Da “La mamma
di Vito e la promessa mancata del premier: verrò nella scuola di suo figlio”, tratto dal volume “#lacattivascuola - Un’inchiesta
senza peli sulla lingua -” di Alex Corlazzoli, su “il Fatto Quotidiano”
del 9 di giugno dell’anno 2015: “Pronto sono Matteo, disturbo? ”. Dall’altra
parte della cornetta, c’è Cinzia Caggiano, la mamma di Vito Scafidi morto a 17
anni per il crollo di un controsoffitto al liceo “Darwin” di Rivoli. “Matteo
chi? ”, replica la donna confusa per quella telefonata alle dieci della sera.
“Sono Matteo Renzi, il presidente del Consiglio”. Sono trascorsi
poco più di quindici giorni dall’insediamento del nuovo governo alla guida
dell’ex sindaco di Firenze. Cinzia, una donna dal fisico esile, ma dal
carattere determinato, perennemente stravolta da quel 22 novembre 2008, quella
sera decide di scrivere una mail al
nuovo inquilino di palazzo Chigi. “Buongiorno Presidente Renzi, sono Cinzia
Caggiano e le scrivo per raccontarle la mia storia. Ho 44 anni e da cinque vivo
in un incubo. È cominciato il 22 novembre
2008. Un sabato mattina come tanti, in cui ero al mercato a fare la
spesa. Quando è arrivata una telefonata che ha spezzato in due la mia vita.
Pareva che mio figlio si fosse sentito male, a scuola, durante lezione. Solo
dopo ho capito veramente quello che era
successo. Lascio che sia mio figlio Vito a raccontarglielo. “Mi chiamo Vito
Scafidi, non amo parlare di me al passato quindi dico mi chiamo e non mi
chiamavo. Sono un ragazzo normale, l’unica cosa che mi rende diverso da voi è
che avrò 17 anni per sempre perché la mia vita è finita improvvisamente mentre
cercavo di costruire al meglio il mio
futuro. (…). Il soffitto della mia aula scolastica mi è
crollato addosso, spezzando la mia vita. ” (…). Tre ore dopo la chiamata di
Renzi. Cinzia non si lascia intimidire dalla voce del primo ministro. Gli
ricorda che dal 2008 ad oggi ha visto passare sotto i suoi occhi in lacrime,
quattro governi, tante parole e pochi fatti. Ma stavolta si cambia. Renzi le
annuncia che ha stanziato due miliardi per le ristrutturazioni delle scuole e
che dedicherà questa misura proprio a Vito. Si lasciano con l’impegno di
prendersi un caffè insieme perché quella
mamma non è una parlamentare, non
ha un ruolo politico ma conosce meglio di altri le aule del nostro Paese che ha
visto girando l’Italia dal 2008 ad oggi. Non si vedranno mai. Anzi. Mamma
Cinzia prova ad invitare il premier proprio
il 22 novembre del 2014, alla
marcia che si tiene ogni anno per ricordare Vito. Ma nulla. Il presidente non
risponde più alle mail della signora Caggiano. Il premier non si farà vedere.
In
compenso Renzi nel suo primo discorso al
Parlamento, il 24 febbraio 2014, aveva annunciato di continuare a voler andare
nelle scuole proprio come quando era sindaco: “Da presidente del
Consiglio io entrerò nelle scuole, una volta ottenuta – se così sarà – la fiducia
del Senato e della Camera. Mercoledì
mattina, come faccio tutte le settimane, mi
recherò in una scuola; la prima
sarà un istituto di Treviso mentre
la settimana prossima andrò in
una scuola del Sud. E lo farò perché penso che sia fondamentale che il governo
non stia soltanto a Roma e, quindi, mi recherò nelle scuole, come facevo da
sindaco, per dare un segnale simbolico, se volete persino banale che da lì
riparte il Paese”. (…).
