Da “Il
tramonto della nostra civiltà” (1994 – cap. “Ritratto dell’uomo politico”)
di Piero Ottone: (…). Le ideologie sono il tentativo di ordinare la vita sociale secondo
ragione, per raggiungere il massimo di giustizia; quando muoiono le ideologie
compaiono gli avventurieri. (…). Coloro che svolgono attività politica nel
nostro tempo presentano caratteristiche analoghe in tutti i Paesi
dell’Occidente: si somigliano tutti. (…). Fanno politica a tempo pieno. E da
essa traggono i loro guadagni, leciti o illeciti. Non manifestano profonde
convinzioni ideologiche, non inseguono nobili ideali, non si sentono investiti
da missioni storiche. La loro migliore qualità, quando c’è, consiste
nell’essere efficienti nell’arte di governo, e quindi ottenere, come nella
conduzione delle imprese,il massimo risultato con il minimo sforzo. Non vi sono
pertanto differenze marcate fra partito e partito, fra gruppo e gruppo. Anche i
programmi, come gli uomini, si somigliano. Quando affrontano temi politici di
carattere generale, sconfinano sovente nella demagogia. Hanno successo coloro
che sanno meglio adoperare i grandi mezzi di comunicazione, ieri la stampa e la
radio, oggi la televisione. La vittoria è questione di immagine; prevalgono
quelli che sanno diffondere l’immagine di una personalità vincente. (…).
Da “Evviva, sono morte le ideologie. Sopravvive solo lo sfruttamento” di Alessandro Robecchi, su “il Fatto Quotidiano” del 19 di agosto dell’anno 2015: Ma dunque confinano, si toccano, si somigliano, le campagne pugliesi in mano ai caporali, la luccicante modernità di Amazon, la Gran Bretagna conservatrice? Com’è possibile? A leggere le cronache di questi giorni si direbbe che il minimo comun denominatore è quello: sfruttamento e mortificazione del lavoro. Dall’inchiesta del New York Times, per esempio, l’impero Amazon esce, eticamente, a pezzi. Lavoratori costretti alle ottanta ore settimanali e spiati anche in bagno, addirittura esperimenti (si può dire fuor di battuta: su cavie umane) su come aumentare la produttività, lavoratrici incinte e lavoratori malati licenziati. Jeff Bezos, il capo di quell’impero da 250 miliardi di dollari, ha risposto indignato, ma l’inchiesta non è contestabile: il più fulgido esempio di modernissima azienda ne esce come una galera. Il salto dai grandi depositi di Amazon ai campi pugliesi sembra improponibile, eppure. Eppure basta leggere la storia di Paola Clemente, morta di fatica nei campi: si alzava alle tre di notte, tornava a volte dopo dodici-quindici ore tra viaggio e lavoro, per ventisette euro, il marito se l’è andata a riprendere nella camera mortuaria del cimitero di Andria, morta di lavoro. Dunque nell’era del turboliberismo, della crescita, dell’elogio del profitto senza se e senza ma, chi resta schiacciato è il lavoro, e insieme a lui, ovvio, i lavoratori. Sembrerebbe un fenomeno che avvolge il pianeta: in Gran Bretagna il governo conservatore parla di stroncare la “welfare-dipendenza”, cioè di creare infinite difficoltà a chi usufruisce dei sussidi, allo scopo di ridurli e con l’effetto di umiliare chi ne usufruisce. Sono più che segnali: è il trionfo di un’ideologia che ha seppellito tutte le altre al grido vile e interessato di “basta con le ideologie”. A resistere è rimasta l’ideologia più vecchia del mondo, lo sfruttamento. Una cosa così introiettata, così intimamente accettata che è diventata un cavallo di battaglia anche delle sinistre al governo. L’Unità che esalta i lavoratori della Elettrolux che decidono “liberamente” di lavorare a Ferragosto (quel “liberamente” dice tutto, e contiene tutta la vergogna degli attuali rapporti di forza tra lavoratori e imprese), la serena accettazione dei ribassi salariali perché “siamo in crisi”, il marchionnismo, nuovo fordismo 2.0, dove l’unica variabile indipendente è il profitto dell’azienda e tutto – anche la dignità di chi vi contribuisce lavorando – deve essere al suo servizio. Il linciaggio mediatico dei professori precari che non vogliono spostarsi di mille chilometri per guadagnare, non si sa per quanto, mille euro al mese, è un’altra variante dell’equazione: il lavoro non c’è e chi ha la fortuna di averlo si lamenta? Intollerabile. E via con la lapidazione di gente che ha studiato una vita e lavora (male) da anni, accusata oggi di chiedere privilegi anziché elementari diritti. In questo scenario (globale, non solo italiano), fa sorridere la polemica sulla sinistra italiana (attuale? Ex? Futura? Alternativa? Possibile?). Ne parlarono su questo giornale, una settimana fa, Antonio Padellaro e Giuseppe Civati, ognuno con i propri ottimi argomenti. E si disse dell’irrilevanza di una nuova possibile pattuglia di sinistra, o dei diritti dei gay, o della liberalizzazione delle canne, o delle sedicenti riforme o controriforme, eccetera eccetera. Ma del lavoro, della dignità del lavoro, della schiavitù che ci assedia – assecondata e accettata per “necessità” come fu sempre nella storia del mondo anche da chi si definisce “di sinistra” – poco o nulla. Eppure se non si (ri)parte da lì, da un diritto al lavoro dignitoso, ogni nuovo diritto sembrerà un premio di consolazione, poco più che orpello, concessione, regalia. In nome del profitto.
