consumatori a cui vendere una
merce in questa sub-democrazia aziendalistica in cui l’amministratore delegato
pare oggi perdere qualche colpetto? (…). …c’è un sentore di fine epoca, di cose
che cambiano delle quali non siamo i protagonisti avvenire bensì piuttosto gli
epigoni stanchi. Gli ultimi, non i primi. Fine epoca, valori scomparsi, morale
in rifacimento, etica del viandante che cambia quasi a ogni passo. Difficile
orientarsi. Per tutti, credo. (…).
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