Da “Bandi
finti, baroni e tagli: io, precaria a vita negli atenei”, lettera aperta di
Gilda Policastro – ricercatrice - su “il Fatto Quotidiano” del 2 di febbraio
2016: Caro Matteo Renzi, le scrivo perché ogni giorno sento lei e i suoi
ministri parlare di cambiamento, di rinnovamento, di riforme. Soprattutto
quest’ultima voce parrebbe potersi caricare di promesse e speranze al sapore di
“realtà effettuale”, per dirla con Machiavelli: si sta riformando, a sentirvi,
quest’Italia dei figli e dei nipoti le cui condizioni sociali ed economiche per
una larga maggioranza degradano rispetto a quelle dei nonni e dei padri. Si
stanno rinnovando, da quel che proclamano interviste e tweet quotidiani, la
scuola e l’università, ovvero i settori su cui gli stati moderni hanno basato
la loro crescita anche materiale, perché non può esserci sviluppo senza ricerca
e senza avanzamento delle conoscenze. (…). Chi le scrive appartiene alla generazione
dei nati negli anni Settanta, una generazione sciagurata che ha attraversato
riforme della scuola e dell’università il cui esito non ha impedito il
perpetuarsi, specie nella seconda, di un sistema di carriere baronale, in cui
si procede per investitura e per feudi, deliberando su posti e avanzamenti
attraverso veri e propri accordi e scambi tra potentati locali, laddove sarebbe
legittimo attendersi liberi concorsi e pari condizioni di accesso (a parità di
titoli, si capisce) sull’intero territorio nazionale. (…). I miei genitori,
entrambi insegnanti di scuola, hanno investito nella mia formazione
garantendomi la copertura economica di un alloggio nelle città in cui ho scelto
di studiare e perfezionarmi, ma soprattutto di tasse maggiorate rispetto a quelle
di studenti figli di imprenditori o liberi professionisti i quali, a differenza
degli statali, potevano consentirsi qualche deroga o “autosgravio” fiscale (si
chiamerebbe evasione, in uno Stato più equo, e sarebbe combattuta). (…). Ho
cominciato il mio percorso lavorativo con il cosiddetto “assegno di ricerca”,
che implicava, oltre alla ricerca propriamente detta, un consistente supporto
alla didattica, attraverso lezioni, esami, ricevimento degli studenti,
correlazione di tesi, per giunta in una sede diversa dalla città di residenza,
perciò accollandomi le spese di spostamenti e alloggio, ove necessario.
L’assegno mi è stato rinnovato per quattro anni, perciò un’università italiana
ha avuto modo di verificare per un ampio arco temporale la mia attitudine alla
ricerca e all’insegnamento, offrendomi oltretutto la possibilità di guadagnare
18 mila euro all’anno. Poi più nulla: il finanziamento con cui il mio assegno
veniva richiesto e rinnovato ha avuto termine e dal 2010 al 2012 non ho avuto
la possibilità di radicarmi in nessun contesto universitario perché nel
frattempo i concorsi venivano banditi con sempre minor frequenza, e,
soprattutto, già destinati in partenza a qualcuno, anche se naturalmente poteva
darsi qualche circostanza particolare (sfortunata per il designato e fortunata
per i suoi competitor) che scombinasse i piani al barone di turno, ma si
trattava di situazioni rarissime e per lo più leggendarie. Nel frattempo ho
chiesto all’Inps, a cui ero stata costretta a iscrivermi all’atto della stipula
del primo contratto, un sussidio di disoccupazione (o “sostegno al reddito”,
come si chiamava qualche anno fa), ma non ne avevo i requisiti: l’assegno di
ricerca, che pure è retribuito, non è considerato un “lavoro”, ai fini
previdenziali, e dunque se non hai mai lavorato non puoi nemmeno dichiararti
disoccupato, a rigore. (…). Personalmente di abilitazioni (o idoneità che dir
si voglia) ne ho avute due, nel macrosettore di Letteratura italiana
(comprensivo di Critica letteraria e Letterature comparate) e in quello di
Letteratura italiana contemporanea: sono trascorsi oramai due anni (…) durante
i quali non è stato bandito nessun concorso aperto per la mia posizione
(docente di seconda fascia, cioè Professore associato), in nessuno dei due
settori. Alla reiterata richiesta di chiarimenti e consigli sul da farsi, i
docenti con cui negli anni ho a vario titolo collaborato replicavano con una
serie di informazioni per lo più vaghe e contraddittorie, da cui ricavavo
un’unica certezza: non avrei mai avuto nessun posto, perché questo per
un’università avrebbe implicato un investimento assolutamente improponibile,
quantificato nei misteriosi “punti organico” (assegnati non si sa come non si
sa da chi a ciascun ateneo e stimabili, nel caso di un non strutturato, attorno
allo 0.70 sull’1 e qualcosa mediamente disponibile, a fronte dei soli 0.20
necessari per lo scatto di carriera di un interno). (…). Caro Renzi, lei a
questo punto probabilmente si unirà al coro generale, chiedendomi come mai non
abbia ancora pensato a cercarmi qualcos’altro, e ripetendomi che è necessario
oggidì essere flessibili e adattarsi. Ma avete mai provato, voi che
incoraggiate e sostenete la flessibilità, a fare dei colloqui di lavoro con un
curriculum prevalentemente universitario? In qualunque ambito la preparazione
“iperqualificata” è ritenuta un limite, non un potenziale, proprio perché di
ostacolo alla cosiddetta flessibilità. Editoria, giornalismo culturale, siti
web: nessuno è disposto a pagare un plurititolato per lavori “di basso profilo”
(revisione di testi, traduzione, correzione di bozze, lavoro redazionale di
qualsiasi genere) che peraltro nella gran parte dei casi nemmeno esistono più o
vengono dati in appalto ai cosiddetti service, assimilabili ai call center di
una volta nella funzione di calmierare i giovani laureati in cambio di pochi
spiccioli e nessuna prospettiva. (…). Caro Renzi, noi siamo pressoché coetanei,
perciò in zona congedo azzardo una maggior confidenza e ti domando: nei miei
panni, tu, cosa faresti? (…). Con i miei più sinceri auguri.
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