"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 27 ottobre 2016

Sfogliature. 70 “Aria d’epoca”.



Esiste nella Storia degli umani una “linearità” nei suoi svolgimenti che ha dell’incredibile. Che manda al diavolo le teorie sociologiche ed antropologiche le più svariate che la fervida ed ingegnosa mente umana ha creato nel suo tortuoso divenire. Si diceva di una linearità nella Storia degli umani: che con un andamento carsico si auto-sotterra per sopravvivere a sconvolgimenti o solamente minacciati rivolgimenti degli equilibri sociali o di quant’altro mirasse ad interromperne l’avida azione. È così che la linearità sopravvive sempre, nascosta sotterra, per riemergere allorquando le condizioni sociali e politiche vengono restaurate e ne consentano il riemergere. È una linearità che fa comodo a chi, detenendo fortune e potere, determina la Storia e le vite del resto degli umani. La “sfogliatura” che si propone oggi alla benevola attenzione degli incauti navigatori della rete incappati, malgrado loro, su questo blog risale ad un giovedì che numerava essere il 22 di un torrido mese di luglio dell’anno 2010. Mi hanno spinto alla riproposizione della stessa le allarmanti notizie diffuse sulla stampa di una iniziativa del governo del “rignanese”, intesa, l’iniziativa intendo dire, a procedere “motu proprio” alla designazione dei professori negli atenei del bel paese. Come ai bei tempi andati. Scrivevo in quel di luglio lì: "Insegno filosofia della persona alla facoltà di Filosofia dell’Università Vita Salute San Raffaele. Scrivo queste righe per dire: non in mio nome. Non è certamente in mio nome che il nostro rettore, don Luigi Verzé, intervenendo come è suo diritto alla cerimonia delle proclamazioni delle lauree, si è rivolta alla sola candidata Barbara Berlusconi, che giungeva a conclusione del suo percorso triennale, chiedendole se riteneva che potesse nascere una facoltà di Economia del San Raffaele basata sul pensiero dell’autore sul quale verteva la sua tesi (Amartya Sen), e invitandola a diventare docente di questa Università, in presenza del presidente del Consiglio, il quale assisteva alla cerimonia. Intendo dissociarmi apertamente e pubblicamente da questa che ritengo una violazione non solo del principio della pari dignità formale degli studenti, non solo della forma e della sostanza di un atto pubblico quale una proclamazione di laurea, non solo della dignità di un corpo docente che il rettore dovrebbe rappresentare, ma anche dei requisiti etici di una istituzione universitaria d’eccellenza quale l’Università San Raffaele giustamente aspira a essere”. Ho appena trascritto e Voi avete appena letto la lettera pubblica della professoressa  Roberta De Monticelli che è docente  presso l'Università San Raffaele di Milano, sede di laurea triennale – si badi bene, triennale - della signora B. in Valaguzza. Il fatto richiama alla memoria un tempo andato. Un tempo lugubre assai. Nel qual tempo i professori universitari d’Italia furono chiamati a prestare giuramento al regime nero dell’altro cavaliere. Quanti furono, tra gli accademici di allora, a non sottoscrivere l’ignominiosa formuletta del giuramento?
Se la memoria non erra, se no “corrigetemi” come ebbe a dire il papa polacco, furono soltanto in dodici. Dodici e basta. Tutti gli altri firmarono. Ha dichiarato la professoressa De Monticelli a Davide Vecchi de “il Fatto Quotidiano”: - Rischio di perdere il lavoro, ma non ha importanza -. Gran coraggio, con l’aria che si respira. È l’Università, quella, retta da tale Don Luigi Maria Verzé, chierico almeno alle apparenze, chierico che abbiamo di già ammirato osannare il neo-premiato signor B., premiato dalla premurosa provincia di Milano, provincia padana retta dal “podestà” in carica tale Guido Podestà, del partito dell’amore. È sempre il chierico e rettore in persona che, in altri tempi, ha proclamato il signor B. uomo della “provvidenza”. Si dia il caso che col termine “provvidenza” possa benissimo intendersi anche un provvedimento economico preso dallo stato, o da un ente locale, o perché no da un privato facoltoso, a favore di categorie di cittadini in condizioni di necessità e non sempre di necessità. Che il chierico brav’uomo volesse intendere solamente della munificenza del signor B.? C’è ben poco da scialare sotto il cielo fosco e canicolare del bel paese. L’aria è pesante. È come quando si preannuncia un temporale. Una tempesta forse. Le nuvole si fanno basse. Il cielo diviene plumbeo. Si spera solo che passi presto. Intanto ci si prepara al peggio. Alla fine della tempesta si passerà alla conta dei danni. E della fine non di una tempesta, magari estiva, ma di un’epoca sembra intravederne i contorni Oliviero Beha nella sua riflessione “Fine epoca” pubblicata su “il Fatto Quotidiano”. Auguriamocelo. Un altro venticinque di luglio? Ma il fine pensatore indugia soprattutto sulla “crisi di identità” che è stata all’origine del formarsi, dell’apparire e dell’instaurarsi dell’epoca del signor B., con le storture che oggigiorno appaiono mostruosamente intollerabili agli occhi dei tanti e che la seduta di laurea della signora B. in Valaguzza ha rappresentato alla perfezione, magari senza o contro la volontà esplicita dell’interessata. Assente alla cerimonia di laurea la signora Veronica, madre della signora B. in Valaguzza. Chissà perché! (…). La crisi di identità viene da lontano, da un consumismo generalizzato che è passato dal consumo delle merci al consumo dei comportamenti. Per attuarlo era necessario omologare il più possibile piallando via la diversità, ed era indispensabile a questo fine azzerare la memoria. È quello che è accaduto e accade ormai da anni. Termini come fascismo e comunismo, comunque e diversamente dentro il nostro Dna storico/personale, sono obsoleti, rimossi, considerati di un’altra epoca. È stato deciso che non ci si dovesse ricordare chi eravamo per poter consumare l’oggi, il noi stessi del presente, senza ritardi, orpelli, richiami del passato. Ma così facendo si è intaccata l’identità, che senza memoria non ha né motivo né possibilità di essere. In alcun modo. Non siamo più italiani, figli dei padri, ma siamo solo padri dei figli in un presente istantaneo che non contempla riflessioni su noi stessi, sullo stato (di crisi) della nostra identità: siamo diventati post-italiani in assenza di una matrice antropoculturale che ci facesse come siamo. Siamo nati da noi stessi, senza passato. E se non ricordiamo chi eravamo sia pure per interposta generazione, come facciamo a sapere chi siamo, quale consapevolezza del nostro identikit di individui e di popolo possiamo alimentare? E senza sapere chi siamo, come è pensabile che ci si possa prefigurare un futuro, quale che sia, su ogni piano, un futuro auspicabile, augurabile, desiderabile o anche solo tangibile come direzione da imboccare? Non è possibile, certamente non per la collettività-Italia e mi pare anche piuttosto raro per il singolo: avviene solo per chi sappia costruire se stesso praticamente dal nulla, o nutrito nella personalità culturale da ciò che come Dna cocciutamente resiste ai feroci tentativi di azzeramento sistemico affinché non risulti un fastidio nel processo di consumo delle persone-merci. Persone-merci anche nella loro versione elettorale. Non ci trattano forse da consumatori a cui vendere una merce in questa sub-democrazia aziendalistica in cui l’amministratore delegato pare oggi perdere qualche colpetto? (…). …c’è un sentore di fine epoca, di cose che cambiano delle quali non siamo i protagonisti avvenire bensì piuttosto gli epigoni stanchi. Gli ultimi, non i primi. Fine epoca, valori scomparsi, morale in rifacimento, etica del viandante che cambia quasi a ogni passo. Difficile orientarsi. Per tutti, credo. (…).

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