Da “Agli
antipartito i partiti piacciono ma senza regole” di Alberto Statera, sul
settimanale “Affari&Finanza” del 15 di febbraio 2016: (…). Correva il novembre 1946
quando Giuseppe Dossetti presentò un ordine del giorno sul riconoscimento
giuridico dei partiti politici. Ma Palmiro Togliatti tuonò: ”Non la legge deve
dettare queste norme, ma solo la Costituzione deve fissare lo sviluppo pacifico
della lotta nel paese”. E così l’Assemblea costituente sancì il diritto dei
cittadini ad associarsi in partiti politici senza alcun riferimento
all’organizzazione interna, né all’attribuzione di competenze costituzionali o
al rinvio della disciplina alla legge statale. I partiti sono associazioni di fatto,
prive di personalità giuridica, come una bocciofila. Per cui al loro interno
può capitare di tutto: minoranze che espellono maggioranze, tesseramenti e
conti fasulli. Allora, dopo vent’anni di fascismo, la democraticità del sistema
apparve forse meglio tutelata dalla “lacuna della legge”. Ma oggi, di fronte
alla nascita di partiti anti-sistema, della crisi tra società e politica e
della personalizzazione della leadership, con la verticalizzazione nella mani
di leader carismatici, è evidente che occorre una disciplina di tipo
pubblicistico che garantisca il sistema dalla brutalità antidemocratica (…) di
commissariare preventivamente gli eletti privandoli della possibilità di
dissentire dai capi e dal loro “staff” e del divieto del vincolo di mandato,
previsto dall’articolo 67 della Costituzione. Nel corso dei decenni decine di
proposte di legge sono approdate in Parlamento per regolamentare il fantasma
giuridico dei partiti: da quella di Luigi Sturzo nel ‘58 fino alle più recenti
di Spini, Castagnetti, Turco, Pisicchio, Sposetti, Veltroni e decine di altri.
Tutte finite nel nulla. Adesso tocca alla legge proposta in Senato da Zanda e
Finocchiaro, la quale prevede che per potersi candidare alle elezioni è
necessario che qualunque movimento politico acquisisca personalità giuridica
con tanto di statuti e regolamenti. Quindi, procedure di ammissione e
espulsione, applicazione della regola maggioritaria, tutela delle minoranze,
modalità di selezione delle candidature alle cariche pubbliche e modalità di
scelta del leader. Rispetto alle iniziative di singoli deputati e senatori,
sembra che questa volta l’impegno del Pd sia più corale, ma capite che dopo
tanti decenni di paralisi ogni dubbio è lecito. Fu già Aldo Moro in Parlamento
a spiegare il perché: “Il riconoscimento della funzione costituzionale dei
partiti presuppone la soluzione del problema della personalità giuridica che ad
essi non è stata ancora riconosciuta, ma mai è stato posto rimedio ad una
situazione troppo conveniente ai partiti stessi per pensare ad una soluzione”.
I tempi sono cambiati con la personalizzazione delle leadership, (…), e la
crisi tra società e politica. Ma sospettiamo che resti ancora “troppo
conveniente” per tutti la “lacuna della Costituzione”, con buona pace di una
rifondazione del patto ormai rotto tra politica e società civile.
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