Da “L’insostenibile
ambiguità delle parole che usa la politica” di Gustavo Zagrebelsky, sul
quotidiano la Repubblica del 24 di settembre 2016: (…). …viviamo in un mondo nel
quale non è nemmeno possibile stabilire con precisione quanti sono gli esseri
umani che non conoscono questo elementare diritto che possiamo chiamare “diritto
al segno” o, leopardianamente, “diritto all’ orma”. Si misurano a milioni, cioè
a numeri approssimativi, senza che – ovviamente – a questi numeri possano
associarsi nomi. Milioni di anonimi, che giungono a noi come fantasmi, mentre
le loro sono esistenze concrete, anche se durano spesso lo spazio d’ un mattino
o di pochi mattini, consumandosi in fretta in condizioni disudigmane, in luoghi
dove la lotta per la mera sopravvivenza materiale sopravanza qualunque
possibilità di relazioni, dove i neonati vengono al mondo sotto la maledizione
di leggi statistiche che li condannano alla sparizione entro pochi giorni o
settimane di vita. Ciò che ci interpella inderogabilmente è che non possiamo
dire, come forse si sarebbe potuto un tempo, nel mondo diviso per aree, storie,
politiche separate e indipendenti le une dalle altre: sono fatti loro, loro è
la responsabilità, il nostro mondo non è il loro, ognuno pensi per sé alle
proprie tragedie. Non possiamo dirlo, perché il mondo, come ci ripetiamo tutti
i momenti, è diventato uno solo, grande, globale. Noi, in un tale mondo, osiamo
parlare kantianamente, senza arrossire, di “dignità” come universale diritto al
rispetto. Il “diritto all’ orma” detto sopra è legato a tutti gli altri diritti
come loro premessa e condizione: è davvero quello che è stato definito da
Hannah Arendt, con una formula che ha avuto successo (Rodotà), il “diritto di
avere diritti”. C’è un diritto che potremmo dire essere un altro modo d’
indicare il diritto di avere diritti, ed è il diritto al nome: un diritto al
quale i trattati di diritto costituzionale, se non l’ ignorano, dedicano poche
righe. La nostra Costituzione, all’ art. 22, tra i diritti umani fondamentali
stabilisce che nessuno può essere privato del suo nome perché i Costituenti sapevano
il valore di quel che dicevano. “Nominando” si specifica, si riconosce, si
creano le premesse per creare un rapporto. Questo non accade, oggi, alle
centinaia di migliaia e, in prospettiva, dei milioni di migranti che sono, per
noi, milioni non solo di senza nome, ma anche di senza terra.
«Quel che è senza
precedenti – scriveva Arendt con riguardo alla tragedia del suo popolo negli
anni ’30 e ’40 del Novecento – non è la perdita della patria, ma l’
impossibilità di trovarne una nuova». Tale impossibilità, allora, era
determinata dalle politiche razziali e colpiva comunità umane determinate.
Oggi, deriva dalla condizione generale del mondo saturo globalizzato. Questa
situazione estrema è la sorte delle persone private dei diritti umani. I
diritti umani sono una realtà per chi sta sopra, e il contrario per chi sta
sotto. Lo stesso, per la dignità. Per chi sta sopra, le rivendicazioni di chi
sta sotto e chiede di emergere all’ onor del mondo sono attentati allo standard
di vita “dignitoso” di chi sta sopra. Quando si chiede lo sgombero dei migranti
che intasano le stazioni, dormono nei parchi pubblici e puzzano, non si dice
forse che danno uno spettacolo non dignitoso? Ma, dignità secondo chi? Non
secondo i migranti, che della dignità non sanno che farsene, ma secondo noi che
da lontano li guardiamo. Ci sono parole, dunque, che non valgono nello stesso
modo per i divites e gli inanes. Si dovrebbe procedere da questa constatazione
per un onesto discorso realistico e riconoscere che le parole che hanno valore
politico non sono neutre. Servono, non significano; sono strumenti e il loro
significato cambia a seconda del punto di vista di chi le usa; a seconda, cioè,
che siano pronunciate da chi sta (o si mette) in basso o da chi sta (o si
mette) in alto nella piramide sociale. Occorre, perciò, diffidare delle parole
e dei concetti politici astratti. Assunti come assoluti e universali, producono
coscienze false e ingenue, se non anche insincere e corrotte. Potremmo
esemplificare questa legge del discorso politico parlando di democrazia,
governo, “governabilità”, libertà, uguaglianza, integrazione, ecc. e di diritti
e dignità. Si prenda “democrazia”: per coloro che stanno sopra e hanno vinto
una competizione elettorale, significa autorizzazione a fare quello che
vogliono; per coloro che stanno sotto e sono stati vinti, significa pretesa di
rispetto e di riconoscimento: fare e non fare; prepotenza e resistenza. Oppure
“politica”: forza sopraffattrice dal punto di vista dei forti, come quando la
si usa in espressioni come “politica di espansione”, “politica coloniale”,
“politica razziale”, “politica demografica”; oppure, esperienza di convivenza,
coinvolgimento e inclusione sociale. Oppure ancora: la (ricerca della)
“felicità”. Oggi, sono i potenti che rivendicano la propria felicità come
diritto, la praticano e la esibiscono come stile di vita, quasi sempre osceno e
offensivo. Ma non sentiremo un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai
debiti, un genitore abbandonato a se stesso con un figlio disabile, un migrante
senza dimora, un individuo oppresso dai debiti e strangolato dagli strozzini,
uno sfrattato che non ha pietra su cui posare il capo, una madre che vede il
suo bambino senza nome morire di fame: non li sentiremmo rivendicare un loro
diritto alla “felicità”. Sarebbe grottesco. Sentiremo questo eterogeneo popolo
degli esclusi e dei sofferenti chiedere non felicità ma giustizia. Ma, anche la parola giustizia non sfugge alla
legge dell’ ambiguità. Giustizia rispetto a che cosa? Ai bisogni minimi vitali,
come chiederebbero i senza nome e i senza terra; oppure ai meriti, come
sostengono i vincenti nella partita della vita? La giustizia degli uni è
ingiustizia per gli altri. Si comprende, allora, una verità tanto banale quanto
ignorata, nei discorsi politici e dei politici: se si trascura il punto di
vista dal quale si guardano i problemi di cui ci siamo occupati e si parla
genericamente di libertà, diritti, dignità, uguaglianza, giustizia, ecc., si
pronunciano parole vuote che producono false coscienze, finiscono per abbellire
le pretese dei più forti e vanificano il significato che avrebbero sulla bocca
dei più deboli. Onde, la conclusione potrebbe essere questa: queste belle
parole non si prestano a diventare stendardi che mobilitano le coscienze in un
moto e in una lotta comuni contro i mali del mondo, per la semplice ragione che
ciò che è male per gli uni è bene per gli altri. La vera questione è la
divisione tra potenti e impotenti. Tanto più le distanze diminuissero, tanto
più l’ ambiguità delle parole che usiamo diminuirebbe. Ma, è chiaro, qui il
discorso deve finire, perché si deve uscire all’ aperto, dove non bastano le
parole ma occorrono le azioni.